Svolgimento del processo
Con ricorso depositato in data 15 marzo 2002 Maria Carla Vittone proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di Milano con la quale era stata rigettata la domanda dalla stessa proposta avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità della sanzione disciplinare irrogatale dal datore di lavoro Energizer Italia s.p.a. in data 9 marzo 1999 e del licenziamento intimatole in data 12 novembre 1999, il risarcimento del danno in relazione alla dequalificazione dalla stessa subita per essere stata adibita a mansioni di merchandising ed al comportamento discriminatorio e persecutorio al quale era stata sottoposta prima di essere licenziata, nonchè il diritto a compensi per lavoro straordinario e per ferie non godute e all’indennità maneggio denaro.
La società datrice di lavoro resisteva al gravame sostenendo la legittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice sia sotto il profilo formale che sostanziale, la legittimità delle sanzioni inflitte e l’avvenuto pagamento alla lavoratrice di quanto dovutole in relazione alla sua qualifica.
Con sentenza in data 1 febbraio 2003 la Corte d’Appello di Milano rigettava il gravame. Per quanto ancora rileva in questa sede riteneva la legittimità del licenziamento irrogato alla lavoratrice osservando che la contestazione dell’addebito era stata fatta in modo chiaro e comunque tale da consentire alla stessa di difendersi.
Ritenuta altresì la legittimità dei controlli effettuati sui lavoratori a mezzo di investigatori, purchè esercitati in modo congruo e non pretestuoso, osservava che la prova testimoniale non aveva fornito elementi di valutazione idonei a smentire la relazione redatta dagli investigatori privati. Del resto la stessa Vittone aveva, in sede di interrogatorio libero, confermato alcune delle circostanze contestate. Per quanto riguarda l’allegato comportamento discriminatorio da parte della società datrice di lavoro osservava che i vari comportamenti, valutati singolarmente e nel loro complesso, erano stati pienamente giustificati dalla società che aveva allegato, da un lato, l’avvenuta riorganizzazione della propria struttura, e, dall’altro, le ripetute lunghe assenze della lavoratrice che avevano imposto una diversa distribuzione della clientela. Escludeva pertanto la sussistenza di un intento punitivo da parte della società. Riteneva inoltre, con riferimento all’allegata dequalificazione, che i capitoli di prova articolati dalla lavoratrice erano generici ed irrilevanti e che, in difetto di allegazioni idonee, il giudice non poteva attivare i suoi poteri istruttori d’ufficio. Riteneva altresì legittima e proporzionata rispetto agli addebiti anche la sanzione irrogata in data 9 marzo 1999 motivata con la scarsa collaborazione e diligenza manifestata dalla lavoratrice nell’invio all’azienda della documentazione medica.
Escludeva infine che fosse imputabile a responsabilità del datore di lavoro la malattia (depressione) che aveva colpito la Vittone dopo l’assegnazione alla stessa di un numero doppio di clienti rispetto al periodo precedente.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la lavoratrice affidato a cinque motivi. Resiste con controricorso la società Energizer Italia s.p.a. La Vittone ha depositato memoria.
Motivi della decisione
Col primo motivo la ricorrente, nel denunciare violazione dell’art. 2697 cod. civ. nonchè vizio di motivazione, deduce che incombeva sul datore di lavoro la prova della sussistenza dell’addebito e della legittimità del provvedimento espulsivo e che pertanto ha errato la Corte di merito nell’affermare che la lavoratrice avrebbe dovuto giustificarsi indicando le attività svolte. Contesta altresì l’errata valutazione, da parte della sentenza impugnata, delle risultanze processuali. In particolare critica la valutazione fatta dal giudice di merito in ordine alla relazione investigativa prodotta in atti dal datore di lavoro, sottolineando, in particolare, che le indicazioni relative ai clienti visitati o contattati telefonicamente potevano essere dedotte dalle relazioni giornaliere e settimanali previste contrattualmente, relazioni che la lavoratrice aveva regolarmente presentato.
Il motivo è infondato. In primo luogo deve infatti osservarsi che non vi è stata alcuna violazione dei principi che regolano l’onere della prova in tema di licenziamento, atteso che, come risulta chiaramente dalla lettura della motivazione, la Corte territoriale ha ritenuto che la relazione degli investigatori privati sul comportamento della lavoratrice, prodotta ovviamente dalla società datrice di lavoro, costituisse, tenuto conto delle risultanze istruttorie, prova sufficiente della legittimità del provvedimento espulsivo, motivato, come si rileva dalla lettera di contestazione degli addebiti, con l’omessa prestazione di attività lavorativa per due giorni interi e per una parte del terzo giorno.
Per quanto concerne le critiche concernenti la valutazione delle risultanze processuali, deve osservarsi che, secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte (cfr., ex multis, Cass. 1 settembre 2003 n. 12747), la valutazione delle risultanze delle prove e il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili. Consegue che il controllo di legittimità da parte della Corte di Cassazione non può riguardare il convincimento del giudice di merito sulla rilevanza probatoria degli elementi considerati, ma solo la sua congruenza dal punto di vista dei principi di diritto che regolano la prova. Nella specie non è rilevabile alcuna incongruenza, atteso che, come si è già in precedenza sottolineato, sono state correttamente applicate le norme in tema di onere probatorio nel caso di licenziamento. L’osservazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo la quale la lavoratrice non ha ritenuto di giustificarsi indicando le attività svolte nei giorni in contestazione, non dimostra, infatti, come invece sostenuto dalla ricorrente, un’erronea applicazione dell’onere della prova, dovendo essere letta nel contesto complessivo della motivazione, dal quale risulta che tale osservazione è stata fatta in sede di valutazione dell’eccezione di inadeguatezza della contestazione degli addebiti. Non può inoltre condividersi l’assunto della ricorrente circa la sussistenza di un vizio di motivazione. Secondo il costante orientamento di questa corte (cfr., fra le più recenti, Cass. 25 ottobre 2003 n. 16063), il vizio di omessa o insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., sussiste solo quando nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista un insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi dallo stesso vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti di ricorrente ed in genere dalle parti. Nella specie infatti la Corte ha sinteticamente ma adeguatamente motivato le ragioni per cui ha ritenuto provate le circostanze poste alla base del provvedimento espulsivo. Ha in particolare evidenziato come le circostanze emerse dalla relazione degli investigatori privati abbiano trovato conferma, almeno parziale, nelle ammissioni rese dinanzi al giudice dalla stessa Vittone e non siano state contraddette da prove contrarie.
Col secondo motivo la ricorrente, nel denunciare violazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970, nonchè vizio di motivazione, deduce l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha rigettato l’eccezione di nullità della contestazione per violazione del citato art. 7, eccezione basata sul rilievo che la contestazione non indicava i fatti dai quali doveva desumersi la mancata prestazione.
Si tratta in definitiva di accuse generiche peraltro formulate in maniera dubitativa, in relazione alle quali la lavoratrice non poteva reagire in altro modo se non contestando le modalità dell’accusa.
Sotto altro profilo osserva che la lettera di licenziamento contiene motivazioni diverse da quelle concernenti la mancanza della prestazione lavorativa di cui alla lettera di contestazione atteso che dalla stessa emerge che il provvedimento espulsivo è stato motivato dalla volontà della lavoratrice di sottrarsi al legittimo controllo da parte della società, circostanza questa mai dedotta nella lettera di contestazione.
Anche tale motivo è infondato. Per costante insegnamento della Corte di legittimità (cfr., ad esempio, Cass. 3 febbraio 2003 n. 1562) l’accertamento relativo al requisito della specificità della contestazione costituisce oggetto di un’indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità, salva la verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito. La S.C. ha altresì precisato che la specificità della contestazione degli addebiti disciplinari sussiste quando questa contiene l’esposizione dei dati e degli aspetti essenziali del fatto materiale posto a fondamento dell’illecito, ai fini dell’identificazione del comportamento nel quale il datore di lavoro ravvisa l’infrazione disciplinare sanzionabile (Cass. 3 febbraio 2003 n. 1562; Cass. 19 marzo 1992 n. 3404). E’ stato altresì precisato che l’esigenza di specificità della contestazione si modella in relazione ai principi di correttezza che informano il rapporto interpersonale già esiste tra le parti, ed appare funzionalmente e teleologicamente finalizzata all’esclusiva soddisfazione dell’interesse dell’incolpato, teso a realizzare il pieno esercizio del diritto di difesa (Cass. 18 giugno 2002 n. 8853)).
Nella specie la Corte territoriale ha ritenuto la sussistenza del requisito della specificità della contestazione degli addebiti sulla base di una motivazione logica e coerente che applica correttamente i suddetti principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità. Ha infatti osservato che dalla lettera di contestazione si evince chiaramente che l’addebito riguardava l’omessa prestazione di attività lavorativa nelle giornate del 18 e del 19 ottobre 1999 e nella prima parte della mattinata (fino alle ore 11,30) del successivo 20 ottobre e che la contestazione era tale da consentire alla lavoratrice di fornire le proprie giustificazioni.
Per quanto riguarda l’ulteriore profilo attinente al preteso contrasto fra i motivi posti alla base della lettera di licenziamento e quelli indicati nella lettera di contestazione, deve osservarsi che, contrariamente a quanto sostiene la ricorrente, tale contrasto non sussiste, considerato il chiaro riferimento, contenuto nella lettera di licenziamento, all’omessa prestazione di attività lavorativa nei giorni indicati nella lettera di contestazione.
Col terzo motivo la ricorrente denuncia l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto legittima e proporzionata la sanzione del licenziamento in relazione alla violazione contestata.
Deduce che la motivazione posta dalla Corte di merito alla base della suddetta conclusione è assolutamente generica e non può essere comunque condivisa tenuto conto, in particolare, che l’art. 148 del CCNL applicabile al rapporto de qua dispone che, in caso di assenze non giustificate deve essere operata una trattenuta sulla retribuzione e che l’art. 151 dello stesso CCNL prevede la sanzione della multa nei confronti del lavoratore che si assenta dal lavoro fino a tre giorni nell’anno solare senza comprovata giustificazione laddove il licenziamento disciplinare è previsto solo nel caso di recidiva nell’assenza ingiustificata ovvero nel caso di assenze protrattesi per oltre tre giorni nell’anno solare. Erra altresì, secondo la ricorrente, la sentenza laddove afferma che al di là del risultato di vendita è essenziale anche l’assidua e attiva presenza del venditore nella zona assegnatagli, atteso che tale affermazione è contraria alla libertà tipica della prestazione lavorativa del venditore. Sottolinea in proposito che la società datrice di lavoro non si è mai lamentata dei risultati di vendita ottenuti dalla lavoratrice.
Per quanto concerne il ricorso all’attività di investigatori privati la ricorrente, pur concordando, in linea di principio, sulla legittimità dell’utilizzo di tale forma di controllo se effettuato quando il datore di lavoro abbia sospetti sulle modalità di svolgimento della prestazione del proprio dipendente, osserva che, nel caso concreto, non ricorrevano i presupposti per tale utilizzo.
Rileva peraltro che le modalità di esecuzione dell’attività investigativa hanno avuto profili di illiceità e carattere persecutorio.
Questo secondo profilo è infondato. Premesso che la ricorrente non contesta la legittimità, in linea di principio, del ricorso all’attività di investigatori privati, deve osservarsi che la Corte di merito, sulla base di un apprezzamento di fatto, ha ritenuto giustificato, nella fattispecie, tale tipo di controllo in relazione all’esistenza di sospetti dell’azienda sul comportamento della lavoratrice; ha inoltre giudicato congrue le modalità di esecuzione dell’attività investigativa. Le contestazioni della ricorrente concernenti tali conclusioni appaiono formulate in modo del tutto generico e non sono pertanto idonee ad invalidarle.
E’ invece fondato il primo profilo. Tenuto conto che, in linea di principio, il datore di lavoro non può irrogare un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione (Cass. 21 maggio 1998 n. 5103; Cass. 19 agosto 2004 n. 16260), deve rilevarsi che, sul punto, la motivazione della Corte territoriale è troppo generica e deve considerarsi pertanto del tutto insufficiente. La sentenza impugnata, infatti, ha omesso ogni riferimento alla normativa contrattuale sopra richiamata, essendosi limitata a sottolineare che la libertà di cui gode il lavoratore-venditore nella gestione del tempo e delle modalità di lavoro non lo esonera dall’obbligo di presenza attiva ed assidua nella zona assegnatagli e che nel caso del venditore l’elemento fiduciario assume valore determinante, attesa l’impossibilità di effettuare i controlli tipici del rapporto di lavoro subordinato. Il giudice di rinvio dovrà pertanto motivare sulla proporzionalità della sanzione in relazione all’applicabilità, o meno, della normativa collettiva di cui sopra in considerazione della peculiarità delle mansioni tipiche del venditore.
Col quarto motivo la ricorrente, nel denunciare violazione e mancata applicazione del principio di prevalenza delle cause desumibile dall’art. 41 cod. pen., nonchè vizio di motivazione, in relazione al capo della decisione col quale è stata rigettata la domanda di risarcimento del danno in relazione all’insorgenza della malattia depressiva nonchè in relazione al mobbing subito, deduce la mancanza di adeguata considerazione, da parte della Corte di merito, di comportamenti datoriali quali l’attribuzione di un sovraccarico di lavoro in concomitanza con la messa in mobilità di 23 lavoratori nel periodo gennaio-aprile 1996, sovraccarico imposto nonostante la circostanza che la Vittone avesse già un fatturato doppio rispetto a quello mediamente richiesto ai venditori; in proposito il giudice del merito pur avendo riconosciuto l’insorgenza di una malattia depressiva in data 28 maggio 1996, ne aveva escluso la riconducibilità all’attività lavorativa senza peraltro motivare sul punto; la ricorrente sottolinea altresì che il raddoppio di clientela era stato fatto in un contesto nel quale erano stati licenziati altri venditori della stessa datrice di lavoro fra le quali anche il marito. Fra gli altri comportamenti non adeguatamente valutati la ricorrente menziona altresì: trasferimenti con scambi di clientela seguiti a periodi di malattia, gravidanze interrotte ovvero felicemente portate a termine ovvero ad assenza per infortunio sul lavoro; eliminazione del supporto del merchandising; dequalificazione professionale connessa al merchandising; contestazioni di comportamenti disciplinarmente rilevanti, quali, ad esempio, l’omessa tempestiva comunicazione all’ufficio del personale dell’assenza in relazione all’infortunio del 29 gennaio 1999.
Il motivo è infondato. Per quanto concerne il mobbing, la Corte territoriale ha ritenuto, sulla base di una valutazione di merito che, in quanto basata su motivazione completa ed adeguata, sfugge al sindacato di legittimità, non sostenuta da prova adeguata la tesi della Vittone della sussistenza di comportamenti della società datrice di lavoro finalizzati a nuocerle per indurla alle dimissioni e comunque per provocarle danno. In particolare i mutamenti nell’attribuzione della clientela e l’eliminazione del supporto del “merchandiser” avevano trovato ampia giustificazione, da un lato, nella ristrutturazione aziendale, che aveva implicato una riduzione di organico e la soppressione della posizione professionale di tutti i “merchandiser”; dall’altro, nei ripetuti e prolungati periodi di assenza della lavoratrice che avevano imposto la distribuzione della clientela di sua competenza agli altri venditori. Il giudice del merito ha escluso inoltre la riconducibilità della patologia (depressione) da cui è affetta la Vittone, a comportamenti datoriali. In particolare ha ritenuto che il lasso di tempo trascorso fra l’assegnazione del nuovo carico di lavoro (raddoppio del numero di clienti rispetto al periodo precedente) e l’insorgenza della malattia fosse troppo breve per ritenere la sussistenza di un nesso di causalità fra il primo e la seconda. Per quanto riguarda poi le contestazioni concernenti comportamenti della ricorrente la sentenza ha osservato che la distanza temporale fra i singoli episodi, peraltro singolarmente giustificati dalla società, induce ad escludere una connessione fra gli stessi ai fini sopra indicati.
Anche tale osservazione resiste alle censure della ricorrente che attraverso una prolissa ricostruzione dei fatti sollecita inammissibilmente questa Corte di legittimità ad una nuova valutazione degli stessi.
Col quinto motivo la ricorrente denuncia violazione del principio del contraddittorio e dei diritti di difesa con riferimento alla mancata assunzione delle prove offerte dalla lavoratrice licenziata nella comparsa di replica alla domanda riconvenzionale del datore di lavoro, violazione dell’art. 421 cod. proc. civ. con riferimento alla mancata adozione di iniziative d’ufficio da parte del giudice per superare eventuali incertezze delle prove, nonchè vizio di motivazione.
Anche tale motivo deve essere rigettato. Il mancato esercizio dei poteri istruttori del giudice (previsti, nel rito del lavoro, dall’art. 421 cod. proc. civ.), anche in difetto di espressa motivazione sul punto, non è sindacabile in sede di legittimità se non si traduce in un vizio di illogicità della sentenza; la deducibilità dell’omessa attivazione dei poteri istruttori come vizio motivazionale e non come error in procedendo, impedendo al giudice di legittimità l’esame diretto degli atti, impone al ricorrente che muova alla sentenza impugnata siffatta censura di riportare testualmente, in omaggio al principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, tutti quegli elementi (emergenti dagli atti ed erroneamente non presi in considerazione dal giudice di merito) dai quali era desumibile la sussistenza delle condizioni necessarie per l’esercizio degli invocati poteri. In particolare, il ricorrente deve riportare in ricorso gli atti processuali dai quali emergeva l’esistenza di una “pista probatoria”, ossia l’esistenza di fatti o mezzi di prova idonei a sorreggere le sue ragioni con carattere di decisività (rispetto ai quali avrebbe potuto e dovuto esplicarsi l’officiosa attività di integrazione istruttoria demandata al giudice di merito), e deve altresì allegare – ove censuri l’omessa motivazione del mancato esercizio del potere ex art. 421 c.p.c – di avere nel giudizio di merito espressamente e specificamente richiesto l’intervento officioso (Cass. S.U. 17 giugno 2004 n. 11353). Il motivo di ricorso non soddisfa i suddetti requisiti in quanto contiene una generica doglianza sulla mancata utilizzazione, da parte del giudice del merito, dei poteri di cui all’art. 421 cod. proc. civ..
Il ricorso deve essere in definitiva accolto per quanto di ragione.
La sentenza impugnata deve essere pertanto cassata in relazione al motivo accolto e la causa viene rinviata ad altro giudice, che si designa nella Corte d’Appello di Brescia, che provvedere nei termini prima specificati nonchè, ex art. 385 cod. proc. civ., sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa e rinvia anche per le spese alla Corte d’Appello di Brescia.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 luglio 2005.
Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2005