Svolgimento del processo

Con la sentenza ora denunciata, il Tribunale di Potenza confermava la sentenza del Pretore della stessa sede, che – pronunciando sulla domanda proposta da M.M. contro l’Associazione nazionale mutilati ed invalidi del lavoro (ANMIL) – sezione provinciale di Potenza, della quale era stata dipendente fino alle proprie dimissioni per giusta causa, e diretta ad ottenere il risarcimento dei danni (patrimoniali, psicologici e morali) subiti in dipendenza del “comportamento vessatorio tenuto nei suoi confronti dal Presidente dell’Associazione, P.A.” – aveva, bensì, riconosciuto il diritto della lavoratrice alla indennità sostitutiva del preavviso, in dipendenza delle dimissioni per giusta causa, mentre aveva rigettato le altre domande – dirette ad ottenere il risarcimento dei danni – essenzialmente, in base ai rilievi seguenti: – la violazione della disposizione – correttamente invocata dalla lavoratrice, in quanto idonea a tutelare la propria personalità morale ed integrità psico-fisica ( art. 2087 c.c.) – è fonte di responsabilità contrattuale, in relazione alla quale la prova liberatoria, a carico del datore di lavoro, risulta particolarmente rigorosa, dovendo dimostrare di “avere fatto tutto il possibile per evitare l’evento dannoso” – ora “i fatti mobbizzanti, posti in essere dal P., hanno prodotto (alla lavoratrice) delle rilevanti conseguenze sul piano morale e psico-fisico”; – tuttavia, “come congruamente argomentato dal giudice di prime cure, detti fatti sono ascrivibili alla persona fisica ( P.), dimodochè non è ravvisabile in capo all’Associazione una diretta ed immediata responsabilità”; – infatti non è possibile “colpevolizzare” l’associazione – in base al criterio che il datore di lavoro “è tenuto a predisporre tutti i mezzi e ad adottare tutte le cautele richieste in generale dalla norma e da identificarsi in concreto, caso per caso, in base al criterio della diligenza, prudenza e perizia” – in quanto gli interventi della sede centrale della Associazione – che (previa audizione della lavoratrice alle date del 22 febbraio, 7 e 23 maggio 1990) ha deferito il P. al collegio dei probiviri – sono “da considerarsi tempestivi e, soprattutto, esaustivi degli obblighi contrattuali e dei doveri giuridici posti a carico del datore di lavoro a tutela del lavoratore” (infatti non risulta provato che la lavoratrice abbia informato, sin dai settembre 1989, la sede centrale dell’Associazione, nel difetto di qualsiasi timbro od altro elemento atto a dimostrare la data di spedizione del documento prodotto con l’indicazione “missiva della M. del settembre 1989”).

Avverso la sentenza d’appello, M.M. propone ricorso per Cassazione, affidato a due motivi ed illustrato da memoria.

L’intimata l’Associazione nazionale mutilati ed invalidi del lavoro (ANMIL) – sezione provinciale di Potenza resiste con controricorso.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso – denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto ( artt. 1228, 2087 c.c., art. 2104 c.c., comma 2, artt. 2118, 2119, 2909 c.c., artt. 2, 15, 32, 35 Cost., L. 20 maggio 1970, n. 300, artt. 4, 9), nonchè vizio di motivazione ( art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5) – M.M. censura la sentenza impugnata – per averle negato il risarcimento dei danni subiti, in dipendenza delle vessazioni del Presidente dell’Associazione dalla quale dipendeva (Associazione nazionale mutilati ed invalidi del lavoro – ANMIL – sezione provinciale di Potenza) – sebbene inducessero ad opposta decisione, tra l’altro, le circostanze e le considerazioni seguenti: – il riconoscimento della natura contrattuale della dedotta responsabilità (per violazione dell’ari 2087) e del nesso di causalità – tra il comportamento del Presidente dell’associazione ed i danni (alla personalità morale ed all’integrità fisio-psichia) – nonchè l’assenza della prova liberatoria – a carico del datore di lavoro – di avere adempiuto i propri obblighi di tutela (della personalità morale, appunto e della integrità fisio-psichia) del lavoratore, non potendosi considerare tali eventuali provvedimenti di repressione dei comportamenti illeciti – dell’autore delle vessazioni; – comunque la responsabilità per fatto del terzo ( art. 1228 c.c.) è “una forma di responsabilità obiettiva, indipendente, cioè, dalla colpa del soggetto responsabile”; – peraltro la colpa del datore di lavoro risulta accertata – con autorità di giudicato – dalla sentenza di primo grado, laddove riconosce il diritto dell’attuale ricorrente alla indennità sostitutiva del preavviso – che suppone, appunto, la colpa del datore di lavoro – in dipendenza delle dimissioni per giusta causa.

Con il secondo motivo – denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto ( artt. 2087, 2697 c.c.), nonchè vizio di motivazione ( art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5) – la ricorrente censura la sentenza impugnata – per averle negato il risarcimento dei danni subiti, in dipendenza delle vessazioni del Presidente dell’Associazione dalla quale dipendeva (Associazione nazionale mutilati ed invalidi del lavoro – ANMIL – sezione provinciale di Potenza) – sebbene sia “pacifico che nessun controllo sia stato posto in essere” dall’Associazione, che – intervenuta a seguito di segnalazione della stessa lavoratrice – si è limitata al deferimento del responsabile delle vessazioni al collegio dei probiviri, mentre non ne risulta neanche la sospensione.

Il ricorso è fondato.

2. Invero il diritto al risarcimento è subordinato alla sussistenza dei presupposti rispettivi – almeno in parte diversi – della responsabilità civile, contrattuale oppure extra contrattuale (vedi, per tutte, Cass. n. 16250, 2357/2003, 15133, 1114/2002).

Infatti la colpa risulta, bensì, essenziale per qualsiasi tipo di responsabilità civile, ma – solo per quella contrattuale – vige il regime particolare (previsto dall’art. 1218 c.c.) per la ripartizione dell’onere probatorio (vedi, per tutte, Cass. n. 16250/2003, 15133/02, 12763/98).

Ne risulta, infatti, stabilita – in deroga ai principi generali nella stessa materia (di cui all’art. 2697 c.c.), applicabili invece ad ogni altro tipo di responsabilità – la presunzione legale di colpa, appunto, a carico del (debitore inadempiente) responsabile del danno da risarcire (vedi, per tutte, Cass. n. 16250, 2357/2003, 15133/02, cit., 3162/2002, 602/2000, 9247, 7792/98, 4078/95).

Di conseguenza, risulta dispensato – dall’onere probatorio relativo – proprio il creditore danneggiato, che – in quanto agisce per il risarcimento – ne sarebbe gravato in base ai principi generali in materia (di cui all’art. 2697 c.c.).

3. Ora ha natura contrattuale – ad avviso della giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 15133/02, cit., 9385/2001, 291/1999 delle sezioni unite e n. 16250, 2357/2003, 4129, 3162/2002, 14469, 5491, 1307, 602/2000, 7792/1999, 12763, 9247, 3367/1988 della sezione lavoro) – la responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dell’obbligo di sicurezza ( art. 2087 c.c.), che gli impone l’adozione delle misure – di sicurezza e prevenzione, appunto – che, “secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessario a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

D’altro canto, nessun dubbio può sussistere sulla prospettata qualificazione giuridica della stessa responsabilità – di natura contrattuale, appunto – ove si consideri, da un lato, che il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato – per legge (ai sensi dell’art. 1374 c.c.) – dalla disposizione che impone l’obbligo di sicurezza ( art. 2087 c.c., cit., appunto) e, dall’altro, che la responsabilità contrattuale è configurabile tutte le volte che risulti fondata sull’inadempimento di un’obbligazione giuridica preesistente, comunque assunta dal danneggiarle nei confronti del danneggiato.

4. Dalla prospettata natura contrattuale della responsabilità, la stessa giurisprudenza ricava, per quel che qui interessa, significative implicazioni sul piano della distribuzione degli oneri probatori relativi.

Come è già stato anticipato, infatti, la presunzione legale di colpa – stabilita ( dall’art. 1218 c.c., cit.) a carico del datore di lavoro inadempiente all’obbligo di sicurezza (di cui all’art. 2087 c.c., cit.) – deroga, parzialmente, il principio generale ( art. 2697 c.c.), che impone – a “chi vuoi fare valere un diritto in giudizio” – l’onere di provare i “fatti che ne costituiscono il fondamento”.

Non ne risulta, tuttavia, una ipotesi di responsabilità oggettiva, nè la dispensa, da qualsiasi onere probatorio, del lavoratore danneggiato: Questi, infatti, resta gravato – in forza del ricordato principio generale ( art. 2697 c.c., cit., appunto) – dell’onere di provare il “fatto” costituente inadempimento dell’obbligo di sicurezza nonchè il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre esula dall’onere probatorio a carico del lavoratore – in deroga, appunto, allo stesso principio generale – la prova della colpa del datore di lavoro danneggiante, sebbene concorra ad integrare la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento (come ad ogni altro rimedio contro il medesimo inadempimento).

E’ lo stesso datore di lavoro, infatti, ad essere gravato (ai sensi dell’art. 1218 c.c.) – quale “debitore”, in relazione all’obbligo di sicurezza, appunto – dell’onere di provare la non imputabilità dell’inadempimento.

In altri termini, la prova sull’imputazione materiale e su quella psicologica del danno (secondo una classica bipartizione dottrinaria) – anzichè essere concentrata sul lavoratore (come, in genere, sul creditore) danneggiato, che agisca per ottenere il risarcimento – risulta ripartita, in ipotesi di responsabilità contrattuale appunto, tra lo stesso lavoratore (ed, in genere, creditore) e, rispettivamente, il datore di lavoro (ed, in genere, il debitore).

5. Affatto diverso risulta, tuttavia, (anche) il contenuto dei rispettivi oneri probatori a seconda che le misure di sicurezza – asseritamente omesse – siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte parimenti vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici (quali le misure previste dal D.Lgs. n. 626 del 1994 e successive integrazioni e modifiche, come dal precedente D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547), oppure debbano essere ricavate dalla stessa disposizione ( art. 2087 c.c., cit.) che impone l’obbligo di sicurezza.

Nel primo caso – di misure di sicurezza (o prevenzione), per così dire, nominate – il lavoratore ha l’onere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa – cioè il rischio specifico, che s’intende prevenire o contenere – nonchè, ovviamente, il nesso di causalità materiale tra l’inosservanza della misura ed il danno subito.

La prova liberatoria a carico del datore di lavoro, poi, parimenti si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore: negazione, cioè, dell’obbligo o, comunque, dell’inadempimento – in relazione a quella stessa misura di sicurezza (o di prevenzione) – nonchè del nesso di causalità tra inadempimento e danno.

E’ da escludersi, invece, che possa risultare parimenti liberatoria la prova della “impossibilità sopravvenuta” della prestazione di sicurezza – che sia stata omessa – risolvendosi la prestazione stessa, almeno di regola, nella messa a disposizione di beni generici, per i quali non è configurabile, appunto, l’istituto dell’impossibilità sopravvenuta.

Nel secondo caso – di misure di sicurezza (o prevenzione), per così dire, innominate – fermo restando l’onere probatorio a carico del lavoratore, la prova liberatoria, a carico del datore di lavoro, risulta invece variamente definita in relazione alla quantificazione della diligenza (ritenuta) esigibile – nella predisposizione di quelle misure di sicurezza – e perciò registra, anche in giurisprudenza, significative oscillazioni – che non rilevano, tuttavia, per la decisione della presente controversia – tra l’imposizione al datore di lavoro dell’onere di provare l’adozione di ogni misura idonea ad evitare l’infortunio dedotto in giudizio (vedi, per tutte, Cass. n. 9401/95) oppure soltanto l’adozione di comportamenti specifici, non imposti dalla legge (o da altra fonte di diritto parimenti vincolante), ma suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, standard di sicurezza adottati normalmente o da altre fonti analoghe (vedi, per tutte, Corte Cost. n. 312/96, Cass. n. 16250/2003, 3740/95).

6. Il datore di lavoro, poi, è responsabile dei danni subiti dal proprio dipendente, non solo quando ometta di adottare idonee misure protettive, ma anche quando ometta di controllare e vigilare che di tali misure sia fatto effettivamente uso (anche) da parte dello stesso dipendente, con la conseguenza che – secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 16250, 2357/2003, 15133/02, cit., 9304, 9016, 5024, 326/02, 7052/01, 13690/00, 6000/98, 4227/92) – si può configurare un esonero totale di responsabilità per il datore di lavoro appunto, solo quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell’abnormità e dell’assoluta imprevidibilità (sullo specifico punto, vedi, per tutte, Cass. 13690/2000, 326/2002, cit.).

Alla luce dei principi di diritto enunciati, la sentenza impugnata merita le censure – che le vengono mosse dalla ricorrente – non solo per violazione dei principi di diritto enunciati, ma anche sotto il profilo del vizio di motivazione ( art. 360 c.p.c., n. 5).

7. Invero la denuncia di un vizio di motivazione in fatto, nella sentenza impugnata con ricorso per cassazione (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5) – vizio nel quale si traduce anche la mancata ammissione di un mezzo istruttorio (vedi, per tutte, Cass. n. 13730, 9290/2004), nonchè l’omessa od erronea valutazione di alcune risultanze probatorie (vedi, per tutte, Cass. n. 3004/2004, 3284/2003) – non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, le argomentazioni – svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l’accertamento dei fatti, all’esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento – con la conseguenza che il vizio di motivazione deve emergere – secondo l’orientamento (ora) consolidato della giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 13045/97 delle sezioni unite e n. 8153, 7936, 7745, 4017, 3452, 3333, 236/2005, 24219, 23411, 22838, 22751, 21826, 21377, 20272, 19306/2004, 16213, 16063, 11936, 11918, 7635, 6753, 5595/2003, 3161/2002, 4667/2001, 14858, 9716, 4916/2000, 8383/99 delle sezioni semplici) – dall’esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti, nè, comunque, una diversa valutazione dei medesimi fatti.

In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto – consentito al giudice di legittimità ( dall’art. 360 c.p.c., n. 5) – non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità.

Pertanto, al giudice di legittimità non compete il potere di adottare una propria motivazione in fatto (arg. ex art. 384 c.p.c., comma 2) nè, quindi, di scegliere la motivazione più convincente – tra quelle astrattamente configurabili e, segnatamente, tra la motivazione della sentenza impugnata e quella prospettata dal ricorrente – ma deve limitarsi a verificare se – nella motivazione in fatto della sentenza impugnata, appunto – siano stati dal ricorrente denunciati specificamente – ed esistano effettivamente – vizi che, per quanto si è detto, siano deducibili in sede di legittimità. 8. Tuttavia la motivazione in fatto della sentenza d’appello – che confermi, come nella specie, la sentenza di primo grado – può risultare – secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 7182/97, 132/96, 12035/95) – dalla integrazione della parte motiva delle due sentenze.

Coerentemente, deve essere denunciato e verificato – in relazione alla prospettata integrazione della parte motiva delle sentenze di primo e di secondo grado – il vizio di motivazione in fatto ( art. 369 c.p.c., n. 5).

Alla luce dei principi di diritto enunciati, la sentenza impugnata – come è stato anticipato – merita le censure – che le vengono mosse dalla ricorrente – anche sotto il profilo del vizio di motivazione ( art. 360 c.p.c., n. 5).

9. Infatti la sentenza impugnata – come è stato ricordato in narrativa – ha, tra l’altro, accertato che “i fatti mobbizzanti, posti in essere dal P., hanno prodotto (alla lavoratrice) delle rilevanti conseguenze sul piano morale e psico-fisico”.

E tale accertamento di fatto – che conferma, (anche) sul punto, la sentenza di primo grado, disattendendo la domanda in senso contrario, riproposta in appello dall’attuale resistente (ai sensi dell’art. 346 c.p.c.) – ha acquistato autorità di giudicato, non risultando investito da ricorso incidentale della stessa resistente (in tal senso, vedi, per tutte, Cass. n. 3261, 100/2003, 14075, 5357/2002).

Coerente con la giurisprudenza di questa Corte (vedine le sentenze n. 8438/2004 delle sezioni unite, 6326/2005 della sezione lavoro) risulta, poi, la qualificazione come contrattuale – che la sentenza impugnata propone – della dedotta responsabilità del datore di lavoro (ed attuale resistente) per danno da mobbing, derivante da inadempimento dell’obbligo di sicurezza ( art. 2087 c.c.).

Nè lo stesso datore di lavoro (ed attuale resistente) assolve l’onere della prova liberatoria – che, per quanto si è detto, è posto a suo carico – in quanto, lungi dall’allegare (e, tantomeno, dal dimostrare) l’adozione di una qualsiasi misura idonea a prevenire il dedotto evento dannoso, si limita alla deduzione di una propria iniziativa (quale il deferimento, al collegio dei probiviri, del responsabile dei “fatti mobbizzanti”), volta alla repressione – non già alla prevenzione – degli stessi “fatti mobbizzanti “, che – come è stato accertato, con autorità di giudicato – “hanno prodotto (alla lavoratrice) delle rilevanti conseguenze sul piano morale e psico-fisico”.

Tanto basta per accogliere il ricorso.

10. Il ricorso, pertanto, deve essere accolto.

Per l’effetto, la sentenza va cassata con rinvio ad altro giudice d’appello – designato in dispositivo – perchè proceda al riesame della controversia – uniformandosi al principio di diritto enunciato – e provveda, contestualmente, al regolamento delle spese di questo giudizio di Cassazione ( art. 385 c.p.c., comma 2).

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; Cassa al sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Salerno, anche per il regolamento delle spese di questo giudizio di Cassazione.
Così deciso in Roma, il 8 marzo 2006.
Depositato in Cancelleria il 25 maggio 2006