Svolgimento del processo

Con citazione notificata il 18 febbraio 1997 il rag. Generoso Buonanno convenne in giudizio davanti al tribunale di Brescia il presidente del Consiglio dei Ministri, ai sensi della legge n. 117 dei 1988, chiedendo il risarcimento dei danni subiti a seguito dell’applicazione, nei suoi confronti, della misura della custodia cautelare in carcere senza che, in base alla sua prospettazione, ne sussistessero i presupposti di fatto e di legge.

In particolare, chiese che fosse dichiarata la responsabilità dello Stato per colpa grave dei sostituti procuratori della Repubblica di Milano, dottori Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo, i quali avevano chiesto l’applicazione della misura cautelare della custodia in carcere; del giudice per le indagini preliminari, dott. Anna Capelli, per avere emesso la relativa ordinanza; dei medesimi dottori Davigo e Colombo, che si erano opposti all’istanza di revoca presentata dall’attore; ancora del giudice per le indagini preliminari, che aveva respinto l’istanza di revoca; dei giudici dott. G. Orsini, M. R. Mandrioli e C. D’Ella, quali componenti del collegio del tribunale per il riesame di Milano, che avevano respinto l’appello proposto dall’attore contro il rigetto dell’istanza di scarcerazione.

La presidenza del Consiglio dei Ministri si costituì, eccependo in via preliminare l’inammissibilità dell’azione e chiedendo, in via subordinata e nel merito, il rigetto della domanda.

Del procedimento fu data comunicazione ai magistrati interessati, ai sensi dell’art. 6 della legge n. 117 del 1988, e di essi si costituirono i dottori Davigo e Colombo, chiedendo che la domanda fosse dichiarata inammissibile, o respinta nel merito perché infondata.

Con decreto depositato il 27 ottobre 1997 il tribunale adito dichiarò inammissibile la domanda e compensò le spese del giudizio, considerando (per quanto qui rileva):

Che l’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti del Buonanno era stata emessa dal G.I.P. il 17 febbraio 1994 e contro quel provvedimento non era stata avanzata richiesta di riesame;

Che poi il G.I.P., con ordinanza del 24 marzo 1994, aveva respinto l’istanza formulata dal Buonanno per la modifica o la revoca della detta misura cautelare e il tribunale per il riesame aveva rigettato l’appello proposto dall’indagato;

Che il Buonanno era stato scarcerato con provvedimento del G.I.P. in data 17 maggio 1994 per scadenza dei termini di custodia cautelare in relazione alla fase delle indagini preliminari;

Che, a seguito di tale provvedimento, il Buonanno aveva rinunziato al ricorso in cassazione già depositato e questa corte, con ordinanza del 24 giugno 1994, aveva dichiarato inammissibile il ricorso stesso; Che, successivamente, il procedimento a carico del Buonanno era stato trasferito per competenza al tribunale di Mantova ed il G.I.P. presso quell’ufficio, su conforme richiesta del P.M., con decreto del 20 gennaio 1996 ne aveva disposto l’archiviazione;

Che il Buonanno agiva per il risarcimento dei danni prospettando come viziato da colpa grave il comportamento dei due P.M., i quali avevano chiesto l’applicazione della misura cautelare, opponendosi poi alla sua revoca, ed altresì denunziando come viziati il provvedimento del G.I.P. che aveva disposto la misura, quello col quale era stata respinta l’istanza di revoca e l’ordinanza del tribunale del riesame che aveva rigettato l’appello;

Che, pertanto, i comportamenti e gli atti individuati dall’attore come causa del lamentato danno ingiusto erano quelli che, compiuti dai magistrati sopra indicati, avevano condotto alla custodia in carcere del Buonanno nell’arco di tempo compreso tra il 18 febbraio 1994 e il 17 maggio 1994;

Che, in base al disposto dell’art. 4 della legge n. 117 del 1988, dal 17 maggio 1994, con la definitiva cessazione del provvedimento cautelare, era esperibile l’azione risarcitoria, onde da quel momento decorreva anche il termine biennale previsto a pena di decadenza per la proposizione della domanda;

Che, nel caso in esame, la citazione introduttiva del giudizio era stato notificata alla presidenza del Consiglio dei ministri il 18 febbraio 1997, sicché la domanda andava dichiarata inammissibile perché tardiva;

Che tale interpretazione era confortato dall’orientamento della dottrina e della giurisprudenza, che sostenevano l’autonomia dei termini parziali di durata della custodia cautelare per ciascuna fase processuale;

Che la giurisprudenza aveva desunto dai principi generali dell’ordinamento processuale la regola del ne bis in idem cautelare, ammettendo il ripristino della custodia cautelare soltanto qualora il soggetto scarcerato avesse violato le prescrizioni eventualmente impostegli ai sensi dell’art. 307 c.p.p.;

Che, pertanto, nell’attuale sistema processuale penale doveva ritenersi che, quando il soggetto fosse stato scarcerato per decorrenza dei termini stabiliti per una specifica fase processuale, stante la “definitività” del provvedimento da quel momento fosse esperibile l’azione per il risarcimento del danno in relazione all’ingiusta detenzione asseritamente sofferta, perché da quello stesso momento la misura cautelare doveva considerarsi definitivamente venuta meno (non essendo più suscettibile di modifica o revoca), onde sussistevano i presupposti richiesti dall’art. 4 della legge n. 117 del 1988 per l’esercizio dell’azione risarcitoria contro lo Stato entro i successivi due anni, a pena di decadenza;

che il sistema non appariva inficiato da sospetti d’incostituzionalità, in quanto la previsione di termini a pena di decadenza per l’esercizio di determinate azioni non sembrava in contrasto con alcun precetto costituzionale (ed erano infatti numerosi i casi di decadenza previsti dall’ordinamento giuridico), né il termine biennale era talmente restrittivo da impedire, di fatto, l’esercizio dell’azione;

che non era incoerente né irragionevole prevedere l’esperibilità dell’azione risarcitoria prima della fase conclusiva del procedimento, una volta che il comportamento, l’atto o il provvedimento giudiziario (secondo la tipologia indicata dalla legge) cui si faceva risalire il danno ingiusto fosse divenuto definitivo o, comunque, avesse esaurito i suoi effetti, in quanto ciò consentiva di eliminare situazioni d’incertezza che avrebbero potuto condizionare l’ordinata prosecuzione del procedimento eventualmente ancora pendente;

che, quanto alla specifica posizione dei due pubblici ministeri, il loro comportamento poteva essere valutato soltanto in collegamento con i provvedimenti adottati dai giudici competenti, i quali avevano determinato l’asserito danno ingiusto lamentato dall’attore;

che, pertanto, anche per i pubblici ministeri i termini per l’esperibilità dell’azione erano quelli già indicati, onde anche nei loro confronti l’azione doveva ritenersi inammissibile per intervenuta decadenza.

Contro il suddetto decreto il rag. Buonanno propose reclamo ai sensi dell’art. 5 della legge 13 aprile 1988, n. 117.

La corte di appello di Brescia, con decreto depositato l’11 febbraio 1995, rigettò il gravame e condannò il reclamante al pagamento delle spese del grado, osservando:

Che il Buonanno deduceva l’erroneità del giudizio formulato dal tribunale nel ritenere inammissibile l’azione, per intervenuta decadenza, anche nei confronti dei due pubblici ministeri (sul presupposto che il loro comportamento potesse essere valutato soltanto in collegamento con l’atto adottato dai giudici competenti, causa del supposto danno ingiusto lamentato dall’attore);

Che, ad avviso del reclamante, un simile modo di argomentare si traduceva nella negazione dell’autonoma capacità degli atti e dei comportamenti dei P.M. di essere fonte di responsabilità, sottolineando come, a seguito dell’iscrizione di un soggetto nel registro delle notizie di reato, tutti gli atti e i comportamenti del P.M. fossero preordinati ad ottenere un provvedimento da parte del G.I.P.;

Che, sempre secondo il reclamante: a) l’interpretazione seguita dal tribunale era in contrasto con l’art. 2 della legge n. 117 del 1988, recante la tripartizione delle fonti di responsabilità in “comportamenti, atti o provvedimenti; b) nel caso in esame il comportamento contestato ai due P.M. quale fonte di responsabilità, consistente nell’avere affermato e prospettato, con negligenza inescusabile, fatti la cui esistenza era incontrastabilmente esclusa dagli atti, si poneva in termini di assoluta autonomia rispetto al provvedimento assunto dal GIP.; c) il tribunale, fuorviato dall’erronea premessa, aveva altresì errato non individuando il dies a quo per il decorso del termine biennale di decadenza ai fini della proposizione dell’azione nel provvedimento di archiviazione, in quanto atto conclusivo del procedimento nel cui ambito era avvenuto il fatto causativo del danno, in base a quanto previsto dall’art. 4 della legge n. 117 con riguardo agli atti, ai comportamenti o provvedimenti, quale quello di specie, non impugnabili;

Che tali censure non avevano fondamento;

Che non era esatta la tesi del reclamante, secondo cui gli atti del P.M. preordinati all’emissione di un provvedimento cautelare (come quelli diretti ad evitare la revoca o la modifica del provvedimento medesimo) non siano suscettibili d’impugnazione, dovendosi al contrario ritenere che essi siano impugnabili, sia pure non autonomamente, bensì nei modi e nei limiti in cui è impugnabile il provvedimento che, recependo la richiesta o il parere del P.M., abbia disposto la misura cautelare o abbia disatteso l’istanza di modifica o revoca;

Che, sotto tale profilo, andava condivisa l’osservazione dei primi giudici, per i quali gli atti del P.M. non erano suscettibili di autonoma valutazione rispetto al provvedimento adottato dai giudici competenti, ritenuto causa del danno ingiusto lamentato, come pure andava condivisa la conclusione circa il decorso del termine biennale di decadenza dalla stessa data in cui quel provvedimento era venuto meno, per revoca conseguente alla scadenza dei termini di custodia cautelare;

che ciò non significava negare che gli atti e i comportamenti dei P.M. potessero essere fonte di responsabilità autonoma rispetto a quella del G.I.P. o dei giudici del tribunale del riesame, come nel caso in cui fosse rappresentata una falsa realtà preordinata all’ottenimento di una misura cautelare che diversamente non sarebbe stata concessa;

che questa, però, era questione di merito, ininfluente sul dies a quo di decorrenza del termine biennale il quale poteva essere soltanto unico, non essendo ipotizzabile una postergazione dell’azione contro il P.M. rispetto a quella nel confronti del G.I.P., relativamente ad uno stesso fatto generatore del danno, tanto più nell’ipotesi in cui il fatto avesse esaurito i suoi effetti, che nel reclamo, con riferimento alla responsabilità del G.I.P. e dei giudici del riesame, si lamentava che il tribunale, ritenendo d’individuare l’atto generatore del danno nella sola emissione dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere (anziché, come espressamente denunziato, nel provvedimento di rigetto dell’istanza di revoca o modifica da parte del G.I.P. e in quello che aveva negato elementi di novità idonei a far accogliere l’istanza da parte del tribunale del riesame, entrambi sottoposti al rimedio previsto dalla legge: appello e ricorso per cassazione), avesse considerato preclusa l’azione per mancata impugnativa della detta ordinanza;

che la censura non era fondata perché non trovava riscontro nel decreto del tribunale, il quale aveva dichiarato inammissibile la domanda sotto il diverso profilo della decadenza dall’azione, siccome proposta oltre il termine biennale stabilito dall’art. 4, comma secondo, della legge n. 117 del 1988, decorrente dalla data (17 maggio 1994) in cui il provvedimento restrittivo della responsabilità personale, assunto come fonte generatrice del danno, era stato revocato per decorrenza dei termini di custodia cautelare, opportunamente rilevando che, nell’attuale sistema processuale penale, il suddetto provvedimento ha carattere di definitività, per i principi dell’autonomia dei termini di durata della custodia cautelare rispetto a ciascuna fase processuale e del ne bis in idem cautelare;

che le medesime considerazioni portavano ad escludere la rilevanza, nel caso concreto, della questione di legittimità costituzionale della norma per contrasto con l’art. 24 della Costituzione;

che il reclamante prospettava la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma secondo, della legge n. 117 del 1988, in relazione all’art. 24 della Costituzione, sotto il profilo della compressione dei diritto di difesa, anche laddove commina una decadenza in epoca anteriore all’atto conclusivo del procedimento, sull’assunto che solo con tale atto sarebbe stato possibile valutare la correttezza o meno del provvedimento generatore del danno ed acquisire gli elementi legali e di fatto costitutivi del diritto al risarcimento, in guisa da proporre un’azione idonea a superare il vaglio di “non manifesta infondatezza” previsto dall’art. 5 n. 3 della stessa legge;

che anche tale questione non era rilevante, perché la normativa vigente all’epoca dei fatti consentiva al P.M. di sottoporre all’esame del G.I.P. i soli elementi sfavorevoli alla persona indagata, sicché, anche se ciò fosse in concreto avvenuto (del che comunque non vi era prova), si sarebbe trattato di un comportamento legittimo e perciò insindacabile;

che ad analoga conclusione (di non rilevanza nel giudizio in corso) doveva pervenirsi con riguardo al diverso profilo d’incostituzionalità della norma, prospettato in relazione all’art. 33 della Costituzione.

Contro il decreto della corte bresciana il rag. Buonanno ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, ed ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

La presidenza del Consiglio dei ministri ha depositato memoria di costituzione.

Motivi della decisione

Con il primo mezzo di cassazione il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 4, comma secondo, della legge 13 aprile 1988, n. 117, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c.

Richiamato il tenore del detto art. 4 e la pronunzia della corte territoriale, nella parte in cui ha affermato che gli atti del P.M. preordinati all’emissione di un provvedimento cautelare (come quelli diretti ad evitarne la revoca o la modifica), sarebbero impugnabili, sia pure non autonomamente bensì nei modi e nei limiti in cui è impugnabile il provvedimento del giudice cui ineriscono, sostiene che tale assunto nascerebbe da un’errata interpretazione della norma che, nel suo testuale tenore, distinguerebbe soltanto tra comportamenti, atti o provvedimenti suscettibili o meno d’impugnativa allo scopo di determinare il momento di esperibilità dell’azione), ignorando del tutto il terzo genus d’impugnabilità per relationem indicato dalla corte distrettuale.

La questione sarebbe già stata esaminata da questa corte, che, con sentenza n. 2186 del 1997, avrebbe ribadito la sussistenza di un doppio binario normativo per la fissazione del dies a quo di esperibilità dell’azione.

Pertanto, poiché contro gli atti del P.M. non sarebbe previsto uno specifico e peculiare strumento d’impugnativa, ed essendo stata ribadita la previsione di due discipline (alternative, autonome e non interferenti tra loro, come ritenuto dalla citata sentenza), ne deriverebbe che il terzo genus, quello della impugnabilità per relationem, non esisterebbe, con la conseguenza dell’accertata non impugnabilità degli atti del P.M. e la fissazione del termine di decorrenza per l’esperibilità dell’azione al momento dell’esaurimento del grado di giudizio.

Con il secondo mezzo di cassazione il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 12 disposizioni sulla legge in generale, degli artt. 2 e 4, secondo comma, della legge n. 117 del 1988, dell’art. 2043 c.c., nonché contraddittoria motivazione, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3 e 5, c.p.c., censurando l’affermazione secondo cui gli atti del P.M. non sarebbero suscettibili di autonoma valutazione rispetto al provvedimento adottato dai giudici competenti, assunto quale causa del danno ingiusto lamentato, mentre il termine biennale di decadenza potrebbe essere soltanto unico, “non potendo ipotizzarsi una postergazione dell’azione contro il P.M. rispetto a quella nei confronti del GIP, relativamente ad un medesimo fatto generatore del danno, tanto più nell’ipotesi in cui il fatto stesso abbia esaurito i suoi effetti”.

Così argomentando la corte territoriale, pur dando atto della tripartizione dei possibili fatti generatori di danno, ne avrebbe escluso la singola autonomia efficientistica, ritenendo non autonomamente valutabili gli atti del P.M. in relazione ai danni subiti per effetto di un provvedimento ottenuto dal medesimo con falsa rappresentazione dei fatti.

Invece l’art. 2 della legge n. 117 del 1988 contemplerebbe tre possibili fonti di responsabilità per la sofferenza di un ingiusto danno derivato da privazione della libertà personale, indicandole nei comportamenti, atti o provvedimenti posti in essere dal magistrato con dolo o colpa grave.

Si tratterebbe di norma non ambigua nella sua formulazione, e quindi da interpretare letteralmente ai sensi dell’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, come più volte affermato anche da questa corte.

Ciò posto, nella norma in esame andrebbero individuate tre distinte ed autonome fonti di responsabilità: gli atti, i comportamenti o i provvedimenti, in forma alternativa (come posto in luce dalla disgiunzione “o”).

Questo essendo il tenore della norma, sarebbe incoerente il ragionamento della corte di merito, nella parte in cui ha asserito che i comportamenti o gli atti del P.M. andrebbero valutati esclusivamente in collegamento con i provvedimenti adottati dai giudici, determinativi del danno ingiusto, con ciò negando l’autonoma capacità degli atti e dei comportamenti posti in essere dai magistrati a costituire fonte di responsabilità.

Se si seguisse questa tesi non avrebbe senso la tripartizione delle fonti di responsabilità voluta dal legislatore, perché tutti gli atti e i comportamenti del P.M., dopo l’iscrizione di un soggetto nel registro delle notizie di reato, sarebbero sempre preordinati ad ottenere un provvedimento da parte del GIP. Né avrebbe avuto senso richiamare, insieme con i provvedimenti, anche gli atti e i comportamenti, se il legislatore avesse voluto concentrare la genesi della responsabilità nei provvedimenti, anziché anche negli atti e nei comportamenti, essendo sufficiente in tale ipotesi elidere gli altri due termini.

Andrebbe quindi corretto il decreto della corte territoriale sul punto, affermandosi l’autonomia dal provvedimento del GIP degli atti e dei comportamenti contestati al P.M. quali fonti di responsabilità, per avere affermato con negligenza inescusabile fatti la cui esistenza sarebbe stata incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento. Ciò con la conseguenza della riferibilità anche a tali atti e comportamenti della doppia ipotesi del sistema delle preclusioni previsto dall’ art. 4 della legge n. 117.

Ancora in violazione e falsa applicazione di legge sarebbe incorsa la corte di appello, confondendo le responsabilità del P.M. nella falsa rappresentazione dei fatti con quella del GIP che avrebbe preso il provvedimento sulla scorta di elementi già in precedenza considerati inidonei all’emissione della misura cautelare.

Si tratterebbe di due sfere di attività del tutto autonome, onde sarebbe erroneo condensare il fatto dannoso nel mero provvedimento cautelare, senza distinguere le singole responsabilità per fatto illecito che a quel provvedimento avrebbero portato.

Ad avviso del ricorrente i comportamenti e gli atti del P.M. sarebbero stati le cause efficienti che avrebbero dato luogo alla misura cautelare e al rifiuto di revoca della stessa. Ne deriverebbe, per il rapporto causa – effetto, la piena autonoma responsabilità dei P.M. per quanto lamentato dal medesimo ricorrente.

Richiamati i principi affermati dalla giurisprudenza in tema di nesso di causalità, il rag.Buonanno afferma che, se i P.M. avessero correttamente esercitato il potere loro riservato dalla legge, mai si sarebbe giunti alla carcerazione di esso Buonanno e ai danni che ne sarebbero conseguiti, proprio perché, come rilevato dal P.M. di Mantova, “si rilevano sia l’assenza di riscontri positivi che la presenza dei riscontri negativi indicati”. Il ricorrente, poi, ripercorre l’indagine a suo carico (nata dalla chiamata in correità da parte di certo Nello Boni), si sofferma sulla valenza probatoria della chiamata di correo, critica diffusamente l’attendibilità del Boni sotto il profilo intrinseco e sotto il profilo estrinseco, ed ascrive al P.M. di avere posto in essere un atto gravemente colposo in quanto affermante, con negligenza inescusabile, l’esistenza di fatti (l’attendibilità del Boni e la presenza di riscontri anche specifici) incontrastabilmente esclusi dagli atti del procedimento.

Ma l’attività “irriflessiva” del P.M. non si sarebbe fermata, perché lo stesso si sarebbe opposto anche all’accoglimento dell’istanza in data 18 marzo 1994, avanzata dalla difesa del rag.Buonanno e diretta ad ottenere la revoca della misura cautelare.

Opposizione gratuita ed illegittima, essendo acquisita agli atti una serie di riscontri negativi sulla credibilità del Boni.

Da quanto precede nascerebbe anche la censura per insufficiente e contraddittoria motivazione.

Invero la corte distrettuale, dopo aver dato atto della tripartizione delle fonti di responsabilità e non avere negato che gli atti e i comportamenti del P.M. potessero essere fonte di responsabilità autonoma rispetto a quella del GIP, avrebbe ritenuto queste pure questioni di merito, ininfluenti sulla fissazione del dies a quo per il decorso del termine biennale di decadenza.

Con ciò il decreto impugnato avrebbe violato anche l’art. 4, comma secondo, della legge n. 117 del 1988, che subordina l’esperibilità dell’azione – nell’ipotesi di atti o provvedimenti impugnabili – al presupposto dell’avvenuto esperimento di tutti i mezzi ordinari d’impugnazione e ad un termine di decadenza biennale, decorrente dal momento in cui l’atto o il provvedimento sia divenuto definitivo; e – nell’ipotesi di atti, comportamenti o provvedimenti non impugnabili – al solo esercizio dell’azione nel biennio decorrente dall’esaurimento del grado procedimentale, nell’ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno. Una volta asserita l’autonomia dei comportamenti e degli atti del P.M. come fonte di responsabilità, non potrebbe che concludersi per la tempestività dell’azione in merito alla questione specifica.

Infatti quanto ascritto ai due magistrati costituirebbe materia sottratta a qualsiasi tipo di impugnativa, il che farebbe rientrare l’azione in esame nella seconda ipotesi sopra richiamata.

I due mezzi di cassazione – che, essendo tra loro connessi, devono formare oggetto di esame congiunto – non sono fondati.

L’art. 2, primo comma, della legge 13 aprile 1988, n. 117, dispone che “Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni, ovvero per diniego di giustizia, può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale”.

Il secondo comma esclude che, nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, possa dar luogo a responsabilità l’attività d’interpretazione di norme di diritto o quella di valutazione del fatto e delle prove.

Il terzo comma determina i casi tipici di colpa grave.

L’art. 4, comma secondo, della medesima legge, poi, stabilisce che “L’azione di risarcimento del danno contro lo Stato può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari d’impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell’ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno. La domanda deve essere proposta a pena di decadenza entro due anni, che decorrono dal momento in cui l’azione è esperibile”.

In quest’area normativa si collocano e vanno esaminate le questioni sollevate dal ricorrente con i due mezzi di cassazione.

Nell’interpretazione del citato art. 4 questa corte, con sentenza 11 marzo 1997 n. 2186 (richiamata anche dal ricorrente), ha affermato che il termine biennale di decadenza dall’azione di risarcimento del danno contro lo Stato per responsabilità civile del magistrato, fondata sull’adozione di provvedimento avverso il quale sia previsto uno specifico rimedio, o che sia comunque suscettibile di revoca o modifica, decorre dal momento in cui non sia più possibile la rimozione del provvedimento e non dall’esaurimento del grado del procedimento nell’ambito del quale si è verificato il danno, che costituisce presupposto dell’azione nei soli casi in cui avverso il provvedimento non siano previsti rimedi.

Si tratta di un principio che il collegio condivide, perché basato sul tenore testuale della norma. Esso non contrasta con le conclusioni cui è giunto il decreto impugnato, ed anzi conferma che, per il provvedimento avverso il quale sia previsto uno specifico rimedio, o che sia comunque suscettibile di revoca o modifica, il termine decadenziale decorre non dall’esaurimento del grado, ma dal momento in cui il provvedimento medesimo non sia più passibile di revoca o modifica (o perché definitivamente caducato o per avere esaurito i suoi effetti). Il principio è stato ulteriormente chiarito con sentenza 23 dicembre 1997, n. 13003, la quale ha posto in evidenza che, in tema di responsabilità civile dei magistrati, l’art. 4 comma secondo della legge n. 117 del 1988 prevede espressamente che l’azione di risarcimento può essere esercitata solo quando siano stati esperiti i mezzi ordinari d’impugnazione e gli altri rimedi previsti, sicché, qualora il rimedio contemplato non sia stato esperito, l’azione risarcitoria deve ritenersi preclusa.

Come la sentenza da ultimo citata rileva in motivazione, la norma appare diretta a privilegiare i rimedi endoprocessuali rispetto all’azione risarcitoria, subordinando quest’ultima alla circostanza che il danneggiato abbia messo in funzione i meccanismi predisposti dall’ordinamento per eliminare, o almeno ridurre, il danno.

Tanto premesso, è ben vero che l’art. 2, primo comma, della legge n. 117 del 1988 contempla, come possibili cause di danno ingiusto, comportamenti, atti, o provvedimenti giudiziari posti in essere da un magistrato (con dolo o colpa grave) nell’esercizio delle sue funzioni. Il legislatore ha adottato una formula volutamente ampia, allo scopo di comprendere tutte le condotte rilevanti, mentre il riferimento al magistrato rivela che destinatari della previsione sono tutti coloro che rivestono il relativo status, a prescindere dalle funzioni esercitate.

É vero del pari che anche atti, comportamenti o provvedimenti del P.M. possono essere ex se causa di un danno ingiusto, dal momento che detto organo esercita l’azione penale (artt.. 50, 405 c.p.p.) e per le determinazioni inerenti a tale esercizio svolge con la polizia giudiziaria (nell’ambito delle rispettive attribuzioni) le indagini preliminari necessarie (art. 326 c.p.p.), delle quali ha la direzione (art. 327 c.p.p.), adottando anche provvedimenti, come la convalida del sequestro, nei confronti dei quali sono previsti specifici rimedi (art. 355 c.p.p.).

É chiaro quindi che, nel quadro delle complesse attribuzioni demandate al P.M. durante la fase delle indagini preliminari, esiste una varia tipologia di atti, comportamenti o provvedimenti propri di quell’organo (e quindi autonomi). Ma, posta questa considerazione di ordine generale, si tratta di verificare, con riguardo alla fattispecie concreta, quale sia il fatto causativo del danno e se esso sia riconducibile ad una condotta autonoma del P.M., insuscettibile d’impugnazione.

L’art. 4, secondo comma, della legge n. 117 del 1988, infatti, si riferisce espressamente al fatto che ha cagionato il danno, e ad esso bisogna far capo per stabilire a quale soggetto esso vada riferito ed a quale regime giuridico sia sottoposto.

Orbene, emerge con chiarezza dal decreto impugnato e dallo stesso ricorso per cassazione che, nel caso in esame, “il fatto che ha cagionato il danno” s’identifica con l’ordinanza che dispose la misura cautelare della custodia in carcere (cui fecero seguito i provvedimenti ulteriori menzionati in ricorso).

Senza dubbio la misura cautelare fu disposta su richiesta dei P.M. (art. 291 c.p.p.), ma e vero del pari che quella richiesta poteva anche non essere accolta e che il suo accoglimento presuppone una fase valutativa che convinse il giudice ad adottare il provvedimento e poi a respingere, su conforme parere degli stessi P.M., l’istanza di revoca; come frutto di valutazione fu la successiva decisione del tribunale per il riesame.

Il vero è che, nel vigente sistema processuale penale, le misure cautelari (artt. 272 e segg. c.p.p.) scaturiscono da un procedimento che viene attivato dalla richiesta del P.M. ma che vede il suo momento centrale nel provvedimento emesso dal GIP. La richiesta del P.M. non è ex se impugnabile perché da sola non è idonea ad incidere sulla libertà della persona (arg. ex art. 279 c.p.p.). Soltanto il provvedimento del giudice che accolga la richiesta può limitare quella libertà, dando luogo eventualmente ad un danno ingiusto. E il provvedimento è suscettibile d’impugnazioni, sia ai sensi dell’art. 111 Cost., sia ai sensi degli artt. 309 e seg.

c.p.p., nonché d’istanza di revoca o sostituzione a norma dell’art. 299 c.p.p.

Le impugnazioni sono dirette contro il provvedimento giurisdizionale, ma inevitabilmente investono anche la richiesta del P.M. quando il provvedimento sia stato ad essa conforme, perché il P.M. ha presentato al giudice gli elementi ritenuti necessari (art. 291, primo comma, c.p.p., applicabile alla fattispecie nel testo anteriore alla riforma attuata con legge 8 agosto 1995 n. 332), e di quegli elementi il giudice si è avvalso nell’emettere l’ordinanza (art. 292 c.p.p.). Si deve perciò condividere l’argomento addotto nel decreto della corte bresciana, secondo cui gli atti del P.M. preordinati all’emissione di un provvedimento cautelare, come quelli diretti ad evitarne la revoca o la modifica, sono impugnabili, sia pure non autonomamente bensì nei modi e nei limiti in cui è impugnabile il provvedimento giurisdizionale cui ineriscono.

Il che non significa, come opina il ricorrente, creare una sorta di tertium genus (impugnabilità per relationem), in contrasto col tenore dell’art. 4, comma secondo, della legge n. 117 del 1988, il quale invece prevede due sole discipline (alternative, autonome e non interferenti: Cass., n.2186 del 1997, in motivazione). La richiesta del P.M. viene ad essere necessariamente investita dall’impugnazione della parte privata contro l’ordinanza del GIP che ha accolto la richiesta medesima, in quanto detta impugnazione è diretta a contestare gli elementi posti a base della misura cautelare, che il P.M. ha fornito al GIP. Non si tratta, quindi, d’impugnabilità per relationem, bensì d’ipotesi rientrante nella previsione dell’art. 4, comma secondo, della legge n. 117 del 1988, laddove si riferisce ai mezzi ordinari d’impugnazione o agli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari.

D’altronde, che questa sia l’interpretazione corretta della normativa de qua si evince non soltanto dai caratteri del vigente sistema processuale penale in tema di misure cautelari, quale sopra si è cercato di delineare nei suoi estremi essenziali, ma anche da considerazioni di ordine logico – sistematico.

Se si accedesse alla tesi propugnata dal ricorrente, si verrebbe a creare una irragionevole disparità di trattamento tra GIP (che ha emesso la misura cautelare, evidentemente dopo adeguata ponderazione degli elementi a lui sottoposti, realizzando col suo provvedimento “il fatto che ha cagionato il danno) e P.M., che ha avanzato la richiesta, la quale però da sola era priva di carattere decisorio, quindi inidonea a cagionare il danno, acquisendo efficienza causale lesiva soltanto tramite l’emissione dell’ordinanza. Il primo, per effetto dell’impugnabilità dei suoi provvedimenti, vedrebbe decorrere il termine decadenziale di due anni dal momento in cui siano stati esperiti i mezzi d’impugnazione o gli altri rimedi previsti, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento (per esempio, come nella specie, per avere esaurito i suoi effetti). Per il secondo gli stessi termini prenderebbero a decorrere solo quando sia esaurito il grado del procedimento, nel cui ambito si è verificato il fatto che ha causato il danno, ancorché l’impugnazione contro il provvedimento (causativo del danno) abbia inevitabilmente investito anche il contenuto della richiesta.

Palesi esigenze di coerenza interna del sistema e d’interpretazione conforme a Costituzione impongono di considerare corretto l’indirizzo seguito dal decreto della corte distrettuale.

In questo contesto non può essere condivisa la tesi sostenuta dal ricorrente, il quale, prendendo le mosse dalla (esatta) tripartizione delle fonti di responsabilità voluta dal legislatore (atti, provvedimenti, comportamenti), mira ad evidenziare nella condotta dei due P.M. atti e comportamenti (che si sarebbero concretati nell’avere affermato, con negligenza inescusabile, fatti la cui esistenza sarebbe stata incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento) del tutto separati dal provvedimento del GIP, traendone la conclusione della riferibilità anche a tali atti e comportamenti della doppia ipotesi del sistema delle preclusioni, previsto dall’art. 4 della legge n. 117 del 1988.

in realtà quegli atti e comportamenti – sui quali il ricorrente si trattiene a lungo, ricostruendo l’indagine condotta a suo carico – altro non sono che gli elementi poi tradotti nella richiesta di misura cautelare, sicché non è possibile scinderli da questa, onde rimangono valide le considerazioni in precedenza svolte. E ciò a prescindere da ogni valutazione sull’intrinseca consistenza degli addebiti mossi ai due magistrati, valutazione preclusa dal decorso del termine biennale di decadenza esattamente affermato dai giudici di merito.

In definitiva, i primi due motivi del ricorso devono essere respinti.

Col terzo mezzo di cassazione il ricorrente deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione al quarto motivo d’impugnativa, da lui esposto, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. c.p.c.

Sostiene che nel corso del giudizio di primo grado il convenuto e gli interventori avrebbero sollevato sia il problema della mancanza dei presupposti sia della decadenza dall’azione.

Il tribunale, nell’esaminare la vicenda, avrebbe osservato che l’ordinanza di custodia cautelare in carcere fu emessa dal GIP il 17 febbraio 1994 e nei suoi confronti non sarebbe stata proposta richiesta di riesame.

Pertanto non vi sarebbe dubbio che, nel decreto dei primi giudici, sarebbe stata la carenza dei presupposti per mancata impugnativa della misura cautelare, salvo poi passare più specificamente all’esame delle questioni sulla decadenza, che avrebbero avuto ben altro dibattito dottrinario e giurisprudenziale.

In questa situazione, in sede di appello, l’attuale ricorrente avrebbe svolto idonee argomentazioni sulle problematiche concernenti l’obbligo di preventiva impugnazione – laddove consentita – quale presupposto dell’azione, eccependo il contrasto della norma in questione con l’art. 24 della Costituzione, risultando inammissibilmente compressi il diritto e la libertà di difesa.

La corte distrettuale, contro l’emergenza documentale, avrebbe ritenuto infondata la censura, affermando che essa non avrebbe trovato riscontro nel provvedimento impugnato, in quanto il tribunale avrebbe dichiarato inammissibile la domanda sotto il diverso profilo della decadenza dall’azione, perché proposta oltre il biennio di cui all’art. 4, comma 2°, della legge n. 117, decorrente dal 17 maggio 1994.

Si tratterebbe di una erronea ricostruzione della decisione dei giudici di prime cure, le cui parole costituirebbero un accertamento, quanto meno incidentale, della mancanza dei presupposti dell’azione.

La pronunzia della corte territoriale andrebbe quindi riesaminata, secondo le prospettazioni dell’impugnante (le quali sono riportate in ricorso, compresa la questione di costituzionalità della norma che impone in via esclusiva, quale presupposto dell’azione, il preventivo esperimento delle impugnazioni, per compressione del diritto di difesa, alla luce dell’art. 24 Cost.).

Il ricorrente deduce poi, quanto ai termini di decadenza, di avere prospettato la violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione ad opera dell’art. 4, secondo comma, della legge n. 117 del 1988, lamentando che il tribunale avesse fatto coincidere il termine iniziale del biennio, entro il quale esperire l’azione a pena di decadenza, con la data in cui era venuto meno il provvedimento restrittivo, cioé con il 17 maggio 1994.

Il convenuto e gli interventori, invece, avrebbero collocato il termine iniziale del biennio al momento dell’esaurimento dei mezzi ordinari d’impugnazione (ma il punto non è rilevante per la decisione di questa causa).

Con riguardo all’art. 3 Cost. andrebbe ricordato che l’art. 2 della legge n. 117 attribuisce a chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario (posto in essere con dolo o colpa grave da un magistrato nell’esercizio delle sue funzioni, ovvero per diniego di giustizia) il diritto di agire contro lo Stato, mentre l’art. 5, n. 3 della stessa legge dispone che la domanda è inammissibile (tra l’altro) quando è manifestamente infondata.

La normativa de qu porrebbe l’accento sulla necessità dell’esistenza di un fatto produttivo di danno che sia di obiettiva conoscibilità, tant’é che poi demanderebbe al tribunale la valutazione della non manifesta infondatezza della domanda.

Pertanto, solo l’atto conclusivo del procedimento potrebbe stabilire con efficacia vincolante la correttezza o meno di un provvedimento che si vuole generatore di danno.

Ma al momento dell’emissione della misura cautelare gli atti del P.M. non sarebbero disponibili per la parte, sicché nessuna valutazione di correttezza o meno del provvedimento cautelare sarebbe possibile in quella fase. E si dovrebbe aggiungere che l’art. 291 c.p.p., prima della riforma attuata con l’art. 8 della legge n. 332 del 1995, imponeva al P.M. il solo obbligo di presentare al GIP gli elementi sui quali la richiesta si basava e non anche quelli reperiti a favore dell’indagato e suscettibili di contrastare l’istanza di provvedimento cautelare.

In tale situazione la normativa porrebbe gli attori, in relazione alle diverse ipotesi, in regime di disparità di trattamento: chi agisce in base ad un atto o comportamento non impugnabile potrebbe disporre di un provvedimento definitivo, costituente una indiscutibile declaratoria d’illegittimità dei fatti generatori di responsabilità; chi agisce in base ad un provvedimento appartenente ad un procedimento incidentale, di per sé impugnabile, sarebbe costretto a fondare la propria azione sul suo mero convincimento di ingiustizia del provvedimento medesimo, qualora nel biennio dalla sua emanazione non si sia esaurito il grado di giudizio.

In quest’ultima osservazione andrebbe reperita anche la violazione dell’art. 24 Cost., essendo comminata una decadenza in epoca anteriore alla declaratoria di sussistenza dei presupposti del diritto al risarcimento, con ciò violandosi il diritto all’esercizio dell’azione.

La corte territoriale avrebbe ritenuto la questione infondata, quanto al parametro di cui all’art. 24 Cost., ed inammissibile in ordine all’art. 3, ribadendo il concetto di unicità del dies a quo per il decorso del termine di decadenza.

L’assunto andrebbe riesaminato alla luce della decisione sui primi due motivi del ricorso.

Il motivo non ha fondamento.

Seguendo lo stesso ordine dato alle questioni dal ricorrente, si deve osservare – circa il decreto del tribunale, nella parte in cui rileva che contro l’ordinanza applicativa della misura cautelare non fu proposta richiesta di riesame – che tale affermazione è rimasta del tutto isolata e non è entrata in alcun modo a far parte della ratio decidendi, interamente ed esclusivamente basata sull’inammissibilità della domanda per l’intervenuto decorso del termine di decadenza.

In altre parole i primi giudici non ritennero l’azione del Buonanno preclusa per mancato proposizione della richiesta di riesame, ma dichiararono che il Buonanno aveva proposto la domanda tardivamente.

La suddetta affermazione, dunque, si risolve in un semplice passaggio argomentativo ad abundantiam, sicché si rivela corretta la lettura della corte bresciana, la quale ha posto in rilievo – nell’esaminare il punto quarto del reclamo avanzato dal Buonanno – che il tribunale aveva dichiarato l’inammissibilità della domanda sotto il diverso profilo della decadenza dell’azione, desumendone quindi l’infondatezza della doglianza.

Né può condividersi l’assunto del ricorrente, secondo cui le parole spese dai giudici di prime cure costituirebbero un accertamento “quanto meno incidentale” della mancanza dei presupposti dell’azione.

Il contrario si evince con chiarezza dal decreto del tribunale, ben letto dalla corte d’appello, che non ha tratto conseguenze dal mancato esperimento della richiesta di riesame, imperniando il proprio decisum sulla decadenza.

Ne deriva che, per questo profilo, il decreto impugnato si sottrae alle censure del Buonanno, con conseguente irrilevanza della questione di legittimità costituzionale della norma, laddove impone quale presupposto dell’azione il preventivo esperimento delle impugnazioni, trattandosi di precetto nella fattispecie non applicato.

Quanto ai termini di decadenza:

a) Come già notato, l’art. 4, comma secondo, della legge 13 aprile 1988, n. 117 distingue due ipotesi: la prima concerne il caso in cui contro l’atto considerato lesivo sono esperibili i mezzi ordinari d’impugnazione e gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento; la seconda riguarda il caso in cui tali rimedi non sono previsti.

Nella prima ipotesi il termine biennale di decadenza decorre dal momento in cui non sia più possibile la rimozione del provvedimento, nell’altra dall’esaurimento del grado del procedimento nel cui ambito si è verificato il danno (Cass. 11 marzo 1997, n. 2186).

In tale disciplina il ricorrente ravvisa una disparità di trattamento, perché chi agisce in base ad un atto o comportamento non impugnabile può disporre di un provvedimento definitivo “che costituisce una indiscutibile declaratoria di illegittimità dei fatti generatori di responsabilità”, mentre chi agisce in base ad un provvedimento appartenente ad un procedimento incidentale, di per sé impugnabile, è costretto a fondare la propria azione sul suo mero convincimento di ingiustizia del provvedimento medesimo.

Ma, in primo luogo, non è esatto che chi propone l’azione dopo l’esaurimento del grado dispone in ogni caso di un provvedimento definitivo nei termini indicati dal ricorrente. Questo è un dato meramente eventuale perché il provvedimento che esaurisce “il grado del procedimento” non deve necessariamente avere il contenuto che il ricorrente ipotizza. Come non è esatta l’altra prospettazione, perché chi è stato destinatario di un provvedimento impugnabile non é costretto a basarsi soltanto sul suo soggettivo convincimento, ma ben può attingere elementi oggettivi dal provvedimento e dalle risultanze del procedimento incidentale d’impugnazione.

Si consideri, a tal proposito (e per rimanere nel campo delle misure cautelari, di cui si discute nel presente giudizio) che, ai sensi dell’art. 291 c.p.p. (nel testo anteriore alla riforma attuata con la legge n. 332 del 1995), il P.M., nel richiedere la misura cautelare, doveva presentare al giudice competente gli elementi su cui essa si fondava; che l’ordinanza del giudice, oltre alla descrizione sommaria del fatto con l’indicazione delle norme di legge asseritamente violate, deve contenere (a pena di nullità) l’esposizione delle specifiche esigenze cautelari e degli indizi che giustificano in concreto la misura disposta, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi della loro rilevanza (art. 292 c.p.p., nel testo anteriore alle modifiche di cui alla legge n. 332 del 1995); che sono previsti rimedi ed impugnazioni, sperimentando i quali è possibile acquisire ulteriori elementi di convincimento.

Non può dunque ravvisarsi una disparità di trattamento, idonea ad assumere rilevanza nel quadro dell’art. 3 della Costituzione, ma piuttosto una disciplina differenziata, in relazioni a situazioni processuali oggettivamente diverse, per le quali non è inibito al legislatore regolare in modo non rigidamente uniforme i modi della tutela giurisdizionale, a condizione che non siano violati i principi fondamentali di garanzia ed effettività di tale tutela (del che si dirà in prosieguo).

E nella specie appare anche ragionevole che, quando siano stati esperiti i rimedi previsti e il provvedimento non sia più suscettibile di revoca o modifica, prendano a decorrere i termini di decadenza per l’azione risarcitoria, in quanto ciò risponde ad esigenze di certezza delle situazioni giuridiche, ben bilanciate peraltro dalla congruità del termine previsto (due anni dal momento in cui l’azione è diventata esperibile).

Pertanto la questione di legittimità costituzionale, sollevata con riguardo all’art. 3 della Costituzione, deve ritenersi manifestamente infondata.

b) A conclusioni non diverse deve giungersi con riferimento all’art. 24 della Costituzione.

Il ricorrente prospetta una minore possibilità di difesa perché, al momento dell’applicazione della misura cautelare, gli atti del P.M. non sono disponibili per la parte, sicché nessuna valutazione di correttezza o meno del provvedimento cautelare sarebbe possibile in quello stadio.

Se si volesse portare alle estreme (ma logiche) conseguenze questo discorso bisognerebbe concludere per l’inutilità dei rimedi e delle impugnazioni previsti (anche a livello costituzionale: art. 111) avverso i provvedimenti limitativi della libertà personale.

Ma il vero è che la normativa in proposito, pur nella più restrittiva formulazione previgente alla riforma del 1995, consentiva all’interessato di disporre di elementi concreti sufficienti per valutare l’operato dei magistrati (ovviamente nei limiti in cui esso sia suscettibile di dar luogo a responsabilità civile, ai sensi della legge n. 117 del 1988), e quindi di attivare nei termini legali l’eventuale azione risarcitoria, così facendo valere il suo diritto alla tutela giurisdizionale. Egli, infatti, attraverso l’ordinanza di custodia cautelare, era reso edotto degli elementi portati a suo carico ed utilizzati per la contestazione, onde poteva formarsi non soltanto un adeguato convincimento sull’operato dei magistrati e sulla sua posizione processuale, ma anche predisporre la propria difesa e le eventuali iniziative giudiziarie ritenute opportune.

Pertanto anche la suddetta questione si rivela manifestamente infondata.

Alla stregua delle precedenti considerazioni, il ricorso deve essere respinto.

Si ravvisano, tuttavia, giusti motivi per dichiarare compensate tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, il 26 maggio 1999, nella camera di consiglio della prima sezione civile della Corte suprema di cassazione.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IN DATA 3 DIC. 1999