Svolgimento del processo

1. A.P., assunto come cuoco dalla società Chef Italia nel gennaio 1989, e destinato presso l’unità sita nell’aeroporto (OMISSIS), ha convenuto in giudizio la società lamentando una serie di comportamenti vessatori nei suoi confronti, consistiti principalmente nell’inflizione di dodici sanzioni disciplinari dall’agosto del 1991 al maggio del 1993, lamentando che tutto questo gli aveva provocato una grave patologia depressiva.

Il primo giudice accoglieva la domanda, e condannava la società al pagamento di L. 35.000.000 a titolo di risarcimento del danno biologico e del danno esistenziale, nonchè al rimborso di quanto trattenuto in esecuzione delle sanzioni disciplinari irrogate e che erano considerate illegittime.

Con sentenza n. 229, in data 2 – 10 marzo 2004, la Corte d’Appello di Firenze, accoglieva parzialmente l’appello principale della società Chef Italia s.p.a., riducendo la condanna a carico di quest’ultima al pagamento all’ A. di Euro 4.750,00 per danni biologico, esistenziale e morale, nonchè a corrispondergli l’importo delle sanzioni, detratto quanto corrispondeva a quelle ritenute legittime.

La sentenza riteneva, infatti, che le sanzioni fossero in gran parte ingiustificate, perchè irrogate per colpe inesistenti, oppure di modestissimo rilevo, che ne fosse derivato una lesione della salute del ricorrente, e liquidava i danni equitativamente, in misura inferiore alle somme richieste dall’ A..

2. Avverso la sentenza, che non risulta notificata, l’ A. ha proposto ricorso per Cassazione, con sei motivi, notificato, in termine, il 28 ottobre 2004.

La società Chef Italia s.p.a. resisteva con controricorso notificato, in termine, il 3 dicembre 2004, e proponeva contestualmente ricorso incidentale, con due motivi.

Resisteva a sua volta l’ A. con controricorso al ricorso incidentale, notificato, in termine, il 10 gennaio 2005.

Infine, il ricorrente principale, ha depositato una memoria difensiva.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente principale deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. nonchè l’omessa, contraddittoria e comunque insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia. Critica la sentenza per avere ritenuto che non fosse stata proposta un’azione di mobbing, e precisa di avere sottolineato nel ricorso introduttivo l’intento persecutorio insito nel comportamento illegittimo della società. 2. Con il secondo motivo l’ A. lamenta, invece, la violazione e falsa applicazione degli artt. 41 Cost., artt. 1223, 2087 c.c. artt. 40 e 41 c.p., e l’omessa, contraddittoria e comunque insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia.

Lamenta che la Corte d’Appello avesse affermato l’assoluta irrilevanza delle condizioni fisiopsichiche del soggetto che aveva subito le vessazioni, ed avesse ritenuto che non tutta la percentuale del danno biologico stabilizzato fosse conseguenza diretta della pratica vessatoria.

3. Con il terzo, il quarto ed il quinto motivo il ricorrente principale deduce, sotto tre diversi profili, la violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 1226 e 2087 c.c. (e per il solo quarto motivo, anche dell’art. 41 Cost.), nonchè l’omessa, contraddittoria e comunque insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia.

In particolare, nel terzo motivo critica la sentenza per avere liquidato la quota di danno biologico nel valore di Euro 550,00 a punto, per un totale di Euro 2.750,00.

Secondo il ricorrente questa liquidazione era inadeguata, inferiore agli importi per punto liquidati in altre sedi giudiziarie.

Inoltre il giudice avrebbe dovuto motivare in maniera congrua sull’adeguamento della regola ponderale alle circostanze del caso concreto.

Nel quarto e nel quinario motivo il ricorrente critica la sentenza per avere liquidato in via equitativa, rispettivamente, il danno esistenziale ed il danno morale, e per avere ritenuto equo assegnare a questi fini le somme di Euro 1.000,00 per ognuna delle due voci, respingendo le maggiori richieste del lavoratore.

Le motivazioni su questi punti erano carenti.

4. Con il sesto ed ultimo motivo, infine, l’ A. deduce, sotto un profilo ulteriore, la violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 1223 e 2087 c.c. nonchè l’omessa, contraddittoria e comunque insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia.

Lamenta che la sentenza gli abbia negato il risarcimento del danno patrimoniale subito per la cessazione del rapporto di lavoro, avendo ritenuto che queste pretese fossero coperte dalla transazione giudiziale nella quale lo stesso A. aveva espressamente rinunziato alla domanda di reintegrazione nel posto di lavoro ed alle richieste economiche connesse. Il ricorrente sostiene che, invece, la propria domanda non si basava sull’illegittimità di licenziamento, ma sul comportamento vessatorio subito, che aveva avuto come conseguenza ultima, a seguito della malattia che ne era derivata, il licenziamento per superamento del periodi di comporto.

Precisa di avere contestato, nel precedente giudizio, il licenziamento per superamento del comporto, e di averne chiesto l’annullamento, e la reintegrazione nel posto di lavoro, senza entrare nel merito dei motivi che avevano causato le assenze per malattia.

La sua rinunzia copriva soltanto le domande alternative di reintegrazione o di indennità economica sostitutiva, mentre l’attuale pretesa risarcitoria prescindeva dall’illegittimità, o meno, del licenziamento irrogato.

5. Con il primo motivo del ricorso incidentale la società Chef Italia eccepisce la violazione e falsa applicazione degli artt. 116 c.p.c., artt. 2087 e 2697 c.c., nonchè l’omessa, contraddittoria, e comunque insufficiente motivazione, sul punto della valutazione delle deposizioni testimoniali, con mancato riconoscimento del difetto di prova della responsabilità del datore di lavoro per la salute dei propri lavoratori.

Ricorda che l’art. 2087 c.c. non configurava un caso di responsabilità oggettiva, che la responsabilità del datore di lavoro andava collegata alla violazione di precisi obblighi di comportamento, e che spettava al lavoratore dimostrare l’esistenza del danno ed il nesso di causalità. Sostiene anche che tutte le sanzioni disciplinari irrogate all’ A. erano state precedute da contestazioni immediate e specifiche e non erano state impugnate tempestivamente dall’interessato, e critica in dettaglio la lettura data alla sentenza alle risultanze testimoniali.

6. Con il secondo motivo la società deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 c.c. e art. 116 c.p.c. nonchè l’omessa, contraddittoria, e comunque insufficiente motivazione, sul punto dell’accertamento del nesso di causalità e della valutazione delle risultanze della CTU. L’esistenza del nesso tra i comportamenti persecutori da parte del datore di lavoro ed il pregiudizio alla propria salute doveva essere provato dal lavoratore che ne era stato vittima.

Nel caso, inoltre, di malattie ad eziologia multifattoriale il nesso causale non poteva essere oggetto di presunzioni, ma doveva essere oggetto di dimostrazione specifica.

Secondo la ricorrente incidentale in questo caso la consulenza tecnica non aveva dimostrato l’esistenza del nesso causale tra il comportamento del datore di lavoro e lo stato depressivo del ricorrente.

7. Preliminarmente i due ricorsi, quello principale, e quello incidentale, proposti contro la medesima pronunzia, debbono essere riuniti obbligatoriamente ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

8. Il primo motivo del ricorso principale è inammissibile per difetto di interesse.

Il ricorrente si limita a proporre argomentazioni tecniche, relative alla qualificazione (come mobbing) dell’azione proposta, che di per se stesse non sono funzionali ad una modifica della decisione.

9. Il secondo motivo del ricorso principale si risolve in parte nella richiesta di rivalutazione di circostanze di fatto.

Il ricorrente lamenta, infatti, che la Corte d’Appello abbia ritenuto che “già prima dei fatti di cui è causa il sig. A. fosse affetto da una “patologia depressiva” che avrebbe notevolmente inciso sul danno biologico patito dal lavoratore”, che “vi fosse una patologia pregressa così seria da produrre, comunque e prescindere da quanto poi verificatosi sul luogo di lavoro, gran parte del danno biologico accertato (p. 15 del ricorso).

Queste contestazioni, però, attengono al piano del fatto, non a quello del diritto.

La rivalutazione delle circostanze di fatto così richiesta è però inammissibile in questa sede di legittimità.

Nè sussistono le contraddizioni lamentate dal ricorrente, ma, al contrario, la motivazione della sentenza, lunga e dettagliata, è completa, attenta al riscontro delle circostanze di fatto, coerente nei passaggi attraverso i quali, partendo da quelle circostanze di fatto (ed in particolare dalle risultanze degli accertamenti peritali), è giunta fino alla decisione adottata.

10. Sotto un diverso profilo il motivo propone una problematica di diritto.

Il ricorrente ha chiesto il risarcimento dell’intero danno subito.

Nel caso di specie la sentenza di merito ha ritenuto che il deterioramento delle condizioni di salute del signor A., che è manifestato nelle varie voci di danno di cui l’interessato ha chiesto il risarcimento, fosse l’effetto complessivo di una molteplicità di fattori, vale a dire del comportamento datoriale di carattere vessatorio e di eventi naturali, inerenti alla salute del soggetto, ma preesistenti alla condotta del datore di lavoro, o, comunque, estranei ad essa.

Si pone perciò il problema del rapporto di causalità e quello del concorso di cause.

A questi fini deve essere applicato il principio generale di causalità, criterio logico assunto dall’ordinamento a principio di diritto positivo di validità generale, anche nell’ambito del diritto civile, ma, innanzi tutto, in quello del diritto penale, in cui trova la sua disciplina positiva sul piano generale agli artt. 40 e 41 c.p..

Per quanto qui interessa l’art. 40 prevede che nessuno sia responsabile per un fatto se l’evento dannoso “non è conseguenza della sua azione od omissione. “L’art. 41 disciplina il concorso di cause, e dispone, sempre per quanto qui interessa, che “il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento. Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento.”.

Per fondare la responsabilità è necessario, perciò, che la condotta, dolosa o colposa, attiva od omissiva, dell’agente abbia avuto efficienza causale, anche soltanto a livello di concausa, nella produzione dell’evento dannoso, che quest’ultimo si sia verificato a causa della condotta (anche se non necessariamente soltanto a causa di essa), e correlativamente, che quell’evento non si sarebbe verificato se quella condotta non fosse stata posta in essere. Come sottolineato, infatti, da questa Corte, “un evento dannoso è da considerarsi causato sotto il profilo materiale da un altro, se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cosiddetta teoria della conditio sine qua non)” (Cass. civ., 31 maggio 2005, n. 11609; nello stesso senso, 19 luglio 2005, n. 15183; 10 maggio 2000, n. 5962).

Quando la sua condotta abbia concorso insieme a circostanze naturali alla produzione dell’evento l’agente deve rispondere per l’intero danno, che altrimenti non si sarebbe verificato.

Agli effetti civili nei confronti del danneggiato non può invocare l’esistenza di altre cause per ottenere una riduzione proporzione del risarcimento dovuto.

Può farlo invece, in caso di una pluralità di soggetti agenti, agli effetti interni, nella ripartizione della somma dovuta tra i vari responsabili, che però sono tenuti tutti solidalmente nei confronti del danneggiato.

Non può sussistere, invece, nessuna responsabilità dell’agente per quei danni che non dipendano dalla sua condotta, che si sarebbero verificati anche senza di essa.

Di conseguenza non può essere addebitato all’agente quel danno che si sarebbe comunque verificato indipendentemente dalla condotta, e, a maggior ragione, quello che era preesistente.

Deve essergli addebitato, invece, il maggior danno, oppure l’aggravamento, che sia intervenuto per effetto della condotta dell’agente, che non si sarebbero verificati senza di essa. In tal caso, però, l’agente sarà responsabile soltanto di questo maggior danno, della differenza tra il danno che si sarebbe verificato in ogni caso, oppure che era preesistente, e quello che invece è stato raggiunto una volta che su quanto preesistente, o comunque estraneo alla condotta di quel soggetto (perchè imputabile ad altri soggetti o dovuto a cause naturali non addebitagli all’uomo), si sono innestate, anche a livello di concausa, e non di causa esclusiva, le conseguenze della condotta.

Per la quota differenziale di danno, d’altra parte, all’interno di essa, l’agente non potrà avvalersi della possibile sussistenza di concause, ma sarà responsabilità per intero, indipendentemente dalla sua misura percentuale di colpa.

In questi casi è necessario, perciò, distinguere tra il danno indipendente dalla condotta, ed il maggior danno, o l’aggravamento, che siano imputabili alla condotta dell’agente.

11. Il ricorrente invoca espressamente in proprio favore un precedente da questa Corte che ha affermato che “in materia di rapporto di causalità nella responsabilità extracontrattuale, in base ai principi di cui agli artt. 40 e 41 c.p., qualora le condizioni ambientali od i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell’uomo siano sufficienti a determinare l’evento di danno indipendentemente dal comportamento medesimo, l’autore dell’azione o della omissione resta sollevato, per intero, da ogni responsabilità dell’evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale,’ qualora, invece, quelle condizioni non possano dar luogo, senza l’apporto umano, all’evento di danno, l’autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità; in tal caso, infatti, non può operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile.” Cass. civ., 9 aprile 2003, n. 5539).

L’ A. fa leva sulla seconda parte della massima, e ritiene che nel suo caso non possa operarsi una riduzione proporzionale della responsabilità del datore in relazione alla sussistenza di altre concause di carattere naturale. In realtà il principio di diritto espresso dalla massima ha carattere unitario, e le varie proposizioni che ne fanno parte non possono essere lette separatamente: è stata affermata la responsabilità dell’agente per gli eventi provocati dalla sua condotta, che trovano in essa un antecedente causale, ma anche la sua assenza di responsabilità per gli eventi alla cui causazione la sua condotta è rimasta estranea, che non trovano in essa un antecedente causale, 12. Come risulta dalla lettura di quella motivazione, nella fattispecie esaminata da questa Corte nella sentenza, sopra menzionata, n. 5539/2003 (come pure in quelle esaminate dalle sentenze n. 5924 del 27 maggio 1995, e n. 981 del primo febbraio 1991, pure richiamate dal ricorrente come precedenti, e relative peraltro, entrambe, a danni subiti da immobili per effetto di eventi franosi) la condotta dell’agente aveva concorso insieme a circostanze naturali alla produzione dell’evento.

Le cause naturali costituivano delle cause concorrenti nel senso proprio che l’evento non si sarebbe verificato senza di esse, ma non si sarebbe verificato neppure senza la condotta dell’agente.

Questa evenienza non corrisponde, però, a quanto si era verificato nella fattispecie che è oggetto di questa causa.

13. Nel caso di specie, il giudice del merito ha accertato, motivando adeguatamente su questo punto anche sulla base degli accertamenti peritali, che, di per se stesso, il danno psicofisico dell’ A. era preesistente, e comunque indipendente dalla condotta del datore.

Infatti, lo stato di salute dell’ A. ha subito nel corso degli anni un grave peggioramento progressivo, perchè era affetto da “una grave forma di depressione affettiva con spiccata componente ansiosa, parzialmente somatizzata a livello cardiaco e caratterizzata da totale assenza di autostima” (p. 13 della sentenza), ed il comportamento vessatorio del datore di lavoro (che pure è stato riconosciuto, e ritenuto non privo di effetti dannosi) è sopravvenuto in una situazione già compromessa, innestandosi non soltanto su un tessuto già fragile e predisposto, ma anche “su una patologia depressiva sicuramente già incidente e responsabile di buona parte del successivo notevole aggravamento dello stato del soggetto” (pp. 13 e 14 della sentenza).

Ciò significa che – come appunto ha ritenuto in fatto la sentenza impugnata – il danno era preesistente, e si è sviluppato naturalmente generando per forza propria ulteriori contraccolpi pregiudizievoli, che – proprio perchè conseguenza di patologia già in atto – si sarebbero verificati in ogni caso indipendentemente dalla condotta del datore. Quest’ultima, anche nel concorso delle altre circostanze, ha generato soltanto un aggravamento ulteriore, una quota addizionale di danno, che poteva essere addebitata, soltanto essa, al datore di lavoro.

Di conseguenza, il datore era tenuto al risarcimento soltanto di questo danno aggiuntivo, non dell’intero.

14. Il giudice del merito ha provveduto alla liquidazione di questo maggior danno imputabile al datore, e, in mancanza di parametri certi, lo ha fatto in via equitativa.

L’entità di questa liquidazione costituisce una questione di mero fatto, che, per sua natura, non può essere riesaminato nel giudizio di legittimità.

Per queste considerazioni il secondo motivo del ricorso principale risulta infondato sotto tutti i diversi profili.

15. Sono infondati, a loro volta, anche i successivi motivi del ricorso principale, il terzo, il quarto, ed il quinto.

Si tratta di motivi che sono connessi tra loro e possono essere esaminati congiuntamente.

Ripropongono tutti questioni di fatto, relative alla valutazione e alla misura della liquidazione delle singole voci di danno, relative, rispettivamente, al danno biologico (nel terzo motivo), al danno esistenziale (nel quarto motivo), ed al danno morale (nel quinto motivo).

Anche queste sono tutte questioni di liquidazioni, e perciò di mero fatto, che per la loro stessa natura non possono essere riesaminati in questa fase di mera legittimità.

In sostanza il ricorrente richiede, sotto tutti questi profili, una rivalutazione delle circostanze di fatto, ma questo non è ammissibile.

Sul piano logico, come pure sotto il profilo giuridico, non è significativo che, in fattispecie che possono essere molto diverse, altri giudici del merito abbiano liquidato somme differenti, più elevate (oppure meno elevate).

Nè va dimenticato che è risultato addebitabile al datore non l’intero danno, ma soltanto una quota di maggior danno, di aggravamento successivo e non dipendente in via esclusiva dai fattori causali preesistenti.

Il risarcimento non poteva che essere limitato a questo danno differenziale, e la condanna a carico della società Chef Italia s.p.a., non poteva che essere determinata in misura corrispondente.

In concreto il giudice del merito ha valutato che questa quota di maggiore danno da addebitare al datore fosse relativamente ridotta, e per questo ha riconosciuto per le varie voci di danno somme di gran lunga inferiori a quelle che erano state richieste dall’interessato.

16. E’ infondato, infine, il sesto ed ultimo motivo di impugnazione, con il quale il ricorrente principale lamenta che gli sia stata negata la liquidazione del danno subito per la cessazione del rapporto lavorativo.

Come giustamente rilevato dalla Corte d’Appello di Firenze le pretese economiche conseguenti alla cessazione del rapporto di lavoro erano “coperte”, infatti, da una transazione giudiziale sottoscritta 16 febbraio 1994, nella quale A.P.L. aveva espressamente rinunziato alla domanda di reintegrazione nel posto nel posto di lavoro ed “quelle economiche connesse”, formula questa nella quale – come sottolinea la sentenza della Corte d’Appello di Firenze – “non possono che n’entrare tutte le tipologie di danni diretti ed indiretti derivanti dall’asseritamele illegittimo provvedimento di risoluzione del rapporto di lavoro.”.

Secondo il ricorrente la rinunzia dell’ A. avrebbe per oggetto esclusivamente le domande alternative di reintegrazione oppure di indennità sostitutiva ai sensi dell’art. 18.

L’allegazione però è smentita dalla formula testuale utilizzata nel verbale di conciliazione, e dalla logica stessa della conciliazione che la funzione di definire in maniera irrevocabile i diritti ed i doveri delle parti, ponendo termine, in via transattiva, alle controversie in corso, e prevenendo quelle future, che siano comunque relative all’oggetto del contrasto, nel caso di specie alla legittimità, o meno, del licenziamento intimato dalla società Chef Italia al signor A. ed alle conseguenze di essa.

Nè il ricorrente allega che la propria rinunzia conteneva limitazioni o riserve.

Anche ammettendo, in via di ipotesi, che il licenziamento avesse comportato ulteriori danni suscettibili di risarcimento, oltre all’indennità sostitutiva delle retribuzioni non percepite, anche essi sarebbero stati ricompresi nell’oggetto della conciliazione e nelle rinunzie che essa ha comportato.

17. A titolo di risarcimento della specifica voce di danno relativa alla cessazione del rapporto di lavoro non potevano essere riconosciute, però, ulteriori poste oltre all’indennità sostitutiva.

La normativa prevede espressamente, alla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, per il caso di illegittimità del licenziamento, che sia stato dichiarato inefficace, oppure annullato, oppure dichiarato nullo, la condanna del datore di lavoro non soltanto alla reintegrazione del dipendente licenziato nel posto di lavoro (al primo comma), ma anche al risarcimento del danno subito da quest’ultimo, determinandolo (al comma 4) in “un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dai giorno dei licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione”, e comunque non inferiore a cinque mensilità di essa, nonchè nel versamento dei contributi previdenziali per il medesimo periodo.

Qualora la L. n. 300, art. 18, non sia applicabile (a causa dei limiti dimensionali dell’impresa) l’indennità è più ridotta, nelle misure indicate dalla L. 15 luglio 1996, n. 604, art. 8, come sostituito dalla L. 11 maggio 1990, n. 108, art. 2.

In queste norme il legislatore ha predeterminato il risarcimento dovuto per l’illegittimità del licenziamento.

18. Nè possono essere confusi con la voce di danno riferita alla cessazione del rapporto di lavoro i danni da risarcire, eventualmente, per un titolo diverso, e risarciti in concreto, nella misura in cui sono stati riconosciuti, ad altro titolo, vale a dire per i titoli dedotti nei motivi precedenti del medesimo ricorso principale.

Il ricorrente argomenta anche che la perdita del posto di lavoro, a seguito del licenziamento irrogatogli per superamento del comporto per malattia, era una conseguenza della patologia da cui era affetto, e che questa era a sua volta una conseguenza comportamento vessatorio subito.

In questo senso la perdita del posto di lavoro sarebbe stata una conseguenza mediata ed indiretta dello stesso comportamento vessatorio.

Questo profilo di censura è inammissibile, oltre che non fondato, perchè presuppone anch’esso una rivalutazione delle circostanze di fatto che non è più consentita in un giudizio di legittimità.

La sentenza ha ritenuto, infatti, a pag. 20, che l’illegittimo esercizio del potere disciplinare avesse già trovato il suo idoneo integrale risarcimento secondo criteri congrui, sottolineando anche che il collegamento tra questo esercizio illegittimo di potere ed il licenziamento per superamento del periodo di comporto, pur astrattamente configurabile, non era neppure stato dedotto in sede di impugnativa del recesso datoriale.

La circostanza, peraltro, non trova riscontro nell’accertamento di fatto contenuto nella sentenza impugnata; il fatto che quel collegamento fosse astrattamente configurabile non significa che sussistesse effettivamente.

19. E’ infondato, a sua volta, anche il ricorso incidentale della società Chef Italia s.p.a..

I due motivi sono inammissibili.

Entrambi, relativi il primo alla valutazione delle prove sulla sussistenza del carattere vessatorio del comportamento datoriale, ed il secondo all’esistenza di un nesso di causalità tra il comportamento datoriale ed il pregiudizio subito dal lavoratore, ripropongono, infatti, questioni di fatto non più suscettibili di riesame in questa fase di legittimità.

Come la maggior parte dei motivi del ricorso principale anche i due motivi del ricorso incidentale si risolvono nella richiesta, non ammissibile, di rivalutazione delle circostanze di fatto.

Su entrambi i punti, del resto, la motivazione della Corte d’Appello di Firenze appare completa ed adeguata.

20. In conclusione, i due ricorsi, quello principale e quello incidentale, debbono essere entrambi rigettati.

Stante la reciproca soccombenza sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese di giudizio.

21. Con riferimento specifico al secondo motivo del ricorso principale, deve essere affermato il seguente principio di diritto:

In materia di rapporto di causalità nella responsabilità extracontrattuale, in base ai principi di cui agli artt. 40 e 41 c.p., qualora la condotta abbia concorso insieme a circostanze naturali alla produzione dell’evento, e ne costituisca un antecedente causale, l’agente deve rispondere per l’intero danno, che altrimenti non si sarebbe verificato. Non sussiste, invece, nessuna responsabilità dell’agente per quei danni che non dipendano dalla sua condotta, che non ne costituisce un antecedente causale, e si sarebbero verificati ugualmente anche senza di essa, nè per quelli preesistenti. Anche in queste ultime ipotesi, peraltro, debbono essere addebitati all’agente, i maggiori danni, o gli aggravamenti, che siano sopravvenuti per effetto della sua condotta, anche a livello di concausa, e non di causa esclusiva, e non si sarebbero verificati senza di essa, con conseguente responsabilità dell’agente stesso per l’intero danno differenziale.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa le spese.
Così deciso in Roma, il 10 gennaio 2007.
Depositato in Cancelleria il 8 giugno 2007