Svolgimento del processo
La controversia del ricorso trova origine alla revisione dei prezzi dell’appalto di un’opera pubblica commissionata dal Provveditorato per le opere pubbliche della Lombardia alla S.P.A. S.C.I.C. – società costruzioni industriali e civili – e collaudata nell’agosto del 1955. Sulla richiesta di revisione formulata dall’appaltatrice ai sensi del r.d. n. 1296 del 1938, richiamato in apposito patto del capitolato, il Ministro dei lavori pubblici, con provvedimento del 25 marzo 1958, n. 504, determinava il compenso revisionale in L. 86.783.612, cioé in somma sensibilmente inferiore a quella dovuta a detta disciplina, in quanto adottava i criteri di calcolo, ad essa più favorevoli, di cui ai d.l. C.P.S. 6 dicembre 1947, n. 1501, ritenendo che l’appalto fosse stato concluso nel giugno 1948 e non nel maggio 1947. Il ricorso della società – diretto a fare accertare che il contratto era stato stipulato in quest’ultima data a che pertanto era inapplicabile il d.l. n. 1501-47, successivamente emanato – veniva accolto dal Consiglio di Stato, che annullava il provvedimento, e perciò il Ministro liquidava la maggior spesa dovuta in L. 163.270.700; (ridotta a L: 156.739.870 dopo la detrazione dell’i.g.e.); inoltre lo stesso Consiglio di Stato, adito in sede di giudizio di ottemperanza, dichiarava che l’amministrazione era tenuta a corrispondere alla società gli interessi legali dal 6 agosto 1956 all’11 agosto 1974.
Premesse queste vicende, con citazione del 2 aprile 1976, la Società conveniva il Ministero innanzi al Tribunale di Milano per ottenerne la condanna al pagamento di L. 260.000.000 – quale risarcimento del danno da svalutazione monetaria, conseguenziale al colpevole e negligente comportamento dell’Amministrazione.
Questa si costituiva e, oltre a dedurre che la istante poteva vantare solo un interesse legittimo alla revisione, eccepiva che il danno da svalutazione andava specificamente dimostrato, in base a precise circostanze idonee a provarne l’esistenza e l’ammontare.
Il Tribunale di Milano rigettava la domanda, negando che la società potesse vantare una posizione di diritto soggettivo al compenso revisionale.
La Corte di appello di Milano, con la sentenza ora denunziata del 1 ottobre 1982, andava in contrario avviso, condannando il Ministero al pagamento di L. 200.000.000 – a titolo di risarcimento dei danni, nonché a corrispondere gli interessi su tale somma a far tempo dal 6 agosto 1956.
La Corte, pur convenendo con il Tribunale sul punto che, nonostante la clausola pattizia di revisione dei prezzi, la società non poteva vantare un diritto soggettivo al riguardo, osservava che, una volta accertato il fondamento della richiesta di revisione, l’Amministrazione avrebbe dovuto provvedervi in conformità alla clausola suddetta, che eliminava dubbio in ordine alla disciplina applicabile, laddove essa, per sottrarsi all’impegno contrattuale, aveva arbitrariamente determinato un termine di decorrenza del rapporto diverso da quello effettivo; e in questo comportamento, chiaramente contrario ai doveri di correttezza e buona fede, nonché ai principi di legalità che debbono sempre ispirare la condotta della pubblica amministrazione, si configurava una grave inadempienza contrattuale, della quale l’Amministrazione doveva rispondere, quindi, senza potersi avvalere della clausola di cui all’art. 40 del capitolato generale per gli appalti delle opere pubbliche, che limitava ai soli interessi la responsabilità della p.a. in materia di ritardo nei pagamenti dovuti all’appaltatore.
Individuato così il titolo della responsabilità nella colpa contrattuale l’obbligo di risarcire il danno ai sensi dell’art. 1218 c.c., la Corte osservava che il pregiudizio subito di circa 18 anni nel pagamento della differenza dell’importo revisionale di L. 156.739.870 (al netto dell’i.g.e.;) ed andava determinato con riguardo alla svalutazione monetaria verificatasi con riguardo alla svalutazione monetaria verificatasi nel lungo periodo; pertanto, prendendo a parametri di commisurazione gli indici del costo della vita, il danno poteva essere equamente liquidato nella somma già detta, cioé in L. 200.000.000, sulla somma erano dovuti gli interessi compensativi dal 6 agosto 1956 al saldo.
Avverso la sentenza l’Amministrazione ha proposto ricorso in base a due motivi.
Resiste la Società Scic con controricorso e memoria.
Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo di ricorso, denunziandolo la violazione degli artt. 1218, 1223 e 2043 cod. civ., L’amministrazione critica la sentenza impugnata perché, dopo avere esattamente escluso che l’appaltatore di opera pubblica abbia un diritto soggettivo alla revisione del prezzo dell’appalto, ha tuttavia ritenuto in colpa l’amministrazione appaltante per essere incorsa in errore circa i criteri di calcolo della revisione medesima, perciò affermandone la responsabilità per il ritardo nel pagamento del compenso revisionale, laddove, proprio in considerazione della consistenza di interesse legittimo della posizione dell’appaltatore non si configurava un obbligo giuridico dell’appaltatore, non si configurava un obbligo giuridico dell’appaltante, idoneo a dar luogo ad un illecito, né quanto al riconoscimento della revisione né, a fortiori, quanto alle modalità di liquidazione della stessa.
Il motivo non merita accoglimento, sebbene la motivazione della sentenza non sia conforme a diritto e debba essere perciò corretta, ai sensi dell’art. 384. secondo comma, cod. proc. civ.- La Corte di appello, muovendo dalla premessa sistematica – conforme all’indirizzo giurisprudenziale in passato prevalente – secondo cui l’appaltatore di opera pubblica può vantare sempre e soltanto un interesse legittimo alla revisione, rimessa all’unilaterale valutazione della p.a. sia per l’an che per il quantum, non poteva poi ravvisare un illecito, sotto il profilo della violazione delle regole di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, nel riconoscimento di un compenso revisionale inferiore a quello domandato, posto che certamente non è configurabile un inadempimento contrattuale in relazione ad un atto di esercizio di un potere autoritativo discrezionale, quale deve considerarsi – nell’ottica di detto indirizzo – anche quello che determina l’ammontare della revisione; né il giudice ordinario potrebbe sindacare, manifestamente, la legittimità di un tale provvedimento, sicché la sentenza in esame, all’interno dell’opinione accolta, non potrebbe essere condivisa neppure nella parte in cui ha apprezzato la condotta dell’amministrazione alla stregua degli ordinamenti parametri dell’inadempimento delle obbligazioni.
Sennonché queste Sezioni Unite, con le più recenti pronunzie al riguardo, hanno precisato che la posizione dell’appaltatore ha natura e consistenza di interesse legittimo soltanto rispetto al provvedimento concessivo della revisione, nella fase, cioé, in cui l’amministrazione è chiamata a stabilire se possa o non possa essere accordata, giacché solo in relazione a questa determinazione si richiedono valutazioni discrezionali correlate a preminenti interessi di ordine pubblicistico, mentre, dopo che la scelta sia stata effettuata in senso positivo, il potere autoritativo deve ritenersi esaurito, e la posizione dell’appaltatore acquista, dunque, consistenza di diritto soggettivo, perché la concreta determinazione del quantum della revisione coinvolge solo l’applicazione di criteri e parametri liquidatori, la cui individuazione non lascia spazio a valutazioni discrezionali di interessi pubblici. Pertanto, quando l’Amministrazione abbia stabilito di accertare la richiesta di revisione – la quale decisione, per altro, non deve essere necessariamente manifestata con un atto formale diretto questo scopo, potendo risultare anche in maniera implicita, attraverso atti che postulano l’esercizio del potere in ordine all’an della revisione – si costituisce un rapporto obbligatorio di diritto comune, in forza del quale l’amministrazione medesima è tenuta a corrispondere il compenso revisionale nell’ammontare risultante dai parametri normativi e tecnici in concreto applicabili per la monetizzazione delle differenze di prezzo; e, conseguenzialmente, in caso di ritardo nel pagamento degli importi revisionali, l’appaltatore non solo ha diritto agli interessi, nella misura prevista dalle leggi in materia, ma, ove l’amministrazione versi in colpa, anche al risarcimento del maggior danno, ex art. 1224 secondo comma cod. civ. (v. sent. 1363, 1365 e 1366 del 1983).
Nella vicenda in esame, è pacifico che il Ministro dei lavori pubblici, con provvedimento del 25 marzo 1958, deliberò di accordare il compenso revisionale e tuttavia lo liquidò in somma sensibilmente inferiore a quella dovuta perché; assumendo essersi perfezionato l’appalto in data diversa da quella della stipulazione, ritenne di applicare i criteri previsti dal d.l. lgt. n. 1501 del 1947, in luogo di quelli – più favorevoli all’appaltatore – dettati dalla legge n. 1296 del 1938, espressamente richiamate in contratto.
Alla stregua del principio ora ricordato, la società appaltatrice conseguì il diritto ad ottenere la liquidazione del compenso revisionale, secondo i criteri dalla normativa applicabile al rapporto, in virtù di detto provvedimento di riconoscimento della revisione; e da tale data – e non da quella successiva pronunzia del Consiglio di Stato – l’Amministrazione appaltante era obbligata a corrispondere la somma dovuta ai sensi della legge n. 1296 del 1938.
Da un lato, quindi, non ha ragion d’essere il dubbio, adombrato dalla ricorrente, in ordine alla giurisdizione del giudice ordinario, avendo la Soc. SCIC proposto domanda di risarcimento del danno da svalutazione in relazione al diritto di credito suddetto; dall’altro, nonostante l’errore in cui è incorsa nell’individuazione della fonte del rapporto obbligatorio, deve essere condivisa la sentenza impugnata nella parte in cui ha valutato in termini di mora colpevole, secondo la disciplina civilistica, il ritardo nel pagamento della differenza del compenso revisionale, originariamente corrisposto in somma inferiore per fatto imputabile all’Amministrazione, che deliberatamente aveva disapplicato la normativa in base alla quale, anche in forza del capitolato d’appalto, il compenso medesimo doveva essere liquidato.
E poiché in questo comportamento la corte di appello – con motivazione congrua e, comunque, non specificamente censurata – ha ravvisato la colpa dell’Amministrazione, risulta corretta la statuizione con la quale la stessa è stata ritenuta responsabile del danno (un ipotesi) subito dalla società per avere conseguito in ritardo la residua somma dovutale.
Pertanto, corretta la motivazione nei sensi suesposti, la sentenza impugnata deve essere in parte qua tenuta ferma.
3. – Con il secondo motivo di ricorso, denunziando la violazione dell’art. 3 del d.l. C.P.S. n. 1501 del 1947 e dell’art. 1224, secondo comma, cod. civ., nonché vizi della motivazione, l’Amministrazione muove alla sentenza impugnata tre distinte censure:
a) ammesso che la società appaltatrice avesse acquisito il diritto al compenso revisionale con il provvedimento del 25 marzo 1958, con cui la revisione era stata accordata una responsabilità della appaltante per il ritardo nel pagamento poteva configurarsi solo da quell’epoca e non già dal 5 agosto 1956, data di scadenza dell’anno dell’approvazione del collaudo (da cui decorrono, ex art. 3 cit., gli interessi legali); b) trattandosi di debito di valuta e non di valore, la Corte di appello non poteva rivalutare automaticamente, secondo gli indici Istat, la somma dovuta quale differenza del compenso revisionale, giacché nelle obbligazioni pecuniarie incombe al creditore la prova di aver subito, in concreto, un danno superiore a quello coperto dagli interessi legali, dimostrando che il tempestivo pagamento gli avrebbe consentito di evitare gli effetti dell’inflazione, laddove la Soc. SCIC non aveva provato, e neppure allegato, elementi idonei a dimostrare un siffatto danno; c) anche a voler riconoscere – in contrasto con l’indirizzo giurisprudenziale di gran lunga prevalente – l’automatismo della rivalutazione, sulle somme liquidate a questo titolo non potevano essere attribuiti gli interessi compensativi, in quanto il danno riferibile al deprezzamento della moneta durante la mora comprende, per sua natura, quello forfettariamente risarcito con gli interessi.
Le prime due censure sono fondate.
4. – Quella sub a) riposa sul principio, innanzi ricordato, secondo cui solo con il riconoscimento espresso o tacito della revisione il rapporto fra l’amministrazione e l’appaltatore trasmigra dall’area del diritto pubblico (contraddistinta dal potere discrezionale della prima) a quella del diritto privato, assumendo le connotazioni di un ordinario rapporto obbligatorio, nel quale la posizione reciproca delle parti si configura in termini di diritto e di obbligo. Da quel momento sorge l’obbligazione della committente di pagare il compenso revisionale e il ritardo nella liquidazione può essere apprezzato come mora colpevole; con la conseguenza che, nella specie, la responsabilità del Ministero per il danno dedotto poteva essere affermata a decorrere dal provvedimento di accettazione della revisione (25 marzo 1958), con riguardo, cioé, al deprezzamento monetario verificatosi successivamente a tale data, e non dall’agosto 1956, come ritenuto dalla Corte di appello (che ha erroneamente ipotizzato, come si è detto, un diritto alla revisione scaturente direttamente dal contratto di appalto).
5. – La censura sub b) assume rilievo centrale nella trattazione, in relazione all’oggetto della controversia e perché il presente ricorso e altri discussi nella stessa udienza, che del pari ripropongono, sotto vari aspetti, il problema del risarcimento del danno da svalutazione monetaria nelle obbligazioni pecuniarie, sono stati portati all’esame delle sezioni unite (anche) allo scopo di verificare nuovamente la validità dell’indirizzo espresso al riguardo con le note sentenze di queste stesse sezioni unite n. 3776 e 5572 del 1979, occorrendo comporre il contrasto che si è determinato nella successiva giurisprudenza della Corte tanto in ordine ai presupposti in base ai quali il danno è stato ritenuto risarcibile da tali pronunzie, quanto in ordine all’applicazione dei principi con esse enunciati ai fini della prova dell’esistenza e dell’ammontare del danno.
A voler riassumere schematicamente i termini del dissenso riguardante il primo profilo, va detto che, mentre la maggior parte delle decisioni è in linea con l’indirizzo suddetto – per cui deve escludersi, perché confliggente con il principio nominalistico, ogni generalizzato automatismo risarcitorio in dipendenza del semplice fatto della svalutazione, che può assumere rilievo, invece, solo come fonte di danno ulteriore non coperto dagli interessi, ai sensi del secondo comma dell’art. 1224 cod. civ. da tale orientamento si sono motivatamente discostate tre sentenze, cioé la n. 123 del 1983 della terza sezione, la n. 651 del 1984 della stessa sezione e la n. 3356 del 1985 della prima sezione.
La sent. 123-83 – la più lontana, nelle premesse come nelle conseguenze, dall’indirizzo delle Sezioni Unite sostanzialmente ripropone la opinione secondo cui l’obbligazione pecuniaria, in seguito alla mora del debitore, si trasforma da debito di valuta in debito di valore. In particolare, secondo questa pronunzia, gli interessi di cui al primo comma dell’art. 1224, che la disposizione qualifica moratori, in realtà non hanno funzione risarcitoria, trovando causa nella normale redditività del denaro, mentre il risarcimento del danno derivante dalla mancata prestazione della valuta è regolato dal secondo comma della disposizione e non soggiace al principio nominalistico perché va commisurato, come per l’inadempimento di ogni altro debito, al depauperamento economico sofferto dal creditore in relazione al valore che aveva per lui lo adempimento tempestivo. E poiché il pagamento in moneta svaluta equivale alla prestazione di cosa diminuita di valore perché deprezzata, la svalutazione monetaria – che ontologicamente è un danno collettivo, generalizzato ad ogni uso del denaro – per effetto dell’inadempimento di trasforma in un danno individuale che deve essere risarcito in ogni caso, quanto meno in misura pari all’entità del deprezzamento monetario risultante dagli indici ufficiali.
La sent. 651-84, poi, nel richiamare gli argomenti della pronuncia ora ricordata, afferma che il danno da svalutazione deve “riconoscersi in ipsa, posto che qualunque impiego del denaro, anche il semplice deposito bancario e la spendita in beni di consumo, produce ricchezza riconducibile al valore della moneta”, con la conseguenza che spetta al debitore l’onere di provare il contrario “nei casi eccezionali in cui tale previsione non debba operare”.
Infine, la sent. 3356-85, che nella premessa presta formale adesione all’indirizzo delle sezioni unite, perviene alle stese conclusioni delle due sentenze suddette, cioé all’automatismo del danno da svalutazione, attraverso un discorso condotto principalmente sul piano dell’onere probatorio del maggior danno: si afferma che a questo scopo è sufficiente che il creditore deduca la svalutazione monetaria e ne chieda la liquidazione nella misura determinata sulla base degli indici ufficiali, salva la prova contraria da parte del debitore, tenuto a dimostrare che in concreto la svalutazione non ha prodotto danno o ha inciso in misura inferiore a quella costituita dal tasso di inflazione.
6. – Queste pronunzie non possono essere condivise, venendo addotti argomenti che, nell’annosa e tormentata vicenda della rilevanza del c.d. danno da svalutazione, altre volte sono stati confutati dalle sezioni unite.
Alla premessa teorica che domina (sulle orme di lontano precedente: n. 310 del 1965) la sentenza n. 123 del 1983, è agevole obiettare che qualsiasi tentativo di assimilare l’obbligazione pecuniaria ad un debito di cose – per desumere che la svalutazione opera allo stesso modo di un parziale perimento dell’oggetto della prestazione – è destinato a sicuro insuccesso, posto che il debito pecuniario si differenzia da ogni altro proprio perché ha per oggetto una somma di denaro e il principio nominalistico vige per i pagamenti puntuali e per quelli tardivi, rendendo indifferente la prestazione pecuniaria alle vicende monetarie intercorrenti dalla sua genesi alla sua estinzione; ciò che direttamente risulta, del resto, dall’art. 1277, il quale, nell’attribuire alla moneta avente corso legale efficacia liberatoria secondo il suo valore nominale, fa riferimento al tempo del pagamento, non a quello della scadenza del debito.
Neppure ha pregio l’argomento che, sempre intento di discriminare, sul piano della prestazione, l’adempimento puntuale da quello tardivo, fa perno sulla natura degli interessi di cui al primo comma dell’art. 1224: la funzione (anche) risarcitoria degli stessi, come indennizzo forfettario del danno da ritardo (coincidente anzitutto con gli interessi corrispettivi che il creditore avrebbe in ogni caso conseguito se avesse avuto la disponibilità della somma), è attestata dallo stesso enunciato normativo, in quanto il secondo comma della disposizione usa le espressioni “maggior danno” e “ulteriore risarcimento” per designare quanto spetta al creditore oltre agli interessi (ed è ugualmente un’obbligazione di interessi finalizzata al risarcimento quella costituita dalle parti che abbiano espressamente convenuto la misura degli interesse).
Né ha bisogno di essere dimostrato l’errore consistente nel ritenere che il risarcimento del maggior danno implichi una concezione valoristica della prestazione pecuniaria inadempiuta, essendo evidente l’equivoco in cui incorre la sentenza laddove identifica il valore della moneta, che è sempre quello nominale, con il “valore” che il pagamento puntuale aveva per il creditore, cioé con le utilità che questi si riprometteva di trarre dalla prestazione, il quale pregiudizio forma oggetto, invece, della distinta obbligazione risarcitoria prevista dalla disposizione.
Infine, ravvisando nella svalutazione “un danno collettivo” che diventa automaticamente “danno individuale” in conseguenza dell’inadempimento, si ricade nello stesso errore della sentenza n. 5670 del 1978, di considerare, cioé, la svalutazione un danno in senso giuridico, risarcibile secondo gli indici Istat come danno emergente identico per tutti i creditori.
Gli stesso rilievi valgono per la sent. n. 651 del 1984, che può dirsi motivata per relationem alla precedente; e valgono, in definitiva, anche per la sentenza n. 3356 del 1985, che, pur ingegnandosi di coincidere l’indirizzo delle sezioni unite con quello delle due sentenze suddette, finisce con lo aderire a quest’ultimo non solo nel risultato (espressamente condiviso), ma anche nelle premesse concettuali, giacché ammettere che la rivalutazione della somma secondo gli indici Istat spetta per il solo fatto che il creditore alleghi la svalutazione, “perché non esiste alcun valido motivo per affermare un’incidenza della medesima sul patrimonio del creditore in misura diversa da quella ufficialmente accertata”, significa riconoscere altresì che in questi limiti il danno da svalutazione è in re ipsa ed opera allo stesso modo per tutti i creditori, avendo scarso rilievo sistematico e pratico la facoltà, data al debitore, di dimostrare la concreta ininfluenza del fenomeno inflattivo.
7. – Si deve ancora una volta prendere atto quindi, che la scadenza non può produrre alcuna diretta conseguenza sull’obbligazione pecuniaria in quanto tale, rimanendo essa pur sempre assoggettata, fino al momento del pagamento, al principio nominalistico e potendosi solo ipotizzare un’obbligazione aggiuntiva che sorge dall’inadempimento e che ha per oggetto il risarcimento del danno previsto dall’art. 1224; e deve pertanto essere confermata l’impostazione sistematica dell’orientamento delle sentenze del 1979, che – nel solco della più antica e consolidata tradizione giurisprudenziale – attribuisce indiretta rilevanza al deprezzamento della moneta quel fonte di danno ulteriore non coperto dagli interessi e risarcibile ai sensi del secondo comma della disposizione suddetta.
In particolare, va ribadito che: a) il danno da svalutazione non si identifica con il fenomeno inflattivo, cioé con l’inflazione in sé, ma si configura in relazione alle conseguenze pregiudizievoli che dalla stessa sono derivate al singolo creditore che non si sarebbero prodotte se non ci fosse stato il ritardo nell’adempimento, sicché il danno medesimo consiste subita dal creditore per non aver potuto disporre della somma nel tempo in cui avrebbe dovuto essere pagata; b) la svalutazione che assume rilievo è quella che si verifica durante la mora, nella quale va individuata la causa per cui il creditore si è trovato nell’impossibilità di evitare gli effetti della svalutazione; c) conseguentemente – esclusa la diretta incidenza del deprezzamento monetario sulla prestazione pecuniaria – il danno deve essere accertato in concreto, incombendo al creditore di dimostrare che il pagamento tempestivo lo avrebbe messo in grado di limitare o di evitare gli effetti economici depauperatori che l’inflazione produce per tutti i possessori di denaro.
8. – Il problema centrale e più delicato di questo orientamento riguarda, com’é ben noto, appunto il profilo del “danno ulteriore”, occorrendo trovare una formula di svalutazione che, da un lato, consenta di tutelare il più possibile la corretta realizzazione economica del rapporto obbligatorio, impedendo arricchimenti ingiustificati del debitore senza tuttavia ledere il principio nominalistico; e, dall’altro, fornisca ed agili, in armonia con l’esigenza della quantificazione forfettaria, che – come risulta, del resto, dallo stesso art. 1224 (primo e secondo comma) – è la più appropriata per le obbligazioni pecuniarie, stereotipe e di massa.
Sono coerenti con quest’ultima finalità, ma contrastano con le premesse sistematiche accolte, le soluzioni basate sul mero riferimento agli indici Istat o ad altri parametri oggettivi più o meno arbitrariamente ritenuti validi per la generalità e perciò assunti a prova presuntiva dell’an e del quantum del danno indiscriminatamente per tutti i creditori; come in precedenza si è accennato (ed è stato ampiamente dimostrato dalle sentenze del 1979), presumere un danno, sia pure con presunzione iuris tantum, generalizzato e commisurato ad indici di carattere oggettivo relativi all’entità del fenomeno monetario, in sé considerato equivale a collegare direttamente la quantificazione della prestazione pecuniaria al potere di acquisto della moneta e a riconoscere, dunque, l’automatica rivalutazione della somma dovuta, in deroga al principio nominalistico.
Per analoghe considerazioni sono da respingere anche le proposte – recentemente riprese con particolare vigore in dottrina (e spesso recepite dalla giurisprudenza di merito) – dirette a commisurare in ogni caso il danno da svalutazione allo scarto esistente fra il tasso legale e il tasso di mercato del costo del denaro o, come pure è stato sostenuto, tra interessi legali e tasso di sconto praticato dalla banca centrale (secondo il sistema adottato in talune legislazioni straniere).
Queste soluzioni, incentrate sull’adeguamento dell’interesse monetario, in verità salvano il principio nominalistico, giacché non comportano una rivalutazione automatica della somma dovuta; e non sembrano offendere neppure il disposto del secondo comma dell’art. 1224, in quanto il “danno ulteriore” ben può consistere nella differenza dell’interesse ed essere risarcito allo stesso modo (come espressamente consente la norma).
ma è innegabile che in tal modo – riconoscendo sempre e in ogni caso la differenza dell’interesse – si viene ad elevare, in pratica, il tasso legale degli interessi moratori, disconoscendone anche il carattere fisso, per modo che non si fa una operazione esegetica, ma normativa; e, di conseguenza, emerge anche la contraddizione con la disposizione suddetta, per cui l’unica via praticabile è quella dell’accertamento e della quantificazione soggettiva del maggior danno.
Il merito delle sentenze del 1979 sta appunto nell’aver individuato una tecnica di accertamento del maggior danno che – semplificando l’onere della prova attraverso presunzioni e dati notori acquisiti dalla comune esperienza e desumibili dalle condizioni e qualità del creditore – consente di pervenire ad una valutazione il più possibile soggettiva del danno medesimo, senza tuttavia rinunciare al ricorso a criteri generali tali da permettere, ove possibile, la quantificazione forfettaria e da favorire la semplicità e speditezza della liquidazione.
In questo modo èessenziale il riferimento a categorie economiche socialmente significative di creditori, enunciate in relazione a qualità professionali e a condizioni personali che li accomunano quanto alle conseguenze del fenomeno, perché notoriamente implicano sistematicamente e rispettive modalità di impiego prevalente del denaro, uguali l’intera categoria.
L’inquadramento in una di esse permette di valorizzare elementi di presunzione che possono essere utilizzati, secondo criteri di normalità e di possibilità, tanto al fine di riscontrare l’esistenza di un pregiudizio imputabile alla mora, sul presupposto di un impiego del denaro conforme a quello normale per la categoria, quanto – e soprattutto – per la liquidazione del danno in base a parametri oggettivi afferenti a quell’impiego. Con la conseguenza che la quantificazione è’ coerente all’entità e alle modalità con cui incide sulle varie categorie, sotto questo particolare aspetto, il fenomeno inflattivo, che, com’é noto, determina conseguenze diverse per ciascuna di esse; il quale rilievo di per sé rende avvertiti come il riferimento agli indici Istat non sempre costituisca un parametro appropriato di commisurazione del danno ulteriore.
9. – Questo aspetto centrale del giudizio personalizzato – per cui ad ogni figura socio-economica si attagliano presuntivi diversi, correlati alle diverse forme di normale impiego del denaro e conseguentemente alle differenti utilità che esso ha per il creditore – viene sottolineata dalla articolata esemplificazione di categorie creditorie fatta nelle sentenze del 1979, che costituisce altresì un’utile traccia per individuare le presunzioni che possono essere ordinatamente fatte valere, nell’accertamento del danno e nella sua quantificazione forfettaria, dal creditore che lo alleghi in relazione al programmato impiego del denaro coerente con il dimostrato inquadramento in una di dette figure; le quali presunzioni possono trarsi talvolta da dati soggettivi inerenti al concreto svolgimento dell’attività, tal’altra da elementi e parametri oggettivi propri della categoria o del tipi di investimento.
Così, in relazione al creditore esercente un’attività imprenditoriale possono essere fatte valere presunzioni, il più delle volte giustificate anche dalle ragioni del credito, connesse con il normale impiego del denaro nel ciclo produttivo (quale autofinanziamento o copertura endogena di capitale), per cui l’esistenza e l’ammontare approssimativamente del danno possono essere desunti o facendo riferimento – come suggeriscono le sentenza del 1979 – al risultato medio dell’attività in un certo periodo, dal quale è possibile inferire la redditività (marginale) media dell’investimento e, dunque, il mancato guadagno, oppure – occorre qui aggiungere – con riferimento al costo del denaro, precisamente allo scarto fra interesse legale e tasso di mercato dell’interesse praticato dalle banche alla migliore clientela per il credito a breve (prime rate), sulla piazza del creditore e nel periodo delle mora.
Questo criterio attinente al danno emergente riveste, anzi, carattere primario perché, oltre ad essere inerente, come l’altro, alla destinazione del denaro all’attività produttiva – in relazione alla quale è ragionevole ritenere il ricorso del creditore al mercato bancario per ottenere il contante di cui è stato temporaneamente privato, per ripristinare, cioé, la complessiva copertura di capitale prevista al momento in cui il debito avrebbe dovuto essere pagato (tenuto conto della nota propensione delle imprese al finanziamento bancario, non essendo esse, di solito, dotate di autosufficienza finanziaria) – è altresì ancorato ad un parametro certo di facile rilevazione e, soprattutto, è l’unico possibile per un’azienda che non produca utile, ma sia in pareggio o in eredità, non essendosi allora un guadagno cui commisurare redditività della somma mancata.
Pertanto l’altro criterio risulta applicabile solo quando l’imprenditore espressamente deduca il mancato guadagno.
Un danno da mancato investimento è lecito presumere, poi, per il risparmiatore abituale, cioé per colui che sistematicamente investe in impieghi di risparmio il residuo personale non assorbito dai consumi, nel qual caso – incombendo al creditore lo onere di allegare e dimostrare anche la qualità degli investimenti abitualmente operati, la prova presuntiva riguarda l’uguale destinazione che il credito – ne avrebbe dato alla somma non pagata e l’ammontare del mancato reddito (interessi di titoli di Stato, rendimento di azioni, etc.). E per il c.d. creditore occasionale – espressione che designa il beneficiario una tantum di un credito di un certo rilievo (può essere un’indennità di assicurazione, una liquidazione di fine rapporto, etc.), il quale non possa vantare una forma abituale di investimento del denaro perché normalmente lo destina al consumo- si può presumere l’impiego alternativo più probabile, cioé il deposito presso istituti di credito, e commisurare il danno alla remunerazione media dei depositi nel periodo, sempre che, appunto, l’entità della somma dovuta e la situazione del creditore siano tali da non rendere probabile, invece, l’erogazione immediata per il consumo.
Con le sentenze del 1979 si è dato rilievo, infine, alla figura del “modesto consumatore”, cioé – appunto – di colui che abitualmente spende il denaro per bisogni personali e familiari, con ciò riconoscendosi – in antitesi ad una tradizione giurisprudenziale contraria – che anche la spesa per beni consumabili costituisce un’utilizzazione del denaro sottratta agli effetti della svalutazione. E il principio va ribadito, non essendo possibile sostenere che un danno sia configurabile per il mancato acquisto di un bene di investimento e non si possa configurare, invece, in relazione all’impossibilità di acquistare beni di consumo (immediato o durevole); anche in questo caso il creditore, se avesse tempestivamente speso la somma dovutagli, avrebbe realizzato la moneta nel suo valore attuale e conseguito con il godimento dei beni e dei servizi procuratisi quel vantaggio economico che gli è precluso, invece, a seguito del deprezzamento monetario avvenuto durante la mora.
10. – riguardano proprio la figura del modesto consumatore talune delle critiche di maggior peso rivolte in dottrina all’indirizzo delle sezioni unite.
E’ stato osservato che essa occupa un rilievo centrale ed assorbente nel sistema elaborato, in quando tutti i creditori, anche quelli inquadrabili in una delle altre categorie (imprenditori, risparmiatori, etc.), si trovano in realtà nella condizione di essere (anche) consumatori di beni o fruitori, con la conseguenza che nella figura suddetta confluiscono, in definitiva, pure le altre categorie. Anche attribuendo ad esso rilievo soltanto probatorio, non si può negare che quando non sia dedotto o provato un danno commisurabile al normale reddito di un’attività professionale o di peculiare modalità’ di impiego del denaro, il creditore ha sempre diritto al risarcimento nelle veste di consumatore, dovendosi presumere quanto meno la destinazione al consumo; la quale presunzione – è stato osservato – è insita nella logica dell’orientamento in questione, giacché, una volta riconosciuta l’anormalità della conservazione del denaro presso il detentore, la mancata prova della sua destinazione ad investimenti produttivi o al risparmio impone di presumere l’impiego nell’acquisto di beni di consumo (sia pure con presunzione apparentemente iuris tantum).
Si è pertanto affermato che il riferimento agli indici ufficiali dei prezzi al consumo risulta, così, il criterio veramente generale per la determinazione forfettaria del danno, applicabile in ogni caso, rispetto al quale diventano marginali i restanti criteri, relativi alle altre specifiche categorie creditizie, in quanto nulla impedisce al creditore di invocare gli indici Istat allorché il danno presumibile in relazione alla sua qualità professionale sia minore (come frequentemente accade). Da ciò conclusivamente desumendosi che la difesa del principio nominalistico è soltanto apparente, perché le sezioni unite, consapevolmente o inconsapevolmente, sono pervenute – ancorché con una diversa impostazione sistematica – allo stesso risultato della sentenza del 1978 della terza sezione, a riconoscere, cioé, l’automatismo del risarcimento del danno da inflazione secondo gli indici Istat, tale essendo la conseguenza pratica di una presunzione collegata al mero consumo, perciò così ampia e generale da essere utilizzabile come prova del danno in tutte le fattispecie creditorie.
11. – La critica non è fondata, essendo il frutto di una non corretta “lettura” delle sentenze del 1979.
L’equivoco che l’inficia sta nel ritenere riferibile a qualsiasi creditore, per il solo fatto di essere acquirente di beni o utente di servizi usuali, la figura di “modesto consumatore”, laddove questa designa, ai fini dell’esistenza di un danno quantificabile in base agli indici Istat, il creditore che non si inquadra in alcuna delle restanti categorie (operatore economico, risparmiatore, etc.), e che, per le modeste condizioni economiche, normalmente consuma tutto il suo reddito per gli ordinari bisogni di vita personali e della famiglia, sicché è legittimo presumere che uguale destinazione avrebbe dato alla somma non pagatagli alla scadenza.
Come la qualità di imprenditore commerciale costituisce elemento presuntivo idoneo a ritenere che verosimilmente la somma, se pagata nel termine, sarebbe stata immediatamente reinvestita nella attività produttiva, evitando, quindi gli effetti dannosi della svalutazione, così la condizione di mero consumatore, e, dunque, di soggetto che né risparmia né fa investimenti di alcune genere, consente di presumere l’esistenza di un danno inerente all’impiego del denaro per il consumo e perciò verosimilmente corrispondente al maggior costo (in espressione monetaria) dei beni di consumo il cui acquisto al tempo della scadenza dell’obbligazione ugualmente avrebbe sottratto la somma agli effetti dell’inflazione.
La presunzione inerente alla figura del modesto consumatore non è correlata, quindi, al fatto soggettivo che il denaro non investito in attività produttive o in operazioni di risparmio viene normalmente destinato al consumo (nel qual caso effettivamente la categoria avrebbe portata generale), bensì ha una valenza sociale sufficientemente precisa, in quanto indica la condizione di colui che,, a motivo della sua qualità professionale (operaio, contadino, impiegato, etc.) e-o della modestia delle sue risorse economiche, secondo l’id quod plerumque accidit è abitualmente soltanto acquirente di beni di consumo; e per questa categoria di crediti è del tutto appropriato, nella determinazione forfettaria del danno, il riferimento agli indici Istat, riguardanti appunto le variazioni dei prezzi in relazione al consumo delle famiglie di operai ed impiegati (le sentenze del 1979 indicano questo criterio come il più attendibile per detta categoria di creditori).
Risulta evidente, allora, che il creditore – imprenditore non può mai essere considerato “modesto consumatore” agli effetti della prova presuntiva del danno da svalutazione: quella qualità professionale consente di presumere e quantificare il danno in relazione al reinvestimento della somma nell’impresa, che è l’impiego normale coerente con l’attività esercitata, ma per ciò stesso esclude che possa trovare ingresso una presunzione di danno fondata sulla costante destinazione al consumo, come impiego normalmente esclusivo del denaro. Anzi, è addirittura irrazionale supporre che l’indisponibilità della somma abbia inciso sul consumo per i bisogni essenziali, che vengono prioritariamente soddisfatti, e non sull’attività commerciale, cui di solito il credito si riferisce; e se l’imprenditore lamenta un danno inerente al mancato acquisto di beni c.d. di consumo o, comunque, un danno diverso da quello relativo all’attività produttiva, deve specificamente dimostrarlo.
Il principio vige, ovviamente, anche per le altre figure creditorie, che sono rilevanti, come si è visto, proprio perché denotano univocamente un determinato impiego del denaro: ad es., colui che deduca (e dimostri) di investire abitualmente il denaro nell’acquisto di titoli o di depositarlo in banca, si può giovare delle presunzioni che si desumono dall’abitualità di tale investimento e non di altre relative ad un impiego diverso, la cui allegazione di per sé verrebbe a rendere incerta la normalità del primo; pertanto quel creditore non potrà invocare contemporaneamente la destinazione al consumo per ottenere in via presuntiva il risarcimento secondo gli indici Istat.
In conclusione, la figura del “modesto consumatore”, lungi dal costituire una categoria di carattere generale, comprensiva delle altre, è con queste incompatibile, in quanto solo in relazione ad essa è possibile presumere, sia pure iuris tantum, la destinazione del denaro al consumo.
11. – Risulta in tal modo confermato il significato del riferimento alle categorie creditorie, come mezzo di facilitazione della prova e di liquidazione forfettaria del danno di cui fruisce il creditore che, avendo la qualità o trovandosi nella condizione che caratterizza la categoria, possa vantare un impiego normale e prevalente del denaro in forme socialmente generalizzate e giovarsi perciò di presunzioni coerenti con tali modalità’ (e solo di queste).
Non ha pregio, di conseguenza, la critica – che pure affiora in dottrine – secondo cui in tal modo si disconosce che nella realtà il tipo medio di creditore usa del denaro contemporaneamente in modi diversi, perché pratica il risparmio, depositato in banca, compra beni di investimento, etc. – Sembra agevole rispondere, anzitutto, che proprio la molteplicità degli impieghi del denaro impedisce di desumere la destinazione al consumo dal solo fatto che non è accadimento normale la conservazione del denaro presso il detentore: ciò consente di presumere la spendita della somma, non già la sua destinazione al consumo, al quale scopo occorre allegare e dimostrare l’abitualità di tale impiego.
Inoltre, la classificazione in categorie ha finalità probatorie ed implica, ovviamente, non già carattere esclusivo dell’impiego, ma non la normalità (rispetto alla categoria) e la prevalenza o la notoria priorità (rispetto al singolo creditore) dall’impiego medesimo, che solo a queste condizioni può costituire il fondamento di presunzioni inerenti al danno; con l’ulteriore corollario che verrebbe meno lo stesso presupposto della prova presuntiva, e dunque il danno andrebbe dimostrato e quantificato nei modi consueti, s non fosse possibile (in ipotesi astratta) oppure non fosse dedotto o dimostrato (come non di rado concretamente capita) l’inquadramento in una delle categorie suddette o in altre enunciabili in relazione a più particolari modalità’ d’impiego del denaro.
Neppure hanno consistenza le critiche con le quali si sostiene che il sistema delle presunzioni diversificate sia causa di un trattamento ingiustificato diversi anche per i debitori, i quali, nonostante l’identità del fenomeno inflattivo, vedono apprezzata diversamente la loro responsabilità; e dia luogo altresì ad incertezze nella aestimatio perché consente eccessivo spazio a valutazione equitative del giudice (autorizzando perciò una sorta di “diritto pretorio”).
Quanto al primo argomento, va detto che la diversità costituisce inevitabile e razionale corollario dell’inquadramento normativo della svalutazione sub specie di danno ulteriore, essendo evidente che il risarcimento del danno, in quanto mira al ristoro del concreto pregiudizio subito dal singolo creditore, espone il debitore a conseguenze diverse a seconda della persona del danneggiato. Tale effetto, anzi, è attenuto dall’uso di criteri uniformi validi per un’intera categoria o classe di creditori; e, del resto gli intervenuti legislatori settoriali succedutisi in materia sono appunto nel senso di differenziare le conseguenze dell’inadempimento per categorie e tipi di credito, in quanto sono stati dettati parametri diversi per il risarcimento forfettario del danno: talvolta elevando il tasso degli interessi (si veda, al riguardo, l’elenco contenuto nella sentenza n. 3776-79), altre volte facendo riferimento al tasso di sconto (ad es., la legge n. 397 del 1974 per i mutui fondiari e la legge n. 10 del 1977 per l’indennità di espropriazione) oppure – per i credito di lavoro familiare – disponendone la rivalutazione secondo gli indici Istat (art. 429 cod. proc. civ.).
Quanto all’altra critica, poi, va osservato che le difficoltà di stima del danno per l’inadempimento di obbligazioni pecuniarie sono esaltate dal modo di operare dell’inflazione, sicché – trattandosi di situazioni che recano in se stesse il germe dell’inevitabile approssimazione della statuizione giudiziale – il ricorso alla liquidazione equitativa è pienamente legittimo (v., al riguardo, le sentenze 1979); e, d’altra parte, il riferimento alle categorie creditizie il più delle volte consente di ancorare il risarcimento del danno (presunto) a parametri certi (costo dell’indebitamento bancario, per l’operatore economico; indici Istat, per il modesto consumatore; tasso dell’interesse sui depositi bancari, per il creditore occasionale, etc.).
12. – I precedenti rilievi sembrano sufficienti a superare talune incertezze che – come si è avvertito all’inizio – si sono manifestate nella giurisprudenza di questa Corte nell’applicazione dei principi fissati dalle sezioni unite, segnatamente in ordine della prova del danno da svalutazione, il notorio e le presunzioni correlate a qualità e condizioni del creditore.
a) Sul piano generale, alcune sentenze valorizzano la distinzione fra lucro cessante e danno emergente, talvolta affermando che le agevolazioni probatorie sono ammissibili solo per il normale lucro cessante (inteso come maggiore utilità che il creditore avrebbe ricavato della somma se avesse potuto disporne tempestivamente), mentre deve essere specificamente provato il danno emergente (v. sent. n. 4380 e 5246 del 1983; n. 6626 del 1984), altre volte ritenendo, invece, che solo quest’ultimo possa risultare illico et immediate dalla notorietà e generalità dell’avvenimento pregiudiziale (v., ad es., sent. n. 4455 del 1981).
Sennonché lucro cessante e danno emergente vendono entrambi in rilievo, e debbono essere indennizzati, per l’integrale ristoro del danno da svalutazione, che è debito di valore al pari di ogni altra obbligazione risarcitoria; e conseguentemente, in conformità all’indirizzo prevalente, va ribadito che le presunzioni sono utilizzabili per la prova dell’uno e dell’altro tipo di danno.
b) Con riguardo alla figura del creditore-imprenditore, poi, alcune sentenze sembrano limitare lo onere di prova a tale qualità, data la normale incidenza della svalutazione sull’ordinario svolgimento dell’attività imprenditoriale (sent. n. 586 del 1985; n. 4788 del 1984), mentre altre pronunzie richiedono una specifica dimostrazione del danno, con riferimento agli investimenti programmati e non potuti effettuare, alla necessità di ricorrere al credito, etc. (sent. n. 5246 del 1983; n. 5981 del 1981; n. 1384 del 1980).
In proposito, ribadito che l’imprenditore deve, al pari di ogni altro creditore, specificamente allegare e dimostrare i presupposti delle presunzioni utilizzabili in ordine all’an e la quantum del danno, va precisato che l’impegno probatorio, pur non potendosi arrestare alla qualità professionale, si atteggia diversamente per ciascuno dei due criteri ritenuti più appropriati per questa figura: in relazione al criterio del maggior costo del denaro, il creditore deve dimostrare di trovarsi in condizioni atte a presumere, secondo la normale gestione finanziaria dell’impresa, il ricorso al mercato del credito; in relazione al criterio del mancato guadagno, invece, è tenuto a fornire gli elementi necessari a stabilire la redditività del denaro investito nell’impresa, sicché la prova – basata in gran parte su vicende proprie della singola impresa spesso presenta maggiore complessità.
c) Infine, in tema di crediti per prestazioni previdenziali esclusi dalla rivalutazione automatica ex art. 429 cod. proc. civ., da alcune pronunzie la qualità di pensionato è stata ritenuta sufficiente ad accogliere la domanda risarcitoria, mentre con numerose altre si è imposto al pensionato l’onere di dimostrare che, per far fronte ai propri bisogni di vita, è stato costretto a far ricorso al credito a condizioni onerose o ad lineare beni idonei a salvaguardarlo dalla svalutazione oppure di non aver potuto investire le somme dovute in modo da conseguire questo stesso risultato (v., ad es., sent. n. 4269 del 1984).
Quest’ultima opinione non può essere condivisa perché il pensionato, quando abitualmente destina tutte le sue risorse al consumo personale e familiare, va qualificato “modesto consumatore”; pertanto si può giovare della presunzione inerente a questa figura ed ottenere il maggior danno secondo gli indici Istat, tranne che la somma liquidata sia molto rilevante, nel qual caso deve considerarsi un “creditore occasionale” e il danno può essere risarcito in relazione all’impiego in deposito bancario, alle condizioni innanzi accennate.
In definitiva, con le precisazioni e i chiarimenti di cui sopra, deve essere confermato lo indirizzo delle sentenze del 1979, il quale, com’é stato sottolineato anche dalla Corte Costituzionale (con la sent. n. 76 del 1981), nell’attuale quadro normativo è il più idoneo a determinare con sufficiente approssimazione, attraverso i criteri personalizzati di normalità, ” l’effettiva incidenza dello inadempimento sul patrimonio del singolo creditore in relazione alla svalutazione monetaria”.
25. – Nel caso in esame va ricordato che la Corte di appello, accertata la colpa dell’Amministrazione per il grave ritardo nel pagamento dell’importo revisionale, ha accolto la domanda della S.C.I.C. in quanto ha ravvisato il danno direttamente nella svalutazione verificatasi nel luogo periodo della mora e ha ritenuto altresì di commisurarlo agli indici Istat, liquidandolo “equamente” in duecento milioni.
La censura mossa a questa statuizione è ammissibile e, come si è anticipato, anche fondata.
L’ammissibilità viene negata dalla resistente per il motivo che la questione sarebbe nuova, perché nelle fasi di merito l’Amministrazione non avrebbe mosso alcuna contestazione in ordine all’esistenza del pregiudizio; ma l’affermazione non è esatta giacché – come si è riferito nell’esporre le vicende del processo- sia in primo grado che in appello l’attuale ricorrente aveva dedotto che il danno dovesse essere specificamente dimostrato, quanto meno in base a circostanze idonee a presumerne l’esistenza e l’ammontare.
E’ evidente, poi, l’errore in cui è incorsa la Corte di appello per avere ritenuto esistente il danno senza affatto considerare le conseguenze della svalutazione specificamente nel patrimonio della creditrice, negligendo, così, i principi come sopra stabiliti da queste Sezioni Unite; e per avere provveduto a liquidare il danno in base (a quanto sembra) agli indici Istat, i quali, invece, come pure si è avvertito non possono essere utilizzati ove non venga allegata e dimostrata l’abituale destinazione del denaro al consumo (laddove nella specie la liquidazione sembra essere avvenuta tenendo conto della qualità di imprenditore commerciale della società).
26. – L’accoglimento delle censure precedenti comporta l’assorbimento di quella sub c), riguardante il computo degli interessi sulla somma liquidata a titolo di svalutazione.
Pertanto la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione alle censure suddette e la causa rinviata ad altro giudice, che si designa in una diversa sezione della Corte di appello di Milano, la quale procederà a nuovo esame della controversia attenendosi ai rilievi e ai principi di diritto sopra svolti; provvederà anche sulle spese di questo giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione, a Sezioni unite
– rigetta il primo motivo di ricorso e accoglie per quanto di ragione il secondo;
– cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, per nuovo esame in relazione alle censure accolte, ad altra sezione della Corte di appello di Milano, la quale provvederà anche sulle spese di questo giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma il 12 dicembre 1985.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 5 APRILE 1986