Svolgimento del processo
1.0 – Con citazione notificata il 13 agosto 1957, la signora Lucienne Angele Gamet Vlasto conveniva innanzi al Tribunale di Roma la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero del tesoro chiedendone la condanna al risarcimento del controvalore delle azioni della società Lokris che lo Stato italiano, in virtù di giudicato internazionale, era stato dichiarato tenuto a riconoscere come di proprietà dell’attrice, ma di cui aveva illegittimamente disposto per estinguere i propri debiti di guerra nei confronti della Grecia.
Con sentenza non definitiva dell’8 maggio 1961, il Tribunale adito riconosceva il fondamento della pretesa attrice; tale decisione veniva, quindi, confermata nei giudizi di appello e di cassazione. Nel successivo procedimento per la determinazione del “quantum” della pretesa risarcitoria, il Tribunale di Roma, con sentenza 26 giugno 1970, condannava le Amministrazioni convenute, in base alle conclusioni della consulenza d’ufficio, al pagamento della somma di L. 14.000.000.000 (quattordici miliardi), in sorte capitale rivalutata al 30 settembre 1953 (data in cui si era concretata la definitiva impossibilità di restituzione delle azioni), con gli interessi a decorrere da tale data sino al saldo.
La decisione veniva impugnata dalla signora Gamet Vlasto, che chiedeva una più congrua valutazione del bene, nonché dalle Amministrazioni. Nel giudizio di appello, ove venivano rinnovate le indagini tecniche, interveniva quale cessionaria del credito litigioso la Banque Gutzwiller, Kurz Bungener S.A. di Ginevra, ora denominata Leu Geneve S.A., che lo aveva acquistato dalla sig.ra Gamet Vlasto con scrittura privata del 17 febbraio 1970, notificata alle Amministrazioni debitrici e, successivamente, registrata ai fini fiscali.
Con sentenza del 20 giugno 1976, la Corte d’Appello condannava le Amministrazioni convenute a pagare alla banca ginevrina la somma di L. 12.940.116.848 in sorte capitale rivalutata al 30 settembre 1953 con gli interessi legali fino al saldo. Tale importo veniva determinato, in mancanza di una quotazione borsistica delle azioni e di un mercato dei giacimenti minerari cui potersi riferire, mediante complessi criteri di stima.
Il danno da svalutazione monetaria veniva liquidato sulla base del valore del bene alla data di riferimento (1953) adeguato al valore attuale della moneta mediante l’applicazione degli indici Istat. Contro tale decisione proponevano ricorso per cassazione le Amministrazioni; la Banca resisteva con controricorso.
Con sentenza del 3 novembre 1986, questa Corte respingeva tutti i motivi di gravame, ad eccezione dei punti 8, 9, 11, 12, 14, 18, 19 del terzo motivo, attinenti a vari aspetti della stima del valore delle azioni.
Con citazione dell’1 ottobre 1987, la Banque Leu Geneve S.A. riassumeva il giudizio ai sensi dell’art. 392 c.p.c.; si costituivano le Amministrazioni convenute.
In sede istruttoria veniva disposta la riunione della causa a quella instaurata (e anch’essa riassunta) dalla Banca contro il Ministero del tesoro, per chiederne la condanna al risarcimento dei danni derivanti da un illegittimo provvedimento di sequestro e di successiva confisca del credito ceduto dalla signora Gamet Vlasto. Era accaduto, infatti, che, successivamente alla cessione, il Ministero del tesoro aveva emesso un provvedimento di condanna della signora Gamet Vlasto al pagamento di una ingente pena pecuniaria per essere stato il credito alienato in violazione della normativa valutaria; con decreto dell’8 aprile 1977, il credito era stato, quindi, devoluto all’Erario ai sensi dell’art. 5 del R.D.L. 5 dicembre 1938, n. 1928.
Ad iniziativa degli aventi causa della signora Gamet Vlasto (l’erede e la Banca cessionaria) il Tribunale di Roma, con sentenza del 16 luglio 1980, aveva dichiarato illegittimi i due provvedimenti di irrogazione della sanzione e di devoluzione del credito all’Erario; aveva, altresì, rigettato la domanda di risarcimento del danno proposta dalla Banca. La sentenza, confermata in appello, era stata parzialmente cassata, in accoglimento del ricorso incidentale della Banque Leu, e rinviata ad altra sezione della Corte d’Appello di Roma, essendo stato osservato che l’atto ablativo del Ministero del tesoro aveva pregiudicato indubbiamente la disponibilità del credito litigioso e poteva aver determinato per l’attuale titolare la probabilità di un danno, conseguente all’emissione dell’illegittimo provvedimento, di cui poteva ottenersi il ristoro ove effettivamente esistente.
La causa era stata, quindi, riassunta dalla Banca, che aveva insistito per ottenere il risarcimento del danno. Le cause riunite passavano in decisione; tuttavia, la Corte di merito, con ordinanza del 13 luglio 1988, evidenziava alcuni punti controversi sui quali ottenere chiarimenti dai consulenti; preso atto che nelle more due componenti del collegio peritale erano deceduti, si provvedeva alla nomina di un esperto in materia contabile che integrasse (sotto il profilo tecnico-commerciale) gli accertamenti e i chiarimenti che potevano essere forniti dal consulente già membro del collegio precedentemente nominato.
Espletato l’incarico e precisate le conclusioni, la Corte d’Appello, parzialmente riformando le sentenze del Tribunale: condannava in solido la Presidenza del Consiglio dei ministri ed il Ministero del tesoro “al pagamento, a titolo risarcitorio, in favore della Banca Leu Geneve S.A., di L. 11.453.438.148,726 – comprensive del valore delle azioni al 1953 di L. 4.076.347.997,68 e degli interessi legali al 5% dal 1953 al 1976”; – condannava le stesse parti, inoltre, “al pagamento degli interessi legali, dal 1953 al 1976, sulla parte di rivalutazione annuale, come operato in motivazione, al netto degli interessi già applicati in sede di rivalutazione; – condannava le Amministrazioni, ancora, “al pagamento degli interessi compensativi legali maturati sulla somma globale dovuta per i titoli anzidetti a decorrere dal 1976 fino al saldo”; – dichiarava, nel procedimento riunito, il Ministero del tesoro tenuto al risarcimento dei danni conseguenti all’illegittimo provvedimento ablativo; dichiarava, altresì, l’inammissibilità della richiesta di provvisionale avanzata dalla Banca ed il difetto di legittimazione passiva, in quest’ultima causa, della Presidenza del Consiglio dei ministri; – dichiarava integralmente compensate fra tutte le parti le spese dei vari giudizi.
Osservava la Corte di merito:
1.1 – che occorreva innanzitutto ribadire il principio, più volte affermato in giurisprudenza in tema di risarcimento del danno da fatto illecito, secondo cui la regola della rilevabilità anche d’ufficio, in sede di gravame, della svalutazione monetaria sopravvenuta va coordinata con le regole sulle impugnazioni e sulla formazione del giudicato interno; pertanto, qualora il creditore non abbia proposto impugnazione alcuna nei confronti della pronuncia di condanna, così, manifestando, anche implicitamente, acquiescenza, deve ritenersi formata per quel capo della sentenza la cosa giudicata nei confronti del danneggiato, preclusiva di ulteriori aumenti nel “quantum” anche in relazione alla eventuale svalutazione monetaria verificatasi nel frattempo e pur in presenza di impugnazione principale del debitore circa l’entità del risarcimento;
1.2 – che intervenuta sentenza d’appello di condanna ad una somma determinata, ivi compresa la svalutazione, in assenza di alcuna impugnazione al riguardo da parte del danneggiato vittorioso, il credito così sancito ben può ritenersi, in quanto sorretto da giudicato riferentesi al massimo liquidabile, credito di valuta e come tale rivalutabile ai sensi dell’ art. 1224 c.c.; che, tuttavia, all’applicazione di tale principio nella fattispecie ostava il rilievo che il ritardo nella riscossione del credito sancito dalla sentenza di appello, da considerarsi passata in cosa giudicata nei confronti del creditore e, quindi, sicuramente eseguibile, dipendeva dal fatto che questi era rimasto inerte, “con la evidente impossibilità del riconoscimento del danno da svalutazione in virtù della norma anzidetta che suppone, “in limine”, viceversa, che il ritardo nel pagamento dipenda da esclusivo fatto del debitore”;
1.3 – che tale conclusione non poteva essere confutata adducendo il rilievo di vicende estranee all’accertamento definitivo del credito – quali la sospensione dell’esecuzione o la confisca del credito – dalle quali, se inidonee ad arrestare l’esecuzione del giudicato stesso, poteva derivare esclusivamente un’autonoma ragione risarcitoria per il creditore;
1.4 – che il potere del giudice di secondo grado, o di rinvio, di adeguare anche d’ufficio la liquidazione monetaria di un debito di valore per il fenomeno inflattivo deve ritenersi escluso quando, rispetto alla pronuncia che ha sancito il credito risarcitorio, manchi qualsiasi gravame da parte del creditore, con conseguente giudicato sul punto; del resto il limite oggettivo del giudizio di rinvio è dato solo dall’ambito delle impugnazioni accolte, sicché, proposto il ricorso per cassazione esclusivamente dal debitore, il giudizio è ristretto alla verifica di eventuali ipotesi negative o riduttive del “quantum” riconosciuto e non assurgere a fonte autonoma e primigenia per la verifica e la sanzione di pretese e ragioni che, processualmente e sostanzialmente, sono definitivamente precluse;
1.5 – che, nella specie, il giudizio di rinvio doveva ritenersi limitato alla verifica della conformità a legge della liquidazione effettuata nella sentenza di appello, in relazione ai parametri indicati da questa Corte di cassazione, con la esclusione della possibilità del riconoscimento al creditore di somme maggiori, a qualsiasi titolo (e cioè sia per effetto della svalutazione che per l’applicazione dei nuovi criteri di valutazione del danno), rispetto a quelle attribuitegli con la sentenza di appello passata in cosa giudicata relativamente al tetto massimo riconoscibile, ad eccezione degli interessi di legge, compensativi, per avere il debitore goduto nelle more delle somme dovute;
2.1 – che non poteva dirsi violato il principio del contraddittorio, con conseguente nullità della consulenza d’ufficio espletata nel corso del giudizio di rinvio, per il fatto che i consulenti avrebbero ricevuto atti e documenti prodotti dalla Banca e che la difesa delle Amministrazioni non avrebbe avuto in copia ai sensi dell’art. 90 disp. att. c.p.c.; si trattava, infatti, di “osservazioni” che, a norma dell’art. 194 c.p.c., le parti possono inoltrare ai consulenti d’ufficio, a voce o per iscritto, e di cui è sempre possibile la confutazione qualora gli stessi le abbiano fatte proprie e trasfuse nelle relazioni; senza contare, inoltre, che dalla mancata comunicazione alla parte avversa delle deduzioni ed istanze rivolte al consulente d’ufficio non discende alcun vizio dell’attività di quest’ultimo, con sanzione di nullità dell’elaborato, ma esclusivamente la impossibilità che di tali deduzioni o istanze si tenga conto, come era del resto effettivamente accaduto nel caso di specie;
2.2 – che era parimenti infondato l’assunto della difesa delle Amministrazioni circa l’inutilizzabilità della consulenza d’ufficio, la quale non avrebbe risposto ad alcuno dei più rilevanti quesiti posti dalla Corte di cassazione; in realtà i consulenti non avevano trascurato alcun punto sottoposto al loro esame né esorbitato dai quesiti posti, avendo puntualmente tenuto conto di ogni “voce” del contendere, non mancando di motivare analiticamente le loro conclusioni, sostanzialmente confermative delle risultanze delle precedenti relazioni peritali;
2.3 – che nessuna “mutatio libelli”, eccepita dalle Amministrazioni, si era verificata nel giudizio di rinvio, essendo chiaro fin dall’atto di riassunzione che la riassumente intendeva ottenere il riconoscimento di quanto globalmente attribuitole dalla sentenza d’appello e degli ulteriori diritti;
3.1 – che nessun giudicato interno, inerente agli specifici punti (n. 8, 9, 11, 12, 14, 18, 19 del terzo motivo di ricorso proposto dalle amministrazioni) per i quali era intervenuta la cassazione della sentenza d’appello, poteva dirsi verificato in quanto la pronuncia censoria era intervenuta per difetto di motivazione e lasciava, pertanto, intatto il potere del giudice di rinvio di riesaminare i fatti già accertati e di accertarne nuovi;
3.2 – che la prima indagine doveva riguardare la determinazione della parte del giacimento minerario di cui la soc. Lokris poteva disporre (punto 8); non potendosi, infatti, far dipendere il valore delle azioni unicamente dalla nuda proprietà di una parte del giacimento medesimo era necessario valutare la effettiva possibilità del suo sfruttamento, derivabile anche indirettamente da una sub-concessione, da una locazione o da un qualsiasi altro tipo di contratto “ad hoc”: nel caso di specie, dagli elementi di giudizio acquisiti e dagli esatti rilievi della consulenza tecnica, si desumeva con certezza che alla società Lokris andava attribuita l’intera disponibilità economica del giacimento minerario, in riferimento alle concessioni designate con i numeri 1, 105a, 8b; infatti, era incontrovertibile che la società disponesse del 100% della parte contenuta nella concessione 1, avendone la intera proprietà; che potesse disporre di tutte le porzioni di giacimento comprese nella concessione 105a, essendone in parte locataria e risultando, per il residuo, titolare del pacchetto di maggioranza (75%) delle azioni della società proprietaria; che potesse disporre, inoltre, della parte relativa alla concessione 8b in quanto titolare di contratti di locazione che prevedevano una riserva dei diritti di sfruttamento per anni 10, rinnovabili di 10 in 10 anni fino ad esaurimento del giacimento, salva una qualche minor sicurezza, di cui, comunque, i consulenti d’ufficio avevano tenuto conto nel computo dei rischi di coltivazione ai fini della definizione del tasso di attualizzazione, sulla possibilità di conservare una totale garanzia in merito al rinnovo – assai probabile – dei contratti medesimi;
3.3 – che in relazione alla durata dell’impresa integrata minero-metallurgica e al costo del prospettato rinnovo delle attrezzature divenute obsolete (punto 9), i consulenti avevano osservato, con congrua motivazione, che la prevista durata dell’attività mineraria (26 anni) valesse anche per gli impianti connessi. Non esistendo, pertanto, valide ragioni per considerare la vita normale dell’impianto metallurgico inferiore al tempo di esaurimento del giacimento e non dovendo essere aumentati per questo motivo i costi di produzione, l’importo unitario di essi doveva ritenersi esattamente determinato dai consulenti, i quali avevano, del resto, tenuto conto della eventuale minor durata degli impianti o di alcuni di essi, rispetto alla loro vita normale, nella valutazione del rischio per la determinazione del tasso di attualizzazione (e cioè della espressione, in termini percentualistici, che conduce alla quantificazione del fattore moltiplicativo dell’utile annuo dell’impresa, occorrente per pervenire, con il metodo del cosiddetto “utile prospettico”, alla determinazione del complessivo valore dell’azienda minero-metallurgico e successivamente, una volta incrementatolo degli eventuali valori patrimoniali residui, alla fissazione del complessivo valore finale dell’impresa e del capitale azionario della società titolare di essa);
3.4 – che, relativamente al calcolo di produzione della lega (punto 11), vista la scarsità dei dati specifici e l’incertezza della situazione, volendo dar un peso particolare alle indicazioni contenute nell’unico documento relativo al giacimento rinvenuto negli atti di causa (lo studio del prof. Moussoulos del 1060) e riferendosi a dati di carattere generale, citati in altro testo di siderurgia, si poteva pervenire ad una percentuale di rendimento metallurgico degli impianti del 90% per entrambi i metalli (nichel e ferro), così come concluso dai consulenti d’ufficio; i quali, comunque, riconoscendo la possibile contraddittorietà di tale soluzione, di ciò avevano tenuto conto nel calcolare successivamente il tasso di attualizzazione;
3.5 – che, in relazione al calcolo dei costi di produzione e di commercializzazione della lega ed all’incidenza di varie voci, delle quali la sentenza cassata aveva trascurato di dar conto, doveva osservarsi:
– quanto agli sfridi (cali che il prodotto subisce durante la lavorazione e il trasporto), che il problema non poteva nemmeno porsi con riferimento al procedimento metallurgico Krupp-Renn, basato sull’utilizzazione di un forno “a ciclo chiuso”;
– quanto alle voci “assicurazione” e “trasporto oltremare”, che precedenti ed attuali consulenze concordavano nel non considerarle fra le spese, poiché gravanti sull’acquirente il prodotto i cui prezzi venivano “free on board” Larymna (porto di partenza);
– quanto alle voci “carico a bordo e commercializzazione”, che correttamente esse erano state prese in considerazione dai consulenti, i quali avevano effettuato le opportune corrispondenti detrazioni dai ricavi; analogamente essi avevano correttamente stimato la voce “oneri fiscali”, in misura pari all’11% del fatturato, fosse addirittura eccessiva, per l’assai probabile sussisteva di facilitazioni fiscali in favore delle attività di esportazione;
– quanto alle voci “diversi”, “imprevisti” e “spese generali”, che andava recepita la valutazione dell’incidenza sui costi delle relative spese effettuata nella precedente consulenza, alla quale poteva solo imputarsi non già di averne omesso la contabilizzazione, ma di aver redatto sinteticamente il prospetto estimativo, non evidenziando talune poste pur prese in considerazione;
– quanto alle voci relative al “costo dell’impianto”, che doveva condividersi la tesi dei consulenti, la quale confermava sostanzialmente quella dei consulenti nominati nel precedente giudizio di appello, secondo cui la fornitura dell’impianto Krupp-Renn, ed il relativo costo, comprendeva tutte le attività preparatorie, di realizzazione, di messa in funzione ed accessorie, nonché di installazione e risistemazione del terreno;
– quanto alla voce inerente al costo del “capitale circolante”, che il problema appariva di ardua soluzione, non essendo noti né l’organizzazione finanziaria dell’azienda relativa alla soddisfazione delle esigenze di liquidità a breve, né gli investimenti iniziali; tuttavia poteva rilevarsi, sulla base di un documento greco del 1952, che il capitale circolante sarebbe potuto ammontare ad una cifra pari a circa L. 500.000.000, per cui i consulenti avevano tenuto conto dell’interesse annualmente prodotto dal capitale così precisato;
3.6 – che, in relazione alla determinazione del tasso di attualizzazione, i periti si erano trovati in difficoltà per addivenire ad una soluzione unitaria, giacché tale valutazione deriva da criteri che hanno carattere indubbiamente discrezionale per ogni perito estimatore e risentono delle particolari competenze ed esperienze del singolo studioso, come del resto appariva dalle relazioni presentate dai consulenti d’ufficio e di parte nei precedenti gradi del giudizio (relazioni tutte minuziosamente esposte), i consulenti d’ufficio nel giudizio di rinvio (l’uno, il prof. Stragiotti – già membro del precedente collegio peritale -, esperto di tecniche di coltivazione mineraria, l’altro, il prof. Ferri, esperto economico-finanziario), resisi conto di quanto sopra, avevano, pertanto, ritenuto non solo opportuno, ma preferibile, procedere separatamente, ognuno secondo le proprie conoscenze ed esperienze, al riesame del quesito fondamentale e cioè alla valutazione della redditività dell’azione Lokris, con l’intesa che alla fine essi avrebbero mediato aritmeticamente i due risultati; così operando erano pervenuti ad una valutazione meno soggettiva ed assai più affidabile di quella alla quale sarebbero potuti pervenire attraverso accordi presi “in itinere”.
Il perito prof. Stragiotti aveva sottolineato che l’investimento di capitali in campo minerario è fra quelli caratterizzati dal maggior rischio, la cui variabilità è altissima anche in relazione alla evoluzione della tecnica e dei mercati; e che in particolare, con riferimento al giacimento della soc. Lokris, la valutazione del rischio minerario incidente sulla misura del tasso di attualizzazione e connesso alla gestione per un lungo periodo di anni, doveva tener conto:
– che le vecchie coltivazioni, nel corso degli anni, limitassero lo sfruttamento di alcune parti di giacimento;
– che nel lungo periodo si potessero verificare variazioni nei costi e nei ricavi, essendo il mercato minerario soggetto a rapidi e forti sbalzi;
– che pure nel lungo periodo si dovesse affrontare la concorrenza di nuovi reperimenti e giacimenti più economicamente sfruttabili;
– che il processo di trattamento potesse presentare dei problemi di gestione inizialmente non previsti e che l’impianto potesse presentare gravi fenomeni di usura prima del compimento dei ventisei anni di vita previsti per la miniera;
– che i proprietari locatori non rinnovassero l’affitto, limitando la disponibilità del giacimento;
– che, per le caratteristiche meccaniche deteriori delle formazioni rocciose inglobanti il giacimento, si potessero verificare manifestazioni franose, con conseguente perdita di produzione e/o maggiori costi; sicché non si poteva, secondo il prof. Stragiotti, tener conto dei tassi di attualizzazione indicati dalla parte attrice e validi unicamente per normali aziende industriali, non gravate da rischi particolari; dovendosi, piuttosto, tener presente (e così il consulente correggeva le proprie valutazioni effettuate nel precedente giudizio di appello) che nel calcolo del tasso di interesse per operazioni bancarie prive di rischio (cosiddetto tasso di riposo) doveva considerarsi l’inflazione esistente nel periodo (biennio 1953/1954) per cui risultava ridotto il tasso di interesse di base da utilizzare per il calcolo complessivo. In conclusione il consulente d’ufficio esperto in tecniche di coltivazione mineraria aveva determinato il tasso globale di attualizzazione nel 12,0%.
Il perito prof. Ferri aveva a sua volta indicato due componenti del tasso di cui trattasi:
a) – il rendimento per l’investimento di capitale;
b) – il compenso per il rischio economico d’impresa; per determinare il primo aveva applicato due diversi criteri di valutazione, combinandone poi il risultato mediante media aritmetica (più precisamente aveva tenuto conto del rendimento per l’investimento di capitale a rischio zero, il cui parametro era rappresentato dall’investimento in titoli di stato al netto dell’inflazione e del rendimento per l’investimento in titoli azionari, il cui parametro era rappresentato dal rapporto “price-earnings” – P/E -); relativamente al secondo aveva tenuto conto del rischio generico d’impresa; del rischio del comparto minerario e del rischio specifico dell’azienda Lokris; aveva, quindi, concluso indicando il tasso globale di attualizzazione nel 9,0%.
I due consulenti, rassegnando le conclusioni comuni, preso atto dell’inesistenza di un criterio di valutazione unico, assoluto ed incontestabile (poiché ciascuno risente di valutazioni soggettive), e volendo addivenire al risultato meno soggettivo e più equo possibile, avevano indicato concordemente come tasso globale di attualizzazione il 10,5%, corrispondente alla media aritmetica semplice dei tassi separatamente determinati.
3.7 – che, in relazione al calcolo del valore degli impianti della soc. Lokris, la consulenza tecnica di maggioranza nel giudizio di appello aveva ritenuto che esso, riferito alle attrezzature e agli impianti essenziali occorrenti per la produzione, fosse già implicitamente compreso nel prezzo globale di stima del giacimento, e aveva, quindi, valutato esclusivamente il valore dei rottami, delle giacenze dei minerali e dei terreni; tali conclusioni erano state sostanzialmente confermate anche dal prof. Stragiotti, consulente nel giudizio di rinvio; tuttavia, in assenza di dati certi, appariva corretta la proposta del Collegio peritale di computare per valore degli impianti una somma pari alla metà di quella indicata in una valutazione degli stessi effettuati nel 1952 da altro consulente e richiamata sia dalla consulenza di minoranza del giudizio di appello che dalla parte attrice;
3.8 – che, calcolando il valore, come determinato in base ai criteri di stima esposti, delle azioni su cui si controverteva, si perveniva ad una somma di L. 4.096.347.997,68, sulla cui rivalutazione il giudice di rinvio non incontrava alcuna preclusione, né in relazione all’entità, né in relazione ai criteri da adottare per quantificarla; si doveva rilevare, peraltro, che si era formato un vero e proprio giudicato interno circa la condanna, intervenuta in primo grado e poi confermata in appello, senza gravami, di pagamento degli interessi dal momento dell’evento dannoso – 30 settembre 1953 – sulla somma rivalutata; si trattava, ciò posto, di individuare la base concernente la rivalutazione su cui computare gli interessi per i quali vi era giudicato di condanna in favore dell’originaria attrice; affermava in proposito la sentenza che se il debito di valore, in cui si risolve l’obbligazione risarcitoria, andava espresso in termini attuali, non poteva però essere assunto come produttivo degli interessi nella sua integralità sin dalla data dell’illecito ma, sia pur ferma tale data, doveva essere determinato via via attraverso le successive rivalutazioni anno per anno (Cass. n. 6209 del 1990), per cui gli interessi non andavano computati sulla somma rivalutata globale a partire dalla data dell’illecito – ma, con tale decorrenza, sul capitale via via rivalutato secondo gli indici annuali medi di svalutazione; né al giudice di rinvio difettava la piena libertà di stabilire l’opportuna base di calcolo degli interessi anche per il profilo della rivalutazione, libertà non contrastante con il giudicato, che non riguardava l’entità totale della rivalutazione ma solo il punto della base di calcolo degli interessi; in altri termini se la somma che era stata determinata come entità della rivalutazione, ed alla quale faceva riferimento la sentenza d’appello di condanna al pagamento degli interessi, era ancora completamente “sub iudice”, ne conseguiva evidentemente la mancanza di ogni preclusione circa la fissazione dell’opportuna base di commisurazione degli interessi stessi, anche per quanto si riferiva alla rivalutazione; ciò consentiva di operare un’ulteriore limitazione per quanto concerneva la base di rivalutazione sui cui commisurare gli interessi da riconoscere all’originaria attrice: non spettava, infatti, alla Banca la globalità della rivalutazione stessa oltre agli interessi, ma solo nella misura eccedente l’importo di questi e ciò in quanto, essendo la “ratio” del risarcimento da svalutazione quella di ristorare il danno subito dal creditore in termini di mancato rendimento del danaro che l’impiego tempestivo della somma avrebbe consentito, il risarcimento stesso non poteva cumularsi con quello garantito dalla liquidazione forfetaria degli interessi se non nella misura che eccedeva l’importo di quest’ultima; non potendosi, infine, riconoscere alcuna somma per la svalutazione verificatasi dal 1976 (data della sentenza cassata) fin dal tempo della sentenza di rinvio, da quella data spettavano al danneggiato soltanto gli interessi compensativi sull’importo globale, cioè sul “quantum” omnicomprensivo;
3.9 – che, circa la domanda di condanna generica al risarcimento del danno, doveva rilevarsi come l’indisponibilità del credito derivante dall’illegittimo provvedimento ablativo fosse potenzialmente lesiva, salvo la verifica successiva della sussistenza e quantificazione del danno medesimo; né, in proposito, aveva rilievo l’argomentazione difensiva dell’Amministrazione convenuta circa l’assenza dell’elemento psicologico nell’illecito aquiliano; infatti, la colpa era di per sé ravvisabile nella violazione delle norme operata con l’emanazione dell’atto e con la sua esecuzione, e l’Amministrazione stessa non poteva, comunque, giovarsi, essendo responsabile in via diretta, dell’eventuale errore scusabile (per la difficoltà della materia) dei propri funzionari; mentre doveva dichiararsi il difetto di legittimazione passiva della Presidenza del Consiglio dei ministri, che non aveva assunto la qualità di parte nelle precedenti fasi del giudizio;
3.10 – che le ragioni del contendere, la particolarità e la complessità del caso costituivano giuste ragioni per la compensazione integrale delle spese del giudizio di tutti i gradi, inclusi quello di Cassazione;
4.1 – Ricorrono per cassazione la Banque Leu Geneve S.A., la quale, premesso: che la sentenza emessa nel precedente giudizio di appello aveva precisato che la “aestimatio” del bene, con riferimento al momento dell’illecito, andava adeguata ai parametri monetari del tempo in cui veniva resa la pronuncia con l’applicazione degli indici Istat e che sulla somma così rivalutata dovevano essere corrisposti gli interessi nella misura legale a far tempo dall’evento dannoso; che nel ricorso per cassazione proposto nei confronti della suddetta sentenza non era stata avanzata dalle Amministrazioni ricorrenti alcuna doglianza in ordine al principio che gli interessi andavano computati sull’ammontare della somma costituente il controvalore del bene, rivalutata con adeguamento ai parametri monetari del momento della decisione, ma esclusivamente era stata contestata, sotto vari profili, l’esattezza della decisione in ordine alla rivalutazione monetaria della somma rappresentativa della “aestimatio”; che, comunque, tale motivo era stato rigettato dalla Corte di Cassazione, la quale aveva cassata la sentenza d’appello per vizio di motivazione esclusivamente su alcune questioni relative alla valutazione di alcuni dati inerenti al danno; che il giudice di rinvio era, pertanto, vincolato ad applicare, sulla somma corrispondente alla “aestimatio” che andava ad accertare, l’adeguamento monetario dal tempo dell’evento lesivo al momento della sua finale decisione ed a condannare le Amministrazioni convenute al pagamento degli interessi nella misura legale sulla somma rivalutata dalla data del fatto illecito all’effettivo soddisfacimento dell’obbligazione risarcitoria; che le questioni sollevate con i mezzi respinti e quelle che, pur potendo essere proposte con motivi “ad hoc”, non erano state sottoposte dalle parti interessate al giudizio della Cassazione (nella specie: quelle relative agli interessi calcolati nella misura legale sull’ammontare del danno, rivalutato fino al momento della decisione), non potevano essere riaperte nel giudizio di rinvio, né potevano essere applicati principi divergenti da quelli adottati nella precedente sentenza di merito; denuncia.
4.2 – 1) – Violazione del giudicato: nonché violazione e falsa applicazione delle norme e principi relativi alle impugnazioni civili (ed in particolare al ricorso incidentale per cassazione); al giudizio di legittimità; al giudizio ed ai poteri del giudice di rinvio; alla efficacia della sentenza di annullamento nel caso di cassazione parziale; all’acquiescenza processuale tacita; alla interpretazione della volontà processuale e dei comportamenti delle parti; alla formazione della cosa giudicata formale e alla distinzione fra preclusione e giudicato; agli effetti del giudicato in senso sostanziale) sulla modificazione del rapporto sostanziale; alla responsabilità extracontrattuale e al risarcimento del danno derivante da fatto illecito; alla distinzione fra debiti di valore e debiti di valuta; alla mora del debitore e al ritardo nell’adempimento delle prestazione risarcitoria del danno da fatto illecito. Difetto e contraddittorietà di motivazione ( artt. 348, 394, 329 c.p.c., artt. 1362 c.c. e segg., artt. 333, 371, 324 c.p.c.; artt. 2909, 2043, 2056, 1223, 1227, 1219, n. 1, c.c. art. 1224 c.c.; il tutto in relazione all’art. 360, n. 3 e n. 5, c.p.c.);
4.3 – per avere la Corte di rinvio erroneamente (e richiamando precedenti giurisprudenziali non pertinenti) ritenuto che non fosse dovuta la svalutazione monetaria sopravvenuta alla pronuncia di appello avendo parte creditrice prestato acquiescenza tacita, non proponendo ricorso incidentale, nei confronti della sentenza di appello; ove, in realtà, essa era stata sul punto specifico vittoriosa per cui non avrebbe, comunque, potuto, a pena di inammissibilità, presentare alcun gravame; viceversa, la richiesta di computare l’ulteriore svalutazione monetaria doveva essere considerata compresa nella domanda risarcitoria fin dalla sua proposizione e della incidenza della svalutazione ai fini della “taxatio” del danno doveva tenersi conto anche d’ufficio pure nel giudizio di rinvio, in mancanza di una espressa dichiarazione di rinuncia del danneggiato e in assenza di un suo comportamento concludente in tal senso (quale non poteva sicuramente ritenersi, in base alla circostanza che si era limitata a chiedere la conferma della sentenza impugnata “ex adverso”, quello della Banca creditrice); per avere, inoltre, la sentenza erroneamente ritenuto che il credito di valore si fosse trasformato in debito di valuta a far tempo dalla sentenza di appello del 1976, trascurando che tale trasformazione può discendere esclusivamente dal passaggio in giudicato della sentenza che provvede alla liquidazione; derivandone ancora, erroneamente, che il credito di valuta, divenuto tale per la mancata impugnazione incidentale del danneggiato, non fosse suscettibile di rivalutazione ai sensi dell’art. 1224 civ. per averne il creditore ritardato la riscossione nonostante che la sentenza, passata in giudicato nei suoi confronti, fosse eseguibile, con ciò non considerando che il credito aveva come suo titolo originario un fatto illecito e che, pertanto, esso restava assoggettato ai principi della mora “ex re”, onde l’obbligazione relativa doveva essere adempiuta fin dal momento della sua insorgenza;
4.4 – 2) – Violazione del giudicato: nonché violazione e falsa applicazione delle norme e principi relativi al giudizio e ai poteri del giudice di rinvio; alla efficacia della sentenza di annullamento del caso di cassazione parziale; alla acquiescenza processuale tacita ed alla preclusione processuale; alla responsabilità extracontrattuale ed al risarcimento del danno derivante da fatto illecito; alla distinzione tra debiti di valore e debiti di valuta; al ritardo nell’adempimento della prestazione risarcitoria; alla nozione ed al calcolo degli interessi compensativi ed alla distinzione tra interessi compensativi ed interessi moratori. Difetto e contraddittorietà di motivazione ( artt. 384, 394, 329 c.p.c.; artt. 2909, 2043, 2056, 1223, 1226, 1227, 1219, n. 1, c.c. artt. 1224, 1282 c.c., il tutto in relazione all’art. 360, n. 3 e n. 5, c.p.c.);
4.5 – per avere la Corte di rinvio, pur avendo riconosciuto la sussistenza nella specie “di un vero e proprio giudicato interno circa la condanna in primo grado intervenuta, e poi confermata in appello, senza gravami, di pagamento degli interessi dal momento dell’evento dannoso sulla somma rivalutata fino al soddisfo”, erroneamente ritenuto che fosse consentito in sede di rinvio stabilire una diversa base di calcolo degli interessi anche per il profilo della rivalutazione, sul presupposto che fosse ancora completamente “sub iudice” la somma relativa all’entità della rivalutazione; in realtà “sub iudice” era esclusivamente la definitiva determinazione della “aestimatio”, non già il fatto che il conseguente ammontare della rivalutazione del bene perduto ai valori attuali potesse avvenire in base ai criteri diversi da quelli sanciti nel giudicato interno; e, comunque, poiché gli interessi sulle somme liquidate a titolo di risarcimento costituiscono una componente stessa del danno, la sentenza li avrebbe dovuti calcolare sull’intero ammontare di questo, espresso nei valori monetari del momento della decisione, e ciò a prescindere dalla qualificazione giuridica di tale forma di interessi (già definiti “compensativi” nella sentenza di primo grado e non anche in quella di appello, senza tuttavia che da quest’ultima circostanza potesse mettersene in discussione la funzione di risarcimento del danno da ritardo nell’adempimento dell’obbligazione nascente da fatto illecito extra-contrattuale);
4.6 – 3) – Violazione e falsa applicazione delle norme e dei principi relativi agli interessi sui crediti per risarcimento del danno da illecito aquiliano e, in particolare, agli interessi sulle somme costituenti liquidazione forfetaria del danno conseguente al ritardo della prestazione risarcitoria; al divieto di anatocismo negli interessi sui crediti pecuniari; alla corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato.
Difetto e contraddittorietà di motivazione ( artt. 2043, 2056, 1223, 1226, 1227, 1219, 1124, 1282, 1283 c.c.; art. 112 c.p.c.; il tutto in relazione all’art. 360, n. 3 e n. 5, c.p.c.): per avere la Corte del merito limitato l’attribuzione degli interessi dovuti (a partire dalla data dell’illecito) sulla somma rivalutata a quella parte di essa eccedente gli interessi legali (in tale somma compresi), escludendo, quindi, questi ultimi dalla base di computo dell’ulteriore attribuzione “per la evidente necessità di rispettare il divieto di anatocismo, in difetto di specifica domanda”, così confondendo fra attribuzione degli interessi (finalizzati a risarcire il danno da ritardo nella prestazione risarcitoria) e adeguamento monetario e, comunque, omettendo di considerare che la richiesta della Banca, avente per oggetto gli interessi legali, altro non poteva significare che richiesta di tutti gli interessi dovuti sulle somme componenti la prestazione risarcitoria riconducibile all’unico fatto generatore della relativa responsabilità.
4.7 – 4) Violazione del giudicato. Difetto, illogicità e contraddittorietà di motivazione – Omesso esame di fatti e circostanze decisive (art. 360, n. 3 e n. 5, c.p.c.);
4.8 – per avere il giudice di rinvio, in ordine alla questione relativa all’individuazione del tasso di attualizzazione, acriticamente preso atto dei vistosi ondeggiamenti delle opinioni del perito prof. Stragiotti, non tenendo debitamente in considerazione le opinioni dell’altro perito prof. Ferri, esperto specificamente nella materia contabile, alle cui valutazioni la comune relazione dichiarava espressamente che si sarebbe potuto attribuire maggior peso; e per avere, inoltre, la sentenza, sempre con riferimento al calcolo del tasso di attualizzazione: – calcolato il “rendimento per l’investimento di capitale a rischio zero”, utilizzando quali parametri il rendimento dei titoli di stato e di titoli azionari italiani depurato dell’inflazione verificatasi in Italia, parametri in realtà privi di qualsiasi collegamento con un’impresa esercitata in un altro paese e dedita al mercato internazionale, e trascurando, altresì, la considerazione dell’effetto “trend” dei prezzi “relativi” del nichel, aumentati, nel periodo, in misura molto superiore al cosiddetto “indice medio d’inflazione”, senza spendere una parola sui pertinenti rilievi formulati dall’attrice; per avere, infine, la sentenza impugnata operato la trasformazione della valuta estera (dollari) – con la quale erano state espresse le varie componenti del bene oggetto dell’indennizzo – in lire italiane non già al termine di tutte le operazioni dirette ad accertare il valore dell’azienda (come avvenuto in appello) ma dopo aver individuato l’utile annuo della miniera, procedendo solo successivamente all’attualizzazione; e ciò nonostante che il procedimento seguito nel giudizio di appello non fosse stato oggetto di impugnativa in cassazione né di censura da parte di questa Corte;
4.9 – 5) – Violazione dell’art. 91 c.p.c., per aver la Corte di merito compensato integralmente le spese con motivazione palesemente insufficiente, specie in relazione al giudizio relativo alla illegittima confisca del credito ove il Ministero del Tesoro era sempre stato soccombente in tutti i gradi;
5.1 – Resistono con controricorso le Amministrazioni intimate, ribadendo le argomentazioni della sentenza del giudizio di rinvio; propongono, inoltre, ricorso incidentale con il quale, premesso: che la Corte di rinvio, anziché procedere al completo riesame dei punti decisivi in ordine ai quali era intervenuto l’annullamento della sentenza d’appello, si era puramente e semplicemente adagiata sulle risultanze di una nuova consulenza tecnica, facendole proprie acriticamente; che la consulenza doveva comunque considerarsi nulla ex art. 90 disp. att. c.p.c., in quanto i consulenti avevano preso in considerazione ed utilizzato nuovi atti e documenti prodotti dalla difesa della Banca e mai comunicati alla difesa delle Amministrazioni, denunciano;
5.2 – 1) – Violazione degli artt. 383, 384 e 392 c.p.c. e segg. e dei principi relativi ai limiti del giudizio di rinvio ed alle preclusioni derivanti dalla sentenza di cassazione. Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia. Violazione dell’ art. 2697 cod. civ., dell’art. 115 cod. proc. civ. e dei principi relativi all’onere della prova. Violazione delle norme e dei principi relativi alla ripartizione degli utili nelle società e ai poteri dei soci di maggioranza (art. 360 c.p.c., n. 3, n. 4, n. 5), per avere la Corte di merito, anziché individuare quale percentuale dell’intero giacimento dovesse considerarsi compresa nelle concessioni di cui la Lokris poteva disporre, accertato, in violazione dei limiti imposti dalla pronuncia cassatoria, una maggior ampiezza dei diritti della società, rispetto a quelli in precedenza riconosciuti, attribuendole la disponibilità “totale” delle concessioni 8/b e 105/a, e per aver, inoltre, erroneamente desunto la disponibilità della concessione 105/a dalla sua titolarità del pacchetto di maggioranza della società concessionaria, nonché da un preteso rapporto locatizio, pur in assenza di prove sull’esistenza di contratti di locazione inerenti ad entrambe le concessioni, il cui eventuale costo, illogicamente e contraddittoriamente, non è stato, comunque collocato;
5.3 – 2) Violazione, sotto altro aspetto, delle stesse norme e principi sui limiti del giudizio di rinvio. Violazione dei limiti imposti dalla sentenza di Cassazione. Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa altri punti decisivi della controversia (art. 360, n. 4 e n. 5, c.p.c.), per avere la sentenza di merito, nonostante che questa Corte di Cassazione avesse attribuito carattere di decisività alla questione relativa all'”inevitabile aumento dei costi” dovuto alla “prevedibile obsolescenza delle attrezzature” nel corso della prevista durata dell’impresa, escluso ogni costo aggiuntivo per il rinnovo delle attrezzature, omettendo di motivare in ordine alle circostanze evidenziate dai consulenti tecnici di parte secondo cui era da escludere la possibilità di attribuire all’impianto una vita pari a quella prevista per l’impresa.;
5.4 – 3) – Violazione, sotto altro aspetto, delle stesse norme e principi sul giudizio di rinvio. Violazione dei limiti e dei vincoli imposti dalla sentenza di cassazione. Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa altri punti decisivi della controversia. Violazione delle norme e dei principi in tema di consulenza tecnica e di valutazione, da parte del giudice, degli elaborati peritali ( art. 360, n. 4 e n. 5, c.p.c.), per avere erroneamente la sentenza del giudice di rinvio, anziché – in aderenza ai rilievi formulati dalla pronuncia censoria – uniformare alla percentuale di rendimento metallurgico già adottata per il calcolo dei costi unitari di produzione, ed ormai definitivamente accertata in appello, quella da adottarsi per il calcolo sull’ammontare complessivo della produzione annua di lega, determinato a quest’ultimo fine una nuova e diversa percentuale, recependo, inoltre, acriticamente la valutazione dei consulenti d’ufficio e trascurando quelli dei consulenti di parte;
5.5 – 4) – Violazione, sotto altro aspetto, delle stesse norme e principi sul giudizio di rinvio. Violazione dei limiti e dei vincoli posti dalla sentenza di cassazione. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa altri punti decisivi della controversia. Violazione dell’art. 2697 cod. civ., dell’art. 115 c.p.c. e dei principi relativi all’onere della prova ( art. 360 c.p.c., n. 3, n. 4, n. 5), per avere erroneamente la sentenza impugnata, nonostante che la sentenza di rinvio avesse rilevato l’omesso esame di punti essenziali nel calcolo dei costi di produzione, affermato che il calcolo adottato dalla Corte d’Appello non conteneva alcuna omissione, in quanto nessuna voce di passività era stata esclusa; con ciò andando oltre i limiti del giudizio di rinvio e adottando, comunque, nel merito soluzioni prive di fondamento e immotivate in ordine alla reale incidenza degli sfridi, delle spese di assicurazione e trasporto oltremare, alle spese di commercializzazione, agli oneri fiscali e alle spese generali, diverse e impreviste;
5.6 – 5) – Violazione, sotto altro aspetto, delle stesse norme e principi sui limiti del giudizio di rinvio. Violazione dei limiti imposti dalla sentenza di cassazione. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa altri punti decisivi della controversia (art. 360, n. 4 e n. 5, c.p.c.), per avere la sentenza impugnata, nonostante che la decisione di rinvio avesse rilevato l’omesso esame del punto decisivo inerente al costo del capitale circolante necessario per l’esercizio degli impianti e a quello delle opere di avviamento, affermato che di nessun costo d’avviamento si doveva tener conto per essere stato il prezzo dell’impianto comprensivo di ogni spesa di installazione (cosiddette “chiavi in mano”), così trascurando tutte le altre voci diverse dall’installazione ma pur incidenti (acquisto e sistemazione dei terreni e degli edifici industriali occorrenti, riattivazione della miniera etc. etc.); ed aver calcolato il costo del capitale circolante seguendo acriticamente la consulenza d’ufficio, senza considerare la più elevata necessità di capitale delle imprese minerarie ed i più realistici tassi di interesse passivo indicato dai consulenti di parte;
5.7 – 6) – Violazione delle norme e dei principi sul giudizio di rinvio. Omessa pronuncia su punti deferiti dalla Cassazione all’esame del giudice di rinvio. Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa altri punti decisivi della controversia (art. 360, n. 4 e n. 5, c.p.c.), per avere la sentenza impugnata omesso totalmente di riesaminare le questioni di cui al punto 16 del precedente ricorso per cassazione ancorché per questa parte accolto dalla sentenza di annullamento;
5.8 – 7) – Violazione, sotto altro aspetto, delle stesse norme e principi sui limiti del giudizio di rinvio. Violazione dei vincoli imposti dalla sentenza di Cassazione. Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa altri punti decisivi della controversia. Violazione dell’art. 90, comma 3, disp. att. c.p.c. ( art. 360, n. 4 e n. 5, c.p.c.).
Si addebita, essenzialmente, alla sentenza impugnata:
a) di non essersi occupata degli specifici rischi inerenti alla ipotizzata impresa minero-metallurgica, ancorché la precedente sentenza di appello fosse stata (in parte) cassata propri o perché priva sul punto di adeguata motivazione;
b) di non avere giustificato in alcun modo la scelta di adottare una soluzione mediana tra le diverse stime proposte dai periti;
c) di aver utilizzato la stima del prof. Ferri (che aveva abbassato al 9% il tasso di capitalizzazione, commettendo numerosi errori), malgrado la (pretesa) irriducibilità del tasso (10%, risultante dal cosiddetto tasso di riposto e dalla sola maggiorazione per il rischio generico di impresa) fissato dalla prima sentenza di appello e non toccato dalla pronuncia cassatoria;
d) di non aver, al contrario, utilizzato tale stima nella parte relativa alle percentuali di maggiorazione del tasso base in ragione dei rischi specifici sopra menzionati;
e) di non aver dato peso al fatto che per la determinazione del tasso assunto i consulenti si erano largamente avvalsi di elaborati e documenti prodotti dalla Banca e non comunicati alle altre parti, così violando l’art. 90, comma 3, disp. att. c.p.c.;
f) di aver, infine, contenuto nel “misero aumento” del solo 0,5%, rispetto alla prima sentenza di appello, la valutazione degli ulteriori rischi.
5.9 – 8) – Violazione sotto altro aspetto, delle stesse norme e principi sui limiti del giudizio di rinvio. Violazione dei limiti imposti dalla sentenza di cassazione. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa altri punti decisivi della controversia (art. 360, n. 4 e n. 5, c.p.c.), per avere la sentenza impugnata, senza motivazione e ancorché non autorizzata dalla decisione di annullamento, introdotto per i primi tre anni relativi all’avvio della produzione un tasso diverso e più ridotto di quello riferito al restante periodo di durata dell’impresa, incorrendo, inoltre, in vizio logico, poiché non è pensabile che nel periodo di attesa della produzione il rischio dell’investimento sia minore di quello del periodo di pieno svolgimento dell’attività;
5.10 – 9) – Violazione, sotto altro aspetto, delle stesse norme e principi sui limiti del giudizio di rinvio. Violazione dei vincoli imposti dalla sentenza di Cassazione. Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa altri punti decisivi della controversia (art. 360, n. 4 e n. 5, c.p.c.) per avere la Corte di rinvio, illogicamente e contraddittoriamente (dopo aver affermato che, non essendo inclusi nelle spese di coltivazione gli oneri di ammortamento, il valore degli impianti non poteva essere aggiunto al valore dell’azienda ottenuto con la capitalizzazione del suo presunto reddito), sommato al valore di stima un importo pari al 50% di quello indicato, nella sentenza d’appello, come valore degli impianti, nonché ulteriori voci (rottami, aree di sedime e materiale astratto) che, sostanzialmente, duplicavano la prima e davano luogo ad altre incongruenze, tra le quali il computo, inammissibile, del materiale estratto (non preso in considerazione dalla prima sentenza di appello) e del sedime già incluso nella valutazione del reddito;
5.11 – 10) – Violazione dell’art. 112 c.p.c. Pronuncia “ultra petita”. Violazione degli artt. 183 e 184 c.p.c. e del divieto di “mutatio libelli”. Violazione dell’art. 392 c.p.c. Illogicità della motivazione (art. 360, n. 4 e n. 5, c.p.c.), per avere la sentenza impugnata pronunciato su una domanda nuova – e, pertanto, inammissibile – proposta dalla Banca, la quale aveva, nell’atto di riassunzione, richiesto una decisione ricognitiva di un giudicato asseritamente già formatosi per una parte delle sue spettanze ed aveva, quindi, in sede di conclusioni, radicalmente mutato la “causa petendi”, ponendo a base della propria domanda esclusivamente il titolo originario del rapporto;
5.12 – 11) – Violazione degli artt. 383 e 392 c.p.c. e dei principi generali sui limiti del giudizio di rinvio (art. 360, n. 4, c.p.c.), per avere la sentenza impugnata omesso di riprendere in considerazione, perché ritenuti erroneamente autonomi, gli elementi già valutati nelle precedenti fasi del giudizio, che non erano stati oggetto dei rilievi di questa Corte, inerenti al “se” ed al “quanto” dell’ipotetico utile da capitalizzare, trattandosi di elementi strettamente connessi a quelli censurati, per cui non potevano sfuggire all’esame complessivo del giudice di rinvio;
5.13 – 12) – Violazione degli artt. 1283, 2043, 2056, 1223 c.c. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia ( art. 360, n. 3 e n. 5, c.p.c.), per avere la sentenza impugnata, in contrasto col divieto di anatocismo, attribuito alla Banca gli interessi compensativi, a decorrere dal 26 aprile 1976, anche sull’importo degli interessi maturati sulla parte di rivalutazione eccedente il 5% all’anno dell’equivalente delle azioni Lokris al 1953, e per avere aprioristicamente, e non valutando secondo le concrete esigenze di equità, attribuito gli interessi compensativi sull’equivalente del valore delle azioni rivalutato al 1976 (sul punto il ricorso è condizionato all’accoglimento del ricorso avversario);
5.14 – 13) – Violazione dell’art. 2043 c.c. Violazione degli artt. 383, 389 c.p.c. e dei principi relativi agli effetti della sentenza di cassazione. Violazione dell’art. 278 c.p.c. e dei principi in tema di condanna generica. Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia ( art. 360 c.p.c., n. 3, n. 4 e n. 5). Premesso che, con la sentenza di rinvio n. 4823 del 1986, questa corte di cassazione aveva ritenuto che non si possa, in principio, escludere la potenzialità dannosa del provvedimento ablativo di un credito accertato nell’an e quantificato in una decisione di appello impugnata con ricorso per cassazione, si addebita al giudice del merito di aver dato per scontata la esistenza del fondamento oggettivo (attitudine lesive del fatto illecito) della domanda di condanna generica al risarcimento del danno dedotto, sottraendosi così all’obbligo di accertarne i presupposti e omettendo, in particolare, di considerare che, successivamente alla sentenza citata, questa Corte, con la sentenza n. 6418 del 1986, aveva annullato (“ex tunc”) la sentenza di appello del 1976 che aveva liquidato il credito poi confiscato, con la conseguenza che non sarebbe stato più configurabile alcun diritto della Banca di disporre delle somme oggetto della condanna annullata (e, quindi, “mai giuridicamente esistita”), sì che l’unico danno ipotizzabile sarebbe quello derivante dal ritardo nella (eventuale) nuova liquidazione: danno – si aggiunge – non dovuto al provvedimento di confisca e, comunque, non risarcibile due volte, per modo che la Banca, conseguito il risarcimento del danno da ritardo, non potrebbe pretendere di essere ulteriormente risarcita per non aver potuto riscuotere prima il controvalore delle azioni sottratte;
5.15 – 14) – Violazione e falsa applicazione degli artt. 324, 336 c.p.c. e dei principi in tema di preclusione e di giudicato interno. Violazione dell’art. 2043 c.c. e dei principi generali sulla responsabilità per colpa. Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia ( art. 360 c.p.c., n. 3, n. 4 e n. 5).
Il ricorrente sostiene che ha errato la Corte di appello nell’escludere la scriminante dell’errore scusabile (e, quindi, la colpa) dell’Amministrazione relativamente al provvedimento di devoluzione all’Erario del credito ceduto, traducendosi l’esclusione nella ingiustificata adozione per la P.A. (e solo per essa) di un criterio di imputazione della responsabilità puramente oggettivo, essendo per ogni altro soggetto richiesto il requisito della colpa, ex art. 2043 c.c. perché se ne configuri la responsabilità.
Motivi della decisione
I due ricorsi vanno, anzitutto, riuniti (art. 335 c.p.c.).
Ricorso Principale.
Il primo motivo è fondato per le ragioni ampiamente esposte dalla ricorrente e qui condivise, non essendo, in primo luogo, effettivamente configurabile a suo carico alcun onere di ricorrere per cassazione contro la sentenza di appello dal 1976, nella parte in cui ne aveva accolto la richiesta di rivalutare l’ammontare della “aestimatio” del danno (riferita al 1953/1954) tenendo conto della successiva svalutazione monetaria fino alla data della decisione (e, quindi, della liquidazione: “taxatio”), atteso che sul punto la Banca era risultata completamente vittoriosa e, dunque, non tanto era esentata dall’onere di impugnare la sentenza citata, quanto non avrebbe potuto impugnarla, a pena di inammissibilità dell’eventuale gravame per difetto di soccombenza e di interesse; in disparte il rilievo (non del tutto pertinente) che la richiesta di ulteriore rivalutazione della somma liquidata a titolo di risarcimento in appello non può essere, certo, proposta al giudice di legittimità, implicando la relativa decisione indagini di fatto istituzionalmente riservate al giudice del merito.
Ne deriva che, nella situazione data, è, scopertamente, un fuor d’opera parlare di acquiescenza del litigante vittorioso al tetto massimo dell’equivalente pecuniario liquidato dalla sentenza ridetta, con la conseguenza che, in assenza di giudicato e di comportamenti del danneggiato abdicativi o, comunque, incompatibili con la volontà di conseguire l’ulteriore rivalutazione, il giudice del rinvio avrebbe dovuto di quest’ultima darsi carico, eventualmente anche d’ufficio (v., tra le altre, Cass. n. 3146 del 1989, Cass., n. 5465 del 1988, Cass. n. 3798 del 1983), posto che, da un lato, la rivalutazione monetaria altro non rappresenta che il mezzo di attualizzazione, alla data della decisione, dell’ammontare del debito di valore fatto valere (Cass. n. 6209 del 1990) e che questo, dell’altro, in mancanza di determinazioni pattizie, si converte, notoriamente, in debito di valuta (non suscettibile “ex se” di rivalutazione) solo per effetto del (e a partire dal) passaggio in giudicato della sentenza che provvede alla liquidazione (v., tra le tante, Cass. n. 5465 del 1988, Cass. n. 3315 del 1985, Cass. n. 4593 del 1984, Cass. n. 4214 del 1982, Cass. n. 6673 del 1981, Cass. n. 3381 del 1980).
Il che comporta che, nel caso di rescissione, in tutto o in parte, della sentenza di merito e di prosecuzione del giudizio, il giudice del rescissorio deve procedere alla riliquidazione del danno, tenendo conto (anche) della svalutazione sopravvenuta fino alla data della decisione a lui demandata. Fondato è anche il secondo motivo.
Deve convenirsi, infatti, che sulla individuazione della base di calcolo (somma finale rivalutata) dei cosiddetti interessi compensativi (nell’accezione consueta alla giurisprudenza dominante e definiti “moratori” dalla Corte territoriale), dovuti a far tempo dalla data dell’evento dannoso, si era formato il giudicato interno (rilevabile d’ufficio anche in questa sede di legittimità) in forza della conforme statuizione contenuta nella sentenza di appello del 1976 (confermativa, al riguardo, della decisione di primo grado), sul punto specifico non impugnata dalle Amministrazioni, né, di conseguenza, incisa dalla sentenza di annullamento del 3 novembre 1986 e, dunque, vincolante per il giudice del rinvio.
Il quale, quindi, non avrebbe potuto, senza disattendere il giudicato, privilegiare una base di calcolo diversa (modellata sulla sentenza n. 6209 del 1990 citata) da quella ormai irretrattabilmente fissata dalle pregresse sentenze di merito nella somma finale rivalutata (conviene ripeterlo), ancorché suscettibile di eventuali modificazioni quantitative per effetto (riflesso) delle perduranti contestazioni sulla “aestimatio” (questa sì davvero “sub iudice”) non influenti, con piena evidenza, sulla tipologia (unicamente decisiva) della base di calcolo anteriormente adottata, quale parametro di commisurazione degli interessi di cui si discute, indipendentemente dalla sua concreta quantificazione, sulla quale, al contrario, la Corte del rinvio ha preferito, sbagliando, porre l’accento per coonestare la propria tesi circa l’asserita inesistenza del giudicato e optare, quindi, muovendo dalla supposta libertà di decidere autonomamente la questione, per una base di calcolo tipologicamente diversa.
Né meno palese è la violazione del giudicato relativo alla natura compensativa degli “interessi” considerati e alla loro cumulabilità (pura e semplice) con la somma (finale) rivalutata. Su entrambe le questioni la sentenza del 1976 si era pronunciata, infatti, con chiarezza, statuendo che “sulla somma come sopra rivalutata dovranno essere, inoltre, corrisposti gli interessi legali dal momento dell’evento dannoso” e citando espressamente, a conforto, Cass., 16 marzo 1965, n. 447, la quale, uniformandosi alla consolidata giurisprudenza di legittimità, aveva, a sua volta, statuito che “gli interessi sulle somme liquidate a titolo di danni causati da fatto illecito hanno natura compensativa e decorrono dal giorno in cui l’evento dannoso ebbe a verificarsi, anche nel caso che nella liquidazione si sia tenuto conto della svalutazione monetaria”.
Non può, quindi, condividersi l’assunto del giudice di rinvio secondo cui la sentenza del 1976 avrebbe omesso “ogni indicazione” sulla natura degli interessi sotto esame e che egli sarebbe stato, perciò, libero di qualificarli diversamente al dichiarato fine di ridurne la cumulabilità con la rivalutazione, limitando quest’ultima alla parte del danno non risarcita dall’attribuzione degli interessi, in applicazione – e mediante una disinvolta trasposizione ai debiti di valore – dei principi elaborati sul tema dalla più recente giurisprudenza di questa Corte relativamente alle modalità di risarcimento dei danni derivanti dall’inadempimento di obbligazioni pecuniarie (v., per tutte, Cass. n. 5294 del 1989, Cass. n. 260 del 1988); senza trarre, per di più, le dovute conseguenze dal fatto (pur ammesso) che i cosiddetti interessi compensativi (“moratori” nel lessico delle sentenza impugnata) relativi a debiti di valore non sono, in realtà, veri e propri interessi, ma solo uno dei possibili mezzi tecnici pretoriamente adottato dalla giurisprudenza maggioritaria (in mancanza di una sicura fonte normativa cui ricondurre il riconoscimento di interessi in ordine a debiti siffatti e all’obbligazione risarcitoria in particolare, non essendo l’art. 1224 c.c. richiamato dal successivo art. 2056 c.c.) per risarcire il danneggiato della perdita di quelle utilità, economicamente apprezzabili, che “medio tempore” (nel tempo, cioè, intercorso tra la consumazione dell’illecito e la liquidazione finale) egli avrebbe potuto trarre, nei debiti cosiddetti di cosa, dal bene reale, se non ne fosse stato illecitamente privato e alla cui restituzione in natura avrebbe astrattamente diritto, o (secondo più diffuse espressioni giurisprudenziali, appropriatamente riferibili, però, solo ai debiti di valore veri e propri) dall’equivalente pecuniario (rivalutato o non a stregua di variabili opzioni tra le quali ha inteso mediare Cass. n. 6209 del 1990 citata) del bene stesso, se gli fosse stato tempestivamente corrisposto.
Individuata, così, la funzione dei cosiddetti interessi compensativi nella copertura di una componente del danno globale di risarcire (Cass. n. 3888 del 1985, Cass. n. 3986 del 1980, Cass. n. 5333 del 1979), non a torto le Amministrazioni sostengono che essi non possono formare oggetto di capo di condanna autonomo rispetto a quello avente per oggetto la somma capitale e, dunque, che non è riguardo ad essi ipotizzabile un distinto giudicato di condanna; ma ciò non toglie che, all’interno dell’unico processo, il giudicato si possa formare, come nella specie è avvenuto, in ordine alla enunciazione dei criteri di determinazione del danno considerato.
Conviene piuttosto esplicitare che il pericolo di distorsioni della funzione restauratrice propria dell’obbligazione risarcitoria denunciato dai controricorrenti, in riferimento al nuovo tasso legale del 10%, non si profila nel caso concreto, non essendo il nuovo tasso applicabile agli “interessi” compensativi destinati, nella specie, ad integrare l’ammontare del risarcimento (fino al passaggio in giudicato della decisione), proprio perché la precedente sentenza di merito ha adottato recettiziamente gli interessi legali (al tasso allora in vigore) non in quanto tali ma quale criterio di liquidazione del particolare tipo di danno, con conseguente insensibilità del parametro prescelto alle variazioni sopravvenute. Non è, invece, fondato il terzo motivo, anche se sulla sottostante questione la motivazione della sentenza impugnata deve essere corretta.
La ricorrente lamenta che non le sono stati attribuiti, ancorché richiesti, gli interessi moratori sui cosiddetti interessi compensativi; ma se, come rimarcato nell’esame del precedente motivo, questi ultimi non sono veri e propri interessi, costituendo solo il mezzo tecnico normalmente adottato per risarcire il danno da ritardo nel conseguimento del bene dovuto (bene reale o equivalente pecuniario), pianamente ne deriva che essi non possono produrre interessi (di qui la irrilevanza dell’eventuale domanda), nella mancanza (anch’essa già sottolineata) di una specifica previsione normativa del relativo riconoscimento in ordine ai debiti di valore. Fondato in massima parte è il quarto motivo. Le carenze motivazionali più evidenti, fondatamente addebitate dalla ricorrente alla sentenza impugnata, consistono, in primo luogo, nel non aver considerato che, avendo il consulente d’ufficio prof. Stragiotti ammesso di essersi sbagliato nell’aver in precedenza determinato il cosiddetto tasso di riposo senza tener conto dell’inflazione, esso, per effetto di quest’ultima, si sarebbe dovuto correlativamente abbassare, con conseguente riduzione del dipendente tasso di attualizzazione del reddito delle azioni Lokris; in secondo luogo, nell’aver mediato aritmeticamente, con motivazione non appagante, i tassi di attualizzazione separatamente adottati dal prof. Stragiotti e (in misura minore) dal prof. Ferri, senza privilegiare, quindi, esclusivamente la determinazione di quest’ultimo, in ragione delle sue specifiche attitudini professionali (non possedute dal prof. Stragiotti) di esperto tecnico-commerciale o attribuirle, comunque, un peso coerentemente maggiore, per modo da indurre, quanto meno, all’adozione di una media ponderata.
Per questa parte il mezzo deve essere, quindi, accolto, non potendosi accedere alla tesi delle Amministrazioni controricorrenti secondo la quale il giudice del rinvio non avrebbe potuto determinare il tasso di attualizzazione in misura inferiore al 10% fissato nella prima sentenza di appello, in quanto solo da esse (Amministrazioni) impugnata per omesso esame (tra l’altro) di elementi idonei ad elevarlo congruamente e non potendo, perciò, neppure la Banca, non impugnante, legittimamente aspirare alla determinazione di un tasso minore.
Devesi, all’opposto, rilevare, come più estesamente si dirà in prosieguo, che, da un lato, l’annullamento della sentenza per difetto di motivazione non impone, di norma, al giudice del rinvio che l’obbligo di non ripetere il vizio già censurato e, dall’altro, che, se all’esito di ulteriori indagini ritualmente disposte, risultino acquisiti al processo nuovi elementi di valutazione, non è vietato alle parti di adeguarvi le proprie conclusioni (anche finali o di merito), ancorché non coincidenti con quelle prese in precedenza, dato che il divieto di conclusioni nuove ( art. 394 c.p.c.), correlato al carattere “chiuso” del giudizio di rinvio, postula una causa “matura” nella fase in cui fu pronunciata la sentenza poi cassata, sì che, ove nella fase prosecutoria la causa si riveli, invece, non completamente istruita e si renda, perciò, necessario l’espletamento di indagini suppletive che diano luogo a mutamenti del panorama istruttorio in base al quale furono assunte le conclusioni nel primo giudizio di appello, non ha senso ritenere che esse debbano, ciò non ostante, rimanere ferme, ancorché il quadro di riferimento sia mutato, e che alle parti sia, quindi, precluso il “ius variandi”, la cui ammissibilità costituisce, al contrario, il naturale risvolto delle nuove acquisizioni, altrimenti sterili, malgrado che ne sia stata avvertita l’esigenza.
Di qui, nel caso di specie, la utilizzabilità, sia da parte del giudice che delle attrici, del tasso di attualizzazione proposto dal prof. Ferri, nominato in sede di rinvio (sulla ritualità della consulenza tecnica disposta in tale sede v. Cass. n. 4644 del 1989), o di altro tasso, proprio al fine di acquisire, al riguardo, elementi di valutazione più attendibili di quelli preesistenti. A questo punto appare opportuno sottolineare che spesso, negli atti di causa, è dato rilevare una confusione terminologica tra i vocaboli “attuazione”, e “capitalizzazione” e che tale confusione finisce per l’alimentare fuorvianti argomentazioni. Una cosa, infatti, è parlare di tasso di capitalizzazione, che è il tasso da applicarsi allorquando si voglia determinare, nel suo valore complessivo ed alla fine d’un certo numero di anni, il valore montante di un flusso di redditi capitalizzati anno per anno (per tutto il periodo che va da una data cosiddetta di riferimento, ad esempio il 30 settembre 1953, alla data in cui si vuole determinare il suddetto valore complessivo), prodotti da un’attività economica, in ogni esercizio, ininterrottamente e a partire da un anno dato, dopo un certo numero di anni (e che attiene, quindi, al procedimento da adottarsi per valutare “ad oggi”, cioè all’anno finale, il complessivo valore di tale serie di redditi).
Altra cosa, invece, è parlare di tasso di attualizzazione, che è il tasso da applicarsi allorquando si voglia determinare, all’inizio del periodo da contemplarsi, il valore complessivo, a tale epoca, d’un flusso di redditi aventi le medesime caratteristiche di cui sopra, che verrà a prodursi negli anni futuri. Esso, quindi, attiene al procedimento da applicarsi allorquando si voglia valutare il complessivo valore della serie di redditi in questione (e quindi il valore d’un flusso futuro di redditi maturandi nel periodo di cui trattasi), alla data di riferimento, e cioè all’anno iniziale (che è, nel caso di specie, il 30 settembre 1953).
Infatti soltanto con l’applicazione del tasso di attualizzazione è possibile accertare il totale valore, alla data iniziale del periodo in questione, della somma dei redditi che ne costituiscono il flusso per tutto il periodo di riferimento: in quanto il tasso di attualizzazione, procedendo allo sconto/attualizzazione di un reddito annuo, costante, attribuibile a ciascuna delle annualità del periodo consente di riportare il valore del flusso alla data iniziale del periodo di riferimento. Al riguardo, inoltre, sembra non superfluo ricordare che la scienza finanziaria segue due criteri per la determinazione della misura del tasso di attualizzazione alla data iniziale del periodo di riferimento, da utilizzarsi per pervenire al valore complessivo d’un determinato flusso di redditi che verrà a prodursi negli anni futuri.
Essi sono i seguenti:
a) quello di determinarla adottando il tasso ricavabile (rendimento) dai titoli dello Stato a lungo termine, nella cui valuta viene effettuato l’estimo dell’azienda (che corrisponde al tasso degli investimenti senza rischio o tasso di riposo), maggiorato degli elementi specifici di rischio tipici della fattispecie cui il tasso di attualizzazione debba riferirsi (rischio generico di impresa, rischio specifico di comparto industriale/commerciale cui l’impresa afferisce a rischio particolare dell’impresa ipotizzata), al netto dell’inflazione;
b) quello di determinarla adottando una media ponderata (che comprende i suddetti elementi generici, specifici e particolari di rischio dell’impresa) del tasso di interesse o rendimento ricavabile dai titoli di Stato a lungo termine, nella cui valuta viene effettuato l’estimo dell’azienda (tasso di riposo), del tasso di interesse sulle obbligazioni delle maggiori imprese private, industriali e commerciali quotate in Borsa, dello stesso genere di quella considerata (la contabilizzazione dei costi, dei ricavi e degli utili delle quali venga effettuata nella medesima valuta in cui sia stato effettuato l’estimo dell’azienda costituente l’oggetto della valutazione) e degli indici cosiddetti E/P o P/E (Earnings/Price ratio o Price/Earnings ratio) e D/P (Dividends/Price ratio) delle suddette maggiori imprese private, estrattive e commerciali, al netto della inflazione: il primo, per una quota parte (“peso relativo”) del 50%, il secondo per una quota parte del 30% e gli ultimi due per una quota parte del 10% ciascuno e complessivamente del 20%.
In ambedue i casi, perciò, tenendo conto esclusivamente delle maggiorazioni di rischio non considerate tra quelle tenute presenti in sede di determinazione dell’utile aziendale, perché altrimenti si determinerebbe una irragionevole duplicazione concettuale e contabile. Parimenti fondate, per assoluta mancanza di motivazione, sono le rimanenti censure di cui il mezzo si nutre (e cioè la censura concernente l’avvenuta utilizzazione, ai fini della determinazione del tasso di attualizzazione, di parametri concernenti il rendimento dei titoli di Stato od azionari italiani e quella concernente la mancata considerazione dell’effetto “trend” dei prezzi relativi al nichel), fatta eccezione per l’ultima, non avendo, quanto a questa, la ricorrente dimostrato che l’adozione di un procedimento diverso da quello criticato avrebbe condotto ad un risultato per lei più vantaggioso e non potendosi, perciò, attribuire al denunciato vizio, supposto che esista, carattere di decisività.
Infatti, per quel che si riferisce alla censura concernente l’avvenuta utilizzazione di parametri riflettenti il rendimento dei titoli di Stato od azionari italiani, in luogo dei parametri riguardanti i rendimenti di titoli di Stato od azionari in dollari U.S.A., in sede di determinazione del tasso di attualizzazione (a fronte dell’utilizzazione del dollaro U.S.A., ai fini della fissazione dell’utile annuo, da moltiplicarsi per il fattore corrispondente all’adozione del tasso prescelto), la contraddizione tra il criterio usato per la fissazione dell’utile ed il criterio usato per l’adozione del tasso è evidente.
Dal momento che appare incontrovertibile che, ove il procedimento estimativo abbia stabilito in dollari U.S.A. (per motivi giustificati dalla tipicità delle attività imprenditoriali e commerciali dell’azienda sottoposta ad estimo), l’entità del suo utile annuo (e cioè dell’ammontare dell’utile che va moltiplicato per il cosiddetto fattore corrispondente al tasso di attualizzazione prescelto), per pervenire, con il metodo del cosiddetto utile prospettico, alla determinazione del complessivo valore della impresa (e di poi, con l’incremento degli eventuali valori patrimoniali residui, alla determinazione del complessivo valore del capitale azionario della società titolare dell’impresa), i soli valori da prendere in considerazione per la fissazione del tasso di attualizzazione non possono che essere i valori (titoli di Stato a lungo termine, obbligazioni delle imprese private quotate in Borsa ed indici E/P o D/P) e i tassi espressi nella medesima valuta, sui mercati finanziari denominati in dollari U.S.A., rilevabili storicamente per il periodo intercorrente tra la data di riferimento e lo scadere dei ventinove anni successivi.
Diversamente, si utilizzerebbero, irragionevolmente, due criteri non omogenei in relazione a due fasi distinte, ma conseguenti la seconda alla prima, del medesimo procedimento estimativo; con la conseguenza che si verrebbe a determinare una disparità di peso o di trattamento finanziario tra il criterio utilizzato con l’adozione del dollaro U.S.A., per la determinazione dell’utile annuo, e il criterio utilizzato per la determinazione del suo tasso di attualizzazione, con l’aggancio a valori espressi in una valuta diversa.
Inoltre, per quel che si riferisce alla mancata considerazione dell’effetto “trend” dei prezzi del nichel, la correlativa censura è anch’essa irrefutabile. Infatti, se è vero l’estimo è stato effettuato a valori costanti, sia in relazione ai ricavi che ai costi aziendali, e che quindi l’effetto “trend” non avrebbe potuto portare a credito dei ricavi, senza scardinare l’intera impostazione estimativa, è altrettanto vero che esso avrebbe dovuto essere considerato a riduzione del tasso di attualizzazione, come elemento decrementativo di esso in via o di eliminazione delle maggiorazioni di rischio prese a componenti maggiorative del tasso medesimo o di una loro decurtazione a livelli ben più consistenti, qualunque sia il criterio suggerito dalla scienza finanziaria: e cioè il criterio del tasso di riposo, maggiorato degli elementi specifici di rischio, tipici della fattispecie (rischio generico d’impresa, rischio specifico del comparto e rischio specifico dell’azienda considerata o il criterio della cosiddetta “media ponderata del Prof. Franco Modigliani”, cui il giudice di rinvio potrebbe eventualmente adeguarsi per la determinazione del tasso di attualizzazione nel caso di specie, tenendo in considerazione, esclusivamente e nelle quote parti su cui ci si è soffermati in precedenza, i tassi di rendimento dei titoli di Stato a lungo termine, espressi in dollari U.S.A., i tassi di interesse corrisposti sulle obbligazioni (sempre espressi in dollari U.S.A.) delle aziende le cui attività si svolgano in dollari U.S.A., nel settore dell’industria minerario/estrattiva e della commercializzazione delle correlative materie prime (tutti al netto dell’inflazione riferita agli Stati Uniti) e gli indici di redditività E/P o P/E e D/P delle suddette aziende estrattive e commerciali, sempre al netto della specifica inflazione.
Dal che deriva la reiezione della terza censura, essendo irrilevante il momento in cui venga trasformato il dollaro U.S.A., in lire italiane, allorquando si siano correttamente seguiti gli indirizzi estimativi di cui sopra. Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere cassata, in relazione alle censure accolte: il quinto motivo è, pertanto, assorbito.
Ricorso Incidentale.
Il primo motivo non è fondato. Devesi, anzitutto, precisare che la denunciata sentenza non disconosce affatto che la Lokris fosse titolare solo in parte del diritto di proprietà quanto alle concessioni 8/b e 105/a, ma rileva che essa, potendo disporre a titolo locatizio e (congiuntamente) in forza delle proprie partecipazioni azionarie nelle società concessionarie, anche delle parti residue, aveva la disponibilità economica dell’intero giacimento.
Non avrebbe avuto, quindi, senso discutere, in questo contesto, delle supposte percentuali sulle quali i ricorrenti insistono. Deve aggiungersi che a non diversa conclusione era pervenuta anche la prima sentenza di appello senza, peraltro, adeguata motivazione e per questo censurata dalla pronuncia cassatoria con argomentazioni delle quali non è qui il caso di discutere la pertinenza, ma, comunque, non tali da precludere al giudice del rinvio (per le ragioni che saranno in seguito convenientemente esposte) di approdare allo stesso risultato emendato del precedente vizio, sulla base di rinnovate valutazioni, concretatesi, nel caso specifico, nella motivata rilevanza esplicitamente attribuita alle locazioni stipulate dalla Lokris per conseguire, col concorso del suo diritto di proprietà e delle sue partecipazioni azionarie, la disponibilità dell’intero giacimento: locazioni in ordine alla ritenuta esistenza delle quali non si riscontra il dedotto difetto di motivazione, essendo state esse incesurabilmente desunte “dagli elementi di giudizio acquisiti in causa e dagli esatti rilievi contenuti nella consulenza tecnica esperita nel giudizio di rinvio”, al punto che i relativi oneri sono stati espressamente inclusi dalla Corte del merito tra i costi di gestione. Infondato è anche il secondo motivo.
Deve premettersi, quanto alle questioni con esso evocate, che la pronuncia censoria aveva riscontrato nella sentenza cassata carenza di adeguata motivazione in ordine alla “prevedibile, necessaria obsolescenza delle attrezzature, soggette a rinnovazione prima dello scadere del periodo di durata (ventisei anni) del complesso minero-metallurgico, con inevitabile aumento dei costi”.
Ora, il fatto che, a causa della rilevata (e innegabile) obsolescenza, le attrezzature potessero essere soggette in parte, grande o piccola che sia, a rinnovazione non vuol, con ogni evidenza, significare che esse dovessero essere ineluttabilmente rinnovate, bensì che la loro rinnovazione era da comprendere tra gli interventi possibili per preservare la funzionalità dell’impresa, senza escludere, quindi, che a questo fine potessero essere adottate misure alternative non radicalmente sostitutive, identificabili (e identificate), specificamente, in interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, dei quali la Corte del merito, tolte astratte ridondanze argomentative, s’è data doverosamente carico, senza per questo disattendere il “dictum” della sentenza di rinvio, ma muovendosi correttamente nell’ambito dello spazio valutativo assegnatole e pervenendo, nel merito, a conclusioni congruamente motivate sulla base di coerenti apprezzamenti di fatto contro i quali si infrangono le residue critiche contenute nel mezzo.
Parimenti infondato è il terzo motivo.
In disparte la scarsa verosimiglianza della dedotta acquiescenza tacita (anch’essa negozio giuridico processuale, secondo la giurisprudenza, e, quindi, non immune dall’indagine sulla intenzione del soggetto a cui viene imputata: Cass. n. 874 del 1981) da parte della Banca al tasso di produzione annua della lega (85%) proposto dalla relazione tecnica di maggioranza e ritenuto anche dalla prima sentenza di appello troppo basso, ancorché, per errore di somma, riemerso nella stessa sentenza in sede di determinazione del costo di produzione annua (cui per questa parte l’attrice si sarebbe tacitamente acquietata), dirimente è il rilievo che la contraddizione col tasso effettivo di produzione, determinato nel 90% dal giudice del rinvio, è stata da quest’ultimo, pragmaticamente, “sanata” mediante una tecnica (riduzione, suggerita dai consulenti d’ufficio, della valutazione delle incertezze e dei rischi connessi al trattamento metallurgico nel calcolo del tasso di attualizzazione) la cui anomalia è indiscutibile, ma priva di concreta rilevanza, non essendone stata dimostrata dai ricorrenti la potenziale decisività (o causalità), non essendo stato dimostrato, cioè, che essa si sia tradotta in un risultato decisionale per essi meno favorevole di quello ottenibile mediante l’adozione, pura e semplice, del tasso di produzione minore. Il che può essere vero ed è, ovviamente, supposto dalla Amministrazione, ma non può essere da questa Corte affermato, contrariamente l’ipotetico giudizio di (virtuale) decisività dei vizi denunciati risulterebbe privo di coerente base argomentativa.
Ne deriva che il motivo è, in tutte le sue articolazioni, inammissibile per omessa dimostrazione del correlato interesse.
Il quarto e il quinto motivo possono essere esaminati congiuntamente, essendo entrambi incentrati su due tipi di censure concernenti, rispettivamente, una pretesa ribellione del giudice di rinvio alla sentenza di annullamento e, nel merito, asserite inadeguatezze motivazionali in ordine ai punti controversi. Sotto l’uno e l’altro profilo le censure sono infondate: quelle del primo tipo muovono, essenzialmente, dall’errata premessa che il rilievo, contenuto nella pronuncia cassatoria, di omesso esame di alcune voci, in thesi, iscrivibili tra i costi di produzione debba intendersi come imposizione al giudice di rinvio dell’obbligo, ineludibile, di includerle tra questi ultimi, con la conseguenza che egli, non avendo ciò fatto, avrebbe inammissibilmente disatteso il “dictum” di questa Corte regolatrice. Ma non è così: la disposizione dell’art. 360, n. 5, c.p.c. conferisce al giudice di legittimità solo il potere-dovere di controllare sotto il profilo logico-formale l’adeguatezza della motivazione esibita dalla sentenza impugnata in ordine a fatti o eventi ritenuti potenzialmente decisivi, non già di pronunciarsi sulla loro “storicità”, di dire, cioè, se essi sono o non sono veri; dovrà egli, dunque, limitarsi ad accertarne la virtuale decisività, se veri; diversamente si trasformerebbe in un giudice di merito, al quale nel sistema il giudizio sulla storicità è, in principio, demandato.
È ampiamente noto, infatti, che, come in precedenza osservato, dalla sentenza di annullamento per difetto di motivazione sorge per il giudice del rinvio il divieto di ripetere il vizio già censurato, non anche il vincolo di adottare una certa soluzione a preferenza di altre possibili, fruendo egli, nei limiti segnati dall’art. 394 c.p.c., di piena libertà nell’apprezzamento dei fatti di causa già accertati o ulteriormente accertabili e ponendo, perciò, ridecidere eventualmente allo stesso modo – emendato, naturalmente, dal vizio pregresso – del precedente giudice (v., tra le tante, Cass. n. 13831 del 1991, Cass. n. 643 del 1990, Cass. n. 3542 del 1987).
Questi principi sono stati, nel caso di specie, rispettati dalla sentenza impugnata, alla quale, per tanto, si rimprovera a torto di aver disatteso i “dicta” della pronuncia cassatoria, che risultano, al contrario, pienamente osservati dal giudice del rinvio, avendo egli esteso il proprio esame alle voci “obliterate” (non esaminate) dalla prima sentenza di appello, delle quali ha, dunque, “tenuto conto”, esaminandole appunto, e così assolvendo puntualmente il (solo) compito assegnatogli dalla sentenza di rinvio, pur se con risultati non attesi dalle Amministrazioni ricorrenti. Le censure del secondo tipo investono accertamenti di fatto compiuti dal giudice del merito (al quale sono devoluti), adeguatamente motivati e, quindi, non soggetti al sindacato di legittimità.
È opportuno, tuttavia, aggiungere, data la particolarità del caso: che, quanto agli oneri fiscali, il riferimento alla relazione Moussoulos del 1973, peraltro parziale, è addirittura controproducente, risultando da essa solo ipotizzata, per dichiarata semplificazione di calcolo, l’applicabilità dell’imposta sugli utili netti, in accordo con la notazione che le società minero-metallurgiche erano in Grecia, nel 1954, praticamente esenti da ogni tassazione godendo di corpose agevolazioni dirette a incoraggiare lo sfruttamento dei giacimenti minerari, mentre il riferimento ad altre imposte e tasse è a tal punto generico da non contenere indicazione alcuna delle relative fonti normative (sull’onere del deducente di indicare, per lo meno gli estremi della legge straniera invocata v. da ultimo Cass. n. 4240 del 1991); che è del tutto arbitrario escludere, aprioristicamente, dal prezzo “chiavi in mano” la realizzazione delle opere stabili – compresa la sistemazione del terreno in proprietà dell’acquirente – necessarie per la installazione dell’impianto e l’avviamento dell’impresa; che, infine, le critiche relative alla valutazione del costo del capitale circolante sono tautologiche e, al pari di altre, già confutate, anche per implicito, dalla denunciata sentenza.
Il sesto motivo (definito “pretestuoso” dalla ricorrente e, in realtà, frutto di comprensibile accanimento difensivo) è manifestamente infondato, poiché il punto 16 del precedente ricorso per cassazione proposto dall’Amministrazione risulta espressamente (e motivatamente) rigettato dalla sentenza di rinvio, pur se, per mero errore materiale, incluso poi nella numerazione dei mezzi accolti. Neppure il settimo motivo è fondato.
Valgono in ordine alle singole censure che alimentano il mezzo, i rilievi che seguono:
Sub a): i rischi specifici di cui, secondo le ricorrenti, la sentenza impugnata non avrebbe tenuto conto sono quello collegato all’esito incerto dell’applicazione nuova al minerale Lokris del procedimento Krupp-Remm e il rischio di una probabile caduta della domanda del prodotto (molto povero) prima della scadenza del lungo periodo di sfruttamento della miniera. Ora, relativamente a quest’ultimo rischio (tenuto, peraltro, presente dalla Corte del merito), devesi osservare che ad esso è estraneo il difetto di motivazione rilevato dalla sentenza di rinvio, riferendosi questa alle “incertezze delle possibilità commerciali di un prodotto nuovo” e, quindi, ad una eventualità riguardante il periodo iniziale di sfruttamento della miniera, non già la ipotetica caduta della domanda nel successivo periodo. Quanto al primo rischio, è parimenti esatto che di esso il giudice di rinvio si è invece dato carico tenendone conto nel calcolo di produzione della lega e, quindi, dal rendimento ottenibile con l’applicazione del particolare procedimento, sì che non avrebbe potuto, senza indebite duplicazioni, prenderlo in considerazione una seconda volta nella determinazione del tasso di attualizzazione;
Sub b): non è esatto che la Corte del merito non abbia giustificato la propria scelta, avendone espressamente indicato la ragione nell’accordo al riguardo intervenuto tra i due consulenti. È vero che una motivazione siffatta non è idonea a fondare convenientemente il “decisum”, non avendo i consulenti esplicitato il presidio razionale dell’accordo, ma ciò non ha nulla da vedere col tipo di censura sotto esame, che per assumere effettiva valenza avrebbe dovuto specificare (come ha fatto la ricorrente principale nel suo quarto motivo di ricorso) per quali precise ragioni il semplice rinvio della Corte all’accordo dei tecnici non poteva soddisfare l’obbligo di una soddisfacente motivazione;
Sub c, d, f): riguardo alla asserita irriducibilità del tasso fissato dalla prima sentenza di appello, è sufficiente rinviare all’osservazioni svolte nella disamina del quarto motivo del ricorso principale. Nelle rimanenti parti, le censure si risolvono nella proposizione, pura e semplice, di questioni tecniche per sé non deducibili nel giudizio di legittimità, al pari delle questioni di fatto cui vanno, a questo fine, assimilate;
Sub e): la Corte territoriale ha correttamente osservato, in primo luogo, che, malgrado la irrituale acquisizione dei documenti citati, sul contenuto, di essi le Amministrazioni avevano formulato i propri rilievi critici, sì che il contraddittorio non poteva dirsi violato; in secondo luogo, che di tali documenti i consulenti d’ufficio non avevano tenuto conto, il che non può dirsi contraddetto dalla parziale coincidenza dei rispettivi assunti.
Neppure l’ottavo motivo è fondato.
La pronunzia censoria non si era occupata (perché non ne era stata richiesta) della distinzione in periodi del tasso di attualizzazione e non si presta, quindi, ad essere interpretata come impeditiva di essa. Né sussiste il dedotto vizio logico, trascurando la relativa censura (evidente frutto dell’uso promiscuo di vocaboli – attualizzazione e capitalizzazione, che, come visto, esprimono in realtà istituti diversi) che l’attualizzazione, per i tre anni di avviamento dell’impresa dell’utile del complesso minero-metallurgico, non poteva non essere effettuata che ad un tasso inferiore a quello (di attualizzazione) determinato per il periodo di attività, non potendo, ovviamente, includere maggiorazioni per i rischi a quest’ultima connessi e, dunque, non calcolabili in assenza della medesima.
Infondato è anche il nono motivo.
Le somme (complessivamente L. 188.795.000) di cui le ricorrenti lamentano la errata attribuzione riguardano in larga parte beni (o porzioni di beni) estranei al calcolo del reddito prospettico o assunti solo nel loro valore di recupero a fine esercizio, sì che le dedotte duplicazioni non sussistono; mentre non si vede perché dovrebbe essere vietato al giudice del rinvio di prendere in considerazione voci di danno obliterate dalla sentenza cassata per vizio di motivazione e alle quali non risulti che il danneggiato abbia, espressamente o per implicito, rinunciato.
Palese è l’infondatezza del successivo motivo (decimo). La Corte di appello, una volta escluso il giudicato parziale sulla “aestimatio” erroneamente dedotto dall’attrice nell’atto riassuntivo, ha correttamente osservato che “la individuazione dell’oggetto della domanda giudiziale non va realizzata con criteri letterali o formalistici, ma conferendo rilievo al contenuto sostanziale della stessa e alla conseguente focalizzazione dell’obiettivo concreto”: trattasi di principio pacifico nella giurisprudenza – e contestabile solo in ossequio – che non si condivide – ad un vieto formalismo, disancorato dal risalente insegnamento secondo cui scopo del processo è di dare, per quanto possibile a chi spetta il torto o la ragione.
Non meno infondato è l’undicesimo motivo.
Non si nega che in sede di rinvio possano (debbano) essere, di norma, riconsiderati anche elementi di rilievo già valutati nelle precedenti fasi del giudizio se connessi con quelli direttamente incisi dalla decisione di annullamento, ma è altrettanto certo che questo potere-dovere di riesame e di libero apprezzamento presuppone che siffatti elementi pervengono al giudice del rinvio impregiudicati (nel senso che non abbiano formato oggetto della pronuncia cassatoria), sì che non è invocato a proposito là dove, invece, anche le statuizioni di merito che li riguardano siano state denunciate, per inadeguatezza logiche, nel giudizio di legittimità e le censure (come nel caso di specie) siano state disattese per modo di rendere intangibili nella fase prosecutoria (e, quindi, processualmente autonome o autonomizzate) le pregresse valutazioni, dando luogo al noto fenomeno della sentenza soggettivamente complessa.
Il dodicesimo motivo è anch’esso infondato. Deve premettersi che la sentenza impugnata qualifica “compensativi” gli interessi dovuti al danneggiato a partire dalla sentenza che abbia convertito in debito di valuta l’originario debito di valore.
A questi interessi si riferisce la prima parte del mezzo, che non può accogliersi, perché, come già evidenziato, in particolare, nell’esame del secondo motivo del ricorso principale, i cosiddetti interessi attribuiti sulla somma rivalutata dalla data dell’evento dannoso fino alla decisione non sono veri e propri interessi, bensì il mezzo tecnico pretoriamente adottato per il risarcimento del danno da ritardo nell’esecuzione della prestazione risarcitoria, alla integrazione della quale concorrono, con la conseguenza che, una volta convertito l’originario debito di valore in debito di valuta, si rendono applicabili le ordinarie norme in tema di obbligazioni pecuniarie, senza indebite duplicazioni o violazione del divieto di anatocismo, al contrario di quanto i ricorrenti deducono.
Il che vale, a più forte ragione, per gli interessi attribuiti sull’equivalente pecuniario del bene illecitamente sottratto. Il rigetto della residua censura (condizionata) consegue, invece, pianamente all’accoglimento del secondo motivo del ricorso principale e alle relative argomentazioni cui, per non ripetersi, si rinvia.
Non possono essere accolti neppure gli ultimi due motivi, che investono la condanna generica del Ministero del tesoro al risarcimento dei pretesi danni dipendenti dal provvedimento di devoluzione all’Erario del credito controverso. Relativamente al tredicesimo motivo, deve convenirsi con la Corte del merito che impedire al creditore di realizzare il proprio credito sancito con sentenza di appello (esecutiva) costituisce senza dubbia un fatto potenzialmente lesivo, e dunque, in grado di fondare la richiesta di condanna generica al risarcimento del correlato danno, indipendentemente dal sopravvenuto annullamento del provvedimento attributivo e dei connessi obblighi restitutori; potendo questi incidere solo sul (non) diritto dell’accipiente di trattenere le somme originariamente dovute, non già sul diritto di conseguirle e, quindi di trarne “medio tempore” le utilità possibili (a prescindere dagli interessi, per i quali v. Cass. n. 2841 del 1989), non riducibili, queste, a semplici benefici di fatto, essendo geneticamente qualificate da un titolo giuridico valido (sentenza esecutiva di condanna), ancorché risolubile; sì che, in relazione al caso concreto, solo nel giudizio di liquidazione del danno ipotizzato e di accertamento della sua effettiva esistenza potrà appropriatamente discutersi delle conseguenze attribuibili in concreto agli eventi considerati.
Quanto al quattordicesimo (e ultimo) motivo, è noto che sulla questione relativa alla necessità o meno della colpa per potersi affermare la responsabilità del P.A. in ordine ai danni prodotti da un atto amministrativo illegittimo permangono dissensi sia in dottrina che in giurisprudenza (per la quale v., esemplificativamente, in contrasto, Cass. n. 4204 del 1981, da una parte, e, dall’altra, Cass. n. 16 del 1978 nonché Cass. n. 5361 del 1984, secondo cui l’errore scusabile sarebbe configurabile solo con riferimento alla persona fisica dell’organo operante, non anche riguardo alla P.A., che di siffatto errore non potrebbe, dunque, giovarsi).
Deve ammettersi, ad avviso di questo Collegio, che non esiste nel sistema alcun aggancio normativo idoneo a giustificare nella materia una differenziazione tra la posizione della P.A. e quella di altri soggetti dell’ordinamento (sul punto la motivazione della sentenza di merito deve essere, quindi, corretta). Anche relativamente alla prima non è dato, pertanto, prescindere dal requisito soggettivo della responsabilità (pur se riconducibile all’adozione di provvedimenti illegittimi) e non si può, dunque, in linea di principio, escludere la rilevanza dell’errore scusabile commesso dalla persona fisica dell’organo autore dell’atto: errore del quale non può non beneficiare l’Amministrazione, che attraverso i propri funzionari agisce e decide, sì che non si vede come ne possa essere affermata la responsabilità se gli agenti non siano in colpa (cfr. Cass. n. 3719 del 1975).
L’accento deve essere, quindi, spostato sulla scusabilità dell’errore nei casi singoli. E su questo versante non pare dubbio che l’errore nell’interpretazione della legge possa essere considerato, eccezionalmente, scusabile solo se riadducibile ad una oggettiva oscurità (attestata, eventualmente, da persistenti contrasti interpretativi) della norma violata (Cass. n. 5361 del 1984 citata) o altrimenti inevitabile a stregua delle indicazioni fornite dalla Corte costituzionale (sent. n. 364 del 1988 e altre), operando, in ogni altro caso, la regola della inescusabilità dell'”error iuris” (Cass. n. 2762 del 1978): affermata, questa, nella specie, ineccepibilmente dalla Corte del merito là dove, a confutazione della tesi sulla “pretesa particolare complessità della questione della residenza volutaria” attribuita alla Gamet, evoca adesivamente le precedenti decisioni che tale questioni avevano senza perplessità risolto negativamente, nel senso di escludere pianamente – né poteva essere diversamente – la configurabilità della residenza valutaria in Italia di persone fisiche straniere (o apolidi) titolari di reddito non da investimenti e, quindi, in alcun modo equiparabili ai redditi derivanti dall’esercizio di attività produttiva in Italia.
Il ricorso incidentale deve essere, di conseguenza, interamente rigettato.
Per effetto del (parziale) accoglimento del ricorso principale, la sentenza impugnata va, correlativamente, cassata, con rinvio alla Corte di Appello di Napoli, che si uniformerà ai principi di diritto sopra enunciati; e, in particolare (consequenzialmente all’accoglimento del quarto motivo del ricorso principale e del rigetto del settimo e dell’ottavo motivo del ricorso incidentale, assorbiti dall’accoglimento del quarto motivo del ricorso principale solo per quanto concerne la censura di erronea adozione di una media aritmetica tra i due differenti tassi di attualizzazione proposti dai due consulenti tecnici di ufficio) quale “peritus peritorum” del “quantum debeatur”, determinerà la somma equivalente al danno risarcibile subito dall’attrice a causa della illegittima ablazione delle azioni calcolato al 30 settembre 1953 mediante corretta attualizzazione del già accertato utile, maggiorata a decorrere dalla stessa data, oltre che della rivalutazione monetaria (sulla base degli indici Istat), degli interessi compensativi al tasso del cinque per cento annuo, fino alla data della emananda decisione, a partire dalla quale, se passata in giudicato, saranno altresì dovuti, nel caso di ulteriore ritardo, gli interessi di mora al tasso legale, sul totale della somma attribuita.
Il giudice del rinvio provvederà, infine, anche sulle spese di questo e del precedente giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi: accoglie il primo e il secondo motivo del ricorso principale, nonché il quarto per quanto di ragione, rigetta il terzo motivo e dichiara assorbito il quinto, rigetta il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata, in relazione e nei limiti dei motivi accolti; rinvia per nuovo esame alla Corte d’Appello di Napoli, che delibererà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma il 20 settembre 1992.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA L’1 DICEMBRE 1992.