Svolgimento del processo

Nel 1959, il Comune di Palermo stipulò con Romolo Vaselli un contratto di appalto per l’espletamento del servizio di nettezza urbana.

Verso la scadenza della convenzione, prevista per il 31 agosto 1968, il Comune, al fine di evitare la sospensione del servizio, con decreto del 24 agosto 1968, integrato da altro successivo decreto del 5 settembre, ordinò la requisizione dell’azienda dell’impresa appaltatrice e delle relative attrezzature, per la durata di quattro mesi con decorrenza dal 1° settembre 1968, riservandosi di determinare l’indennità con successivo decreto.

Nel 1973, Erberto, Roberto, Dino, Giovanni, Romolo ed Elvira Vaselli, Livio Lener e M. Grazia Bornigia, nelle qualità rispettivamente indicate nell’atto introduttivo, convennero innanzi al Tribunale di Palermo il Sindaco della stessa città per sentir dichiarare l’illegittimità dei provvedimenti di requisizione e condannare il Comune al risarcimento dei danni. Il giudice adito, con una prima sentenza non definitiva, dichiarò che la detenzione dei beni da parte del Comune per il periodo successivo al 31 dicembre 1968 era illegittima e condannò il Comune al risarcimento dei danni: quindi, con la sentenza definitiva, liquidò i danni nella misura di L. 3.389.487.900, da rivalutare, secondo gli indici Istat, a decorrere dal 1° gennaio 1985 e fino alla data di pubblicazione della sentenza, con gli interessi legali sulla somma rivalutata, a partire dal 1° gennaio 1969.

La Corte d’Appello, investita dell’impugnazione proposta da entrambe le parti, con sentenza depositata il 20 ottobre 1987, ridusse l’importo del risarcimento e determinò il danno, quanto al mancato godimento del suolo requisito, con gli interessi legali sul valore dello stesso al tempo della liquidazione a partire dalla scadenza del termine di requisizione (1° gennaio 1969).

Quanto, poi, ai beni mobili, essendo questi frattanto andati distrutti e considerato che il diritto di acquisirli previsto dall’art. 31 del capitolato d’appalto era stato dal Comune esercitato nel maggio 1970, tardivamente e quando ormai la detenzione era divenuta illegittima per effetto della scadenza della requisizione, determinò il danno per la loro perdita in misura corrispondente al valore venale dei beni stessi al tempo dell’inizio dell’illegittima detenzione, attualizzato, al tempo della liquidazione, con gli interessi legali a partire dalla scadenza della requisizione.

La Corte escluse che su tali somme fossero dovuti ulteriori interessi, non potendo trovare applicazione, in relazione ai debiti di valore, l’art. 1283 cod. civ.

Contro tale sentenza Erberto, Giuseppe, Paola, Massimo, Emanuela, Elvira e Filippo Vaselli, Maria Grazia Bornigia, in qualità di procuratrice generale di Priscilla e Livio Lener, quale coesecutore testamentario di Romolo Vaselli, hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di un solo motivo. Il Comune di Palermo ha proposto ricorso incidentale, articolato in cinque motivi.

Al ricorso del Comune resistono i ricorrenti principali, proponendo anch’essi un ricorso incidentale basato su sei motivi, al quale resiste con controricorso il Comune, che, nell’eccepire l’inammissibilità del ricorso incidentale dei Vaselli, ne propone a sua volta un altro, articolato in cinque mezzi. Le parti hanno anche depositato memorie.

Motivi della decisione

I quattro ricorsi (n. 562 del 1988, n. 1156 del 1988, n. 1157 del 1988 e n. 1846 del 1988) devono essere riuniti a norma dell’art. 335 cod. proc. civ., trattandosi di impugnazione contro la stessa sentenza.

Con l’unico motivo del ricorso principale (R.G. n. 562 del 1988), gli eredi Vaselli censurano la sentenza impugnata nella parte in cui non ha condannato il debitore al pagamento degli interessi sugli interessi attribuiti per le somme liquidate a titolo di risarcimento dei danni. Deducono che dovevano essere loro corrisposti anche gli interessi composti, in quanto il risarcimento deve ricompensare il danneggiato di tutto il lucro che questi, per fatto dell’autore del danno, non ha potuto acquisire.

Contestano, perciò, la tesi secondo la quale l’art. 1283 cod. civ. è inapplicabile alle obbligazioni di valore. La censura è priva di fondamento. È stato costantemente affermato da questa Corte (cfr. da ultimo, sent. n. 2296 e sent. n. 1983 del 1990 e sent. n. 6476 e n. 5781 del 1984) che l’ art. 1283 cod. civ., in tema di anatocismo, è inapplicabile alle obbligazioni di risarcimento del danno.

Ed invero, il legislatore del 1942, superando l’originario sfavore nei confronti dell’istituto, introdusse l’anatocismo nel codice civile con riferimento specifico a quel tipo di obbligazioni (disciplinate nella Sez. I del V capo, Titolo I del IV libro del codice civile), denominate pecuniarie, ossia alle obbligazioni cosiddette di valuta, aventi sin dall’origine ad oggetto una somma di danaro. Né può la relativa norma ritenersi applicabile in via analogica alle obbligazioni di valore, giacché le ragioni per le quali l’istituto venne introdotto (cioè l’intento di ridurre, in considerazione della naturale fecondità del danaro, il rigore del principio nominalistico che caratterizza le obbligazioni di valuta) e le forti limitazioni cui fu assoggettata la sua operatività (decorrenza degli interessi sugli interessi solo a partire dalla domanda giudiziale, salvo convenzione successiva alla loro scadenza; periodo minimo di sei mesi) dimostrano la natura eccezionale della norma.

Peraltro, deve escludersi che, nella specie, la sua mancata applicazione abbia impedito ai ricorrenti di ottenere il ristoro dell’intero danno concretamente subito, giacché il criterio di liquidazione adottato dal giudice del merito (consistente nel determinare il credito dei Vaselli con riferimento al tempo in cui subirono il danno, nell’attualizzarne l’importo e nell’attribuire ai danneggiati gli interessi compensativi – a partire dal momento iniziale della consumazione dell’illecito – non già sull’importo dell’epoca, ma sulla somma risultante dalla sua rivalutazione), ha certamente coperto interamente il pregiudizio subito dai ricorrenti, in termini sia di danno emergente che di lucro cessante, così come prescritto dagli artt. 2043 e 2056 cod. civ.

Con il primo motivo del ricorso incidentale (R.G. n. 1156 del 1988), il Comune di Palermo lamenta che la Corte d’Appello l’abbia condannato anche al pagamento del valore degli automezzi requisiti e in generale dei mobili, benché, riguardo a questi, il Comune, con delibera della Giunta municipale n. 2374 del 2 marzo 1970, avesse esercitato il diritto di ritenzione (rectius: di acquisizione al proprio patrimonio), avvalendosi della clausola n. 31 del capitolato d’appalto.

Rileva, che, in base a detta clausola, l’acquisto di quei beni doveva avvenire per un prezzo da determinarsi, in caso di mancato accordo, a cura di un collegio arbitrale, sicché la domanda di risarcimento dei danni per l’uso degli stessi da parte del Comune, avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile, per mancanza o di un presupposto processuale (l’omessa instaurazione del procedimento di arbitraggio per la determinazione del prezzo di acquisto) oppure di una condizione dell’azione.

Il Comune osserva, peraltro, che la facoltà – concessagli dal contratto di appalto – di acquistare in proprietà i beni mobili, escludeva in radice la consumazione di un fatto illecito, giacché, con l’esercizio della stessa, il Comune restava debitore soltanto del prezzo della loro cessione, da determinarsi nei modi suddetti.

Sostiene che la Corte d’Appello avrebbe inadeguatamente motivato la sentenza, per non aver attribuito rilievo al fatto che tale diritto era stato validamente esercitato. Invero, dalla sentenza non emergerebbe con chiarezza se l’esercizio del diritto di acquisizione degli autoveicoli sia stato ritenuto tardivo e perché (posto che il contratto d’appalto non aveva previsto a tal fine un termine perentorio); o sia stato ritenuto illegittimo e perché (dato che l’atto amministrativo non era stato impugnato innanzi al T.A.R.); oppure ancora se sia stato ritenuto incompatibile con il precedente esercizio del potere di requisizione e, quindi, precluso dallo stesso.

Osserva, a quest’ultimo riguardo, che una tale incompatibilità non ricorreva, in quanto i due istituti potevano ben coesistere, agendo su livelli differenti: il primo, sulla proprietà dei beni; il secondo, sul loro uso.

In relazione a tale doglianza, i ricorrenti principali hanno proposto un ricorso incidentale (R.G. n. 1157 del 1988), articolato in vari motivi, con i quali si dolgono del fatto che la Corte di Appello abbia esaminato nel merito l’operatività della predetta clausola n. 31 del capitolato d’appalto, relativa all’acquisizione dei beni mobili dell’impresa appaltatrice, laddove, a loro giudizio, sussistevano svariate cause di inammissibilità dei motivi di Appello inerenti a tale questione o di rigetto degli stessi per ragioni preliminari di merito. In particolare, col primo motivo di ricorso incidentale, il gruppo Vaselli afferma che la sentenza impugnata è insufficiente motivata nella parte in cui ha rigettato nel merito la tesi del Comune circa l’applicazione dell’art. 31 del contratto d’appalto, perché non ha preventivamente risposto all’eccezione di inammissibilità di quella richiesta, basata sul fatto che lo stesso Comune, in un procedimento di arbitrato celebratosi precedentemente tra le stesse parti per la chiusura dei rapporti sorti col contratto di appalto, aveva eccepito l’incompetenza degli arbitri riguardo ad ogni domanda dei Vaselli che fosse finalizzata ad ottenere un risarcimento dei danni.

Col secondo mezzo i Vaselli lamentano l’insufficiente motivazione della decisione anche per aver omesso di considerare che, se il Comune avesse voluto esercitare la facoltà di cui al predetto art. 31, il corrispettivo della cessione avrebbe dovuto essere determinato dal collegio arbitrale di cui all’art. 35 del medesimo capitolato, con la conseguenza che, una volta convenuto in giudizio per il risarcimento del danno, il Comune avrebbe dovuto eccepire l’incompetenza del giudice adito: mentre, invece, aveva riconosciuto il diritto dei Vaselli al risarcimento dei danni e prestato acquiescenza alla statuizione contenuta sul punto nella sentenza del Tribunale. A loro giudizio, il Comune, inoltre, sul tale punto non avrebbe neppure potuto impugnare la sentenza definitiva del Tribunale, perché la stessa era stata emessa anche in base alla sua richiesta di determinazione del danno risarcibile, sicché la Corte d’Appello avrebbe dovuto dichiarare inammissibile la domanda diretta a porre nuovamente in discussione il diritto dei Vaselli al risarcimento dei danni.

Col terzo motivo, deducono che solo nel giudizio di Appello il Comune aveva invocato l’esercizio del diritto di acquisizione dei beni mobili, giacché in primo grado si era limitato a chiedere al Tribunale di determinare secondo equità il danno da risarcire ai Vaselli per l’uso dei beni, così riconoscendo di averli illegittimamente detenuti.

Affermano che la Corte d’Appello non avrebbe motivato sulla loro eccezione di prescrizione del diritto di acquisizione. Con il quarto, osservano che l’assunto del Comune di aver rilevato, nel maggio 1970, i beni precedentemente requisiti, è fondato su un atto stragiudiziale che lo stesso Comune avrebbe notificato a Romolo Vaselli; atto di cui il Comune non aveva prodotto in giudizio l’originale, ma solo una copia; sostengono che la Corte d’Appello non ha esaminato la loro eccezione circa l’inefficacia probatoria dell’atto, prodotto in copia informe e priva di sottoscrizione.

Con il quinto motivo, lamentano un’ulteriore insufficienza di motivazione della decisione circa la loro eccezione di mancanza di interesse del Comune a far valere il diritto di acquisizione, dovendo quest’ultimo, in ogni caso, corrispondere, per tale acquisto, una somma uguale a quella liquidata per il risarcimento del danno.

Con la sesta censura, lamentano, infine, che la Corte d’Appello non avrebbe tenuto conto delle loro osservazioni in merito al fatto che il Comune, nel predetto atto del maggio 1970, non aveva manifestato la volontà di acquisire immediatamente i beni requisiti, a norma dell’art. 31 del capitolato, ma solo quella di rilevarli nel futuro.

Il Comune ha eccepito l’inammissibilità del ricorso incidentale dei Vaselli, invocando l’autorità di alcuni precedenti giurisprudenziali di questa Corte, secondo i quali è inammissibile un ricorso incidentale proposto dalla stessa parte che ha formulato quello principale (Cass. n. 2186 del 1985 e n. 1754 del 1984).

Nel contempo, lo stesso Comune, ha, però, proposto un secondo ricorso incidentale (R.G. n. 1846 del 1988), con il quale ha sostanzialmente riproposto i motivi di impugnazione articolati nel proprio precedente ricorso incidentale. L’eccezione di inammissibilità del ricorso incidentale dei Vaselli non è fondata. Va osservato, a tal proposito, che il principio enunciato nelle massime richiamate dal Comune si fonda sull’interpretazione coordinata di una serie di norme, dalle quali si evince la regola della consumazione del diritto d’impugnazione attraverso il suo esercizio.

Tali sono: la disposizione per la quale l’impugnazione parziale (o solo di alcuni capi) della sentenza, importa acquiescenza alle parti non impugnate ( art. 329, comma 2, cod. proc. civ.); quella che concede la possibilità di proporre impugnazione incidentale solo alla parte cui fu notificata l’impugnazione principale ( art. 333 cod. proc. civ.); la norma di cui all’art. 371 cod. proc. civ., che, nel facultare la parte che ha ricevuto il ricorso principale a proporre ricorso incidentale, ammette il ricorrente principale, cui il ricorso incidentale sia stato notificato, soltanto a presentare controricorso.

Il suddetto principio deve mantenersi fermo ogni qual volta l’impugnazione principale concerna una sentenza articolata in più capi, tutti astrattamente suscettibili d’impugnazione perché sorretti da un corrispondente interesse attuale e concreto del ricorrente.

Deve ritenersi, infatti, che, in tal caso, il ricorrente, impugnando alcuni e non altri capi della sentenza, abbia operato una scelta precisa, prestando una parziale acquiescenza alla decisione. Un suo ulteriore e successivo ricorso per impugnare gli altri o gli stessi capi della sentenza, sarebbe, allora, inammissibile, in applicazione, a seconda dei casi, sia del suddetto art. 329 cod. proc. civ., sia del principio (ricavabile dall’ art. 387 cod. proc. civ.), per il quale al ricorrente non è consentita la proposizione di un nuovo ricorso, se non quando intenda porre rimedio ad una precedente impugnazione viziata e sempre che questa non sia stata già dichiarata inammissibile o improcedibile e non sia ancora decorso il termine per l’impugnazione.

Ed è proprio in applicazione di tale principio, infatti, che questa Corte deve dichiarare inammissibile il secondo ricorso incidentale proposto dal Comune di Palermo (R.G. n. 1846 del 1988).

Ad uguali conclusioni, invece, non può pervenirsi nell’ipotesi che la pronuncia impugnata consti di più capi, ma in relazione soltanto ad alcuni di essi sussista, per l’impugnante, un interesse attuale e concreto all’impugnazione, essendo egli risultato, quantunque per ragioni differenti da quelle da lui prospettate nel precedente grado di giudizio, parzialmente vittorioso.

In tal caso, infatti, un suo ricorso principale involgente anche i capi favorevoli della decisione (impugnati, questi, al solo fine di ottenere una motivazione conforme ad altre sue richieste), sarebbe, in relazione a tali capi, inammissibile. In questa ipotesi, quindi, la mancata impugnazione dei capi di sentenza favorevoli, non è frutto di una scelta, ne può, conseguentemente, importare acquiescenza alcuna, perché è imposta dalla carenza di interesse della parte all’impugnazione.

Un interesse che sorge, invece, proprio in occasione e per effetto della proposizione dell’impugnazione incidentale (il cui accoglimento potrebbe ribaltare la decisione favorevole) ed è sostanziato dall’esigenza della parte parzialmente vittoriosa di promuovere un riesame delle medesime questioni, anche alla luce di altre osservazioni da essa svolte nel precedente giudizio e disattese o ignorate dal giudice che ha emesso la sentenza impugnata.

È proprio questo sopravvenuto interesse, quindi, che legittima la formulazione di un’impugnazione incidentale da parte del ricorrente principale. Un’impugnazione che non può ritenersi consumata con la proposizione del ricorso principale (nel quale non poteva essere contenuta) e che neppure è preclusa dalla lettera dell’art. 334 cod. proc. civ., il quale abilità a proporre impugnazione incidentale indistintamente tutte “le parti contro le quali è stata proposta impugnazione e quelle chiamate ad integrare il contraddittorio” e si riferisce, in ogni caso, all’ipotesi in cui il potere di impugnazione sia stato perso per acquiescenza o decorso del termine, ipotesi non sussistente nella specie, in quanto, prima della proposizione del ricorso incidentale del Comune, i ricorrenti principali non avevano affatto il potere di impugnare i capi della sentenza a loro favorevoli.

Il ricorso incidentale dei Vaselli deve ritenersi, pertanto, ammissibile.

È evidente, tuttavia, la sua natura di ricorso condizionato, da prendere in esame, cioè, soltanto in caso di fondatezza del primo motivo di ricorso del Comune di Palermo, salva restando la sua rilevanza come controricorso. La censura del Comune è, però, infondata. Le sue argomentazioni si sviluppano partendo tutte da un dato positivo, la cui sussistenza è stata negata dal giudice del merito, ovverosia che, in attuazione della clausola 31 del capitolato d’appalto tra il Comune e il Vaselli, con una delibera di Giunta del 2 marzo 1970, il Comune aveva validamente esercitato la facoltà di acquistare il diritto di proprietà degli automezzi dell’impresa appaltatrice del servizio di nettezza urbana, tal che l’uso degli stessi non costituiva fatto illecito.

La Corte d’Appello ha ritenuto improduttivo di effetti l’esercizio di tale facoltà, in quanto tardivo, ossia esplicato non alla scadenza dell’appalto, come prescritto dal predetto art. 31, ma ben venti mesi dopo e quando ormai la detenzione degli automezzi da parte sua era divenuta illegittima, per essere scaduto anche il termine finale di una requisizione disposta dallo stesso Comune e che contraddiceva la pretesa di una sua pregressa volontà di acquisire la proprietà dei veicoli.

Si sono già esposte le ragioni per le quali il Comune ritiene errata questa soluzione ed insufficiente la motivazione. Essa, invece, per quanto sovrabbondante per certi aspetti e succinta per altri, appare comunque corretta e sufficiente, perché fornisce tutti gli elementi per l’individuazione della fattispecie e illustra le ragioni di fondo che hanno indotto il giudice a risolvere la questione nel senso della tardività dell’esercizio del diritto. Risulta, infatti, dalla sentenza impugnata, che l’art. 31 del capitolato d’appalto facultava il Comune, “all’atto della cessazione dell’appalto”, di rilevare tutti gli automezzi, fissando particolari modalità solo per la determinazione del prezzo di cessione. Ritiene questa Corte che la clausola predetta integra un vero e proprio patto di opzione, in quanto, con essa, secondo lo schema di cui all’art. 1331 cod. civ., il concessionario Vaselli s’impegno a mantenere ferma una sua offerta di cessione degli automezzi fino alla scadenza della concessione ed il Comune acquisì il potere di accettarla o ricusarla entro lo stesso termine. In altri termini, quel patto conferì al Comune il diritto potestativo (rispetto al quale il Vaselli veniva a trovarsi in una posizione di mera soggezione) di acquisire la proprietà degli automezzi mediante una semplice manifestazione di volontà, che andava ad incontrarsi con la proposta irrevocabile del Vaselli (art. 1329 cod. civ.).

Per l’art. 1331 cod. civ., tuttavia quando le parti stabiliscono un termine per l’esercizio della facoltà di accettazione (e nella specie, questo termine, nell’apparente genericità, era, invece, “certus an et quando”, poiché correlato alla data certa della scadenza della concessione), l’inutile decorso del termine, facendo venire meno la soggezione dell’offerente al diritto potestativo del contraente favorito, libera definitivamente il primo, la cui proposta non solo perde i caratteri dell’irrevocabilità, ma vien meno anche come proposta sic et simpliciter, ai sensi dell’art. 1326 cod. civ., avendo le parti, attraverso il patto di opzione, nettamente delimitato i rispettivi poteri, l’una assumendo l’obbligo di mantener ferma la propria proposta solo per il periodo indicato e l’altra quello di esercitare il suo diritto potestativo di accettazione entro e non oltre il medesimo termine.

Pertanto, la manifestazione della volontà di aderire all’offerta, se sopravviene tardivamente, equivale ad una nuova proposta proveniente dal soggetto che nel patto di opzione aveva la posizione più favorevole: una proposta che, come tale, è inidonea a vincolare in contratto l’originario offerente, salvo che questi non l’accetti.

La censura deve essere, pertanto, rigettata, il che determina l’assorbimento del ricorso incidentale dei Vaselli.

Con il secondo motivo del suo ricorso incidentale, il Comune si duole del fatto che la Corte d’Appello, in relazione ai beni mobili, abbia liquidato il danno in misura pari al valore venale degli stessi, sul presupposto, non provato, che non ne fosse più possibile la restituzione da parte del Comune: lamenta, inoltre, che la liquidazione del danno sia stata eseguita senza tener conto del fatto che, trattandosi di beni deperibili, essi erano destinati, per l’uso, ad un naturale degrado, sicché non avrebbero potuto dare frutti sempre nella misura iniziale, dall’epoca della scadenza della requisizione fino alla liquidazione del danno; sostiene, invece, che il valore dei beni, determinato con riferimento all’epoca della mancata restituzione, avrebbe dovuto essere rivalutato al tempo del presumibile esaurimento della loro utilizzabilità e sul relativo importo si sarebbero dovuti liquidare solo interessi moratori.

Anche tale censura è infondata.

Come risulta dalla sentenza impugnata, i Vaselli proposero una domanda di risarcimento dei danni conseguenti all’illegittima detenzione dei beni detenuti in uso dal Comune dopo la scadenza della requisizione. Trattandosi (come evidenzia lo stesso Comune) di beni deperibili, dal punto di vista puramente teorico, tra questi danni potevano certamente ricomprendersi quelli derivati dal perimento dei beni conseguente al loro uso. Nella specie, essendo stata, da parte dei proprietari, fornita la prova della sottrazione, il giudice del merito, dato che l’uso arbitrario dei beni risultava essersi protratto negli anni, ben poteva, quindi, condannare l’autore dell’illecito al pagamento del loro controvalore, senza pretendere dai danneggiati anche la prova specifica (e negativa) che i beni loro sottratti non erano più in “rerum” natura o non erano più utilizzabili.

Invero, è di comune esperienza che l’uso prolungato dei beni deteriorabili determina il totale esaurimento della loro funzionalità, tal che il risarcimento del danno, quando l’autore dell’illecito non abbia provato fatti utili a limitare la sua responsabilità patrimoniale (come, ad esempio, la restituzione dei beni sottratti), ben può essere liquidato in termini di valore venale dei mobili nello stato in cui erano al tempo della sottrazione, giacché nella perdita definitiva degli stessi si traduce in danno che i proprietari hanno sostanzialmente subito sin dal momento della consumazione dell’illecito. Liquidato in danaro tale danno, poi, sulla relativa somma devono essere corrisposti gli interessi compensativi, che hanno la funzione di risarcire l’ulteriore pregiudizio che agli interessati ha cagionato il mancato godimento del danaro loro dovuto sin dal momento dell’illecito, indipendentemente, ormai, da ogni riferimento alla capacità produttiva dei beni sottratti.

Col terzo motivo del ricorso incidentale, il Comune di Palermo censura la decisione di merito nella parte in cui ha determinato il danno per mancato godimento del suolo in misura corrispondente agli interessi legali sul valore dello stesso, assumendo che tale criterio, adottato ordinariamente nel caso di occupazione di terreni destinati alla trasformazione per l’esecuzione di opere di pubblica utilità, non è utilizzabile nel caso di requisizione, quando cioè la proprietà del terreno non è destinata a mutare e il bene deve essere restituito. In tale ipotesi il danno deve essere puntualmente provato dal proprietario danneggiato, ai sensi dell’art. 2056 cod. civ.; il che, secondo il ricorrente, non preclude, una sua liquidazione equitativa, ma impone una adeguata motivazione sul punto, che nella fattispecie sarebbe mancata.

La stessa critica il ricorrente muove alla parte della decisione che liquida il danno per mancato godimento degli automezzi, lamentando, in proposito, l’inadeguatezza del criterio adottato, con riguardo anche alle condizioni soggettive dei danneggiati e alla particolare natura dei beni che, avendo la specifica funzione di assolvere un servizio di nettezza urbana, non avevano un libero mercato. Nel rigettare tale motivo, questa Corte osserva che nel caso di arbitraria occupazione di un immobile (derivi questa da una requisizione dichiarata illegittima, si tratti di occupazione “sine titulo” sin dall’origine oppure preordinata all’espropriazione) il danno è in “re ipsa” e, data l’estrema difficoltà di determinarlo analiticamente, è d’uso liquidarlo equitativamente in misura corrispondente agli interessi legali sul valore di mercato del suolo per tutta la durata dell’occupazione.

E la natura equitativa di questo tipo di liquidazione è pacifica, senza che la mancata precisazione, da parte del giudice del merito, delle ragioni per cui abbia fatto ricorso a tale criterio (peraltro, nella specie, in sentenza, è stato precisato che non essendo agevole la liquidazione di tale danno, si rendeva necessario adottare, a tal fine, un criterio consolidato; sicché il riferimento a metodi equitativi appare evidente), possa inficiare la motivazione, la cui insufficienza, si badi, a norma dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., per determinare la cassazione della sentenza, deve riguardare un punto decisivo della controversia, nel senso che da tale vizio possa discendere una diversa soluzione della questione.

Altrettanto infondata è la censura relativa alla liquidazione dei danni per mancato godimento degli automezzi che, come è già stato precisato in sede di esame del secondo motivo, non poteva non essere commisurata al valore dei beni al tempo della loro sottrazione, ossia alla diminuzione patrimoniale subita dai proprietari per effetto di quest’ultima: diminuizione che di certo è indipendente sia dalle condizioni soggettive dei danneggiati (in nessun modo incidente sul valore dei mobili), che dalla natura particolare dei beni – destinati al servizio di N.U. – se non per quanto concerne il prezzo che concretamente essi avrebbero avuto sul mercato, al tempo in cui furono sottratti al proprietario.

Col quarto motivo, il Comune critica la sentenza riguardo ai valori fissati tanto per il terreno quanto per i beni mobili, perché determinati non tenendo alcun conto delle critiche mosse alla sentenza di primo grado e alla consulenza tecnica da questa recepita, tutte incentrate innanzitutto sul fatto che l’indicazione dei valori indicati non era sorretta da un’idonea documentazione.

Si tratta, questa volta, della prospettazione di una questione di mero fatto, non suscettibile di sindacato in sede di legittimità, in quanto immune da vizi logici. Il giudice del merito, infatti, ha adeguatamente illustrato le ragioni che l’hanno indotto a liquidare in quella data misura i danni derivati dall’arbitraria sottrazione dell’immobile e dei mobili suddetti.

Quanto ai primi, ha fatto riferimento alle relazioni tecniche dei consulenti di ufficio e di parte (e, in particolare, alla concordanza dei tecnici di entrambi i contendenti circa la natura edificatoria del terreno), lungamente soffermandosi anche sul metodo utilizzato per la determinazione del valore: quanto ai secondi, ha richiamato i valori che furono concordemente fissati da una commissione composta da un consulente dei Vaselli e da un rappresentante del Comune e il sistema seguito per la rivalutazione, sottolineando la sostanziale equivalenza dei risultati suddetti con quelli provenienti da una Commissione composta esclusivamente da funzionari del Comune.

La censura deve, quindi, essere rigettata.

Col quinto motivo, infine, il Comune di Palermo lamenta che la sentenza abbia rivalutato l’intera somma dovuta per fruttificazione (ossia per il mancato godimento dei beni). Sostiene che, essendo stato questo danno liquidato in termini di interessi sul valore dei beni, la sua ulteriore rivalutazione rappresenterebbe una liquidazione di interessi su interessi e avrebbe una funzione obiettivamente anatocistica; rileva, inoltre, che, in ogni caso, sulla somma rivalutata, gli interessi avrebbero dovuto calcolarsi a partire dalla scadenza di ciascuna annualità e non già dal momento dell’illecito.

Neanche l’ultimo mezzo ha fondamento.

La censura parte dal presupposto, errato, che la somma liquidata a titolo di risarcimento del danno per il mancato godimento dei beni sia costituita da interessi in senso stretto. Si è già detto, però, nel corso dell’esame del terzo motivo del ricorso incidentale, che la somma corrispondente agli interessi sul valore dei beni è soltanto la risultante di un criterio empirico ed equitativo di liquidazione del danno, utilizzato solo in considerazione della difficoltà di determinare con maggiore precisione il pregiudizio subito dal proprietario per il mancato godimento di un bene in un dato arco di tempo.

Quella somma, quindi, costituisce un capitale dovuto a titolo di risarcimento del danno, che, in quanto oggetto di un’obbligazione di valore, deve essere rivalutato con riferimento al potere di acquisto della moneta al tempo della liquidazione.

Quanto, infine, alla decorrenza degli interessi compensativi liquidati su tali somme, si deve considerare che quando, come nella specie, il risarcimento del danno viene determinato in via equitativa, neppure per la decorrenza degli interessi si pongono regole precise, stante la difficoltà di stabilire i vari momenti nei quali progressivamente si realizza il danno da lucro cessante (che gli interessi sono destinati a ristorare); sicché ben può il giudice del merito, fissare la loro decorrenza al momento consumativo del fatto illecito.

Sussistono giusti motivi per la totale compensazione, tra le parti, delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, dichiara inammissibile il ricorso incidentale del Comune di Palermo iscritto al n. 1846 del 1988 R.G., rigetta il ricorso principale (n. 562 del 1988 R.G.) e quello incidentale del Comune (n. 1156 del 1988 R.G.), dichiarando assorbito quello incidentale dei Vaselli (n. 1157 del 1988 R.G.). Dichiara interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma il 3 maggio 1991.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 7 MAGGIO 1992.