Svolgimento del processo

Con citazione notificata il 15 febbraio 1973, Palmira Paganini convenne in giudizio il Ministero della Difesa davanti al Tribunale di Genova. Espose che una villa, due fabbricati accessori e il circostante terreno, di sua proprietà, in località San Bartolomeo di La Spezia, avevano subito dissesti per cedimenti verificatisi in alcune gallerie sottostanti, realizzate dalla Marina Militare.

Dedusse anche che, con scrittura del 14 settembre 1956, quell’Amministrazione si era obbligata a corrisponderle un “compenso” “in caso di obiettivo aggravamento della servitù”, ovvero a eseguire lavori “di modifica o ampliamento o anche di consolidamento”, e le aveva riconosciuto la facoltà di richiedere l’adozione delle misure atte a salvaguardare la soprastante e circostante proprietà, con l’intesa che gli eventuali danni che potessero a tale proprietà essere arrecati sarebbero stati “eliminati mediante esecuzione dei necessari lavori oppure risarciti nella giusta misura”: Nel giudizio, l’attrice chiese condanna del Ministero a eseguire tutte le opere di consolidamento delle gallerie nonché del terreno circostante e sovrastante, a risarcirle i danni subiti e subendi per la mancata esecuzione di tali opere, ivi compresi quelli concernenti la mancata utilizzazione degli immobili, e a corrispondere le un equo compenso per l’oggettivo aggravamento della situazione preesistente.

L’Amministrazione resistette.

L’adito Tribunale, con sentenza pubblicata il 6 ottobre 1978, dichiarò tenuto il Ministero a eseguire le opere di consolidamento e di manutenzione delle gallerie nonché quelle di consolidamento e ripristino degli immobili della Paganini, come indicate nella relazione della consulenza tecnica d’ufficio, e condannò il medesimo convenuto a pagare all’attrice lire 76.000.000, oltre agli interessi, a titolo di risarcimento danni per la mancata utilizzazione degli immobili; respinse le altre domande della Paganini.

La decisione di primo grado fu appellata da entrambe le parti. La Corte di Appello di Genova, con sentenza non definitiva del 18 febbraio 1985, dichiarò la responsabilità contrattuale dell’Amministrazione per i danni subiti dalla Paganini.

Successivamente, con sentenza definitiva in data 25 ottobre 1988, quella Corte respinse la domanda rivolta a ottenere la condanna del Ministero alla diretta esecuzione delle opere necessarie per il ripristino del terreno e dei fabbricati ad essa Paganini appartenenti e condannò l’Amministrazione a pagare alla controparte, oltre all’importo stabilito dal Tribunale, lire 854.532.320, con rivalutazione monetaria, nonché la somma costituita da lire 400.000 mensili per il periodo 7.10.78/31.12.1982, da lire 500.000 mensili per il periodo 1.1.83/31.12.85 e da lire 600.000 mensili per il periodo successivo sino alla pubblicazione della decisione, il tutto con interessi legali e anatocismo.

La sentenza definitiva di appello è fatta oggetto di ricorso per cassazione in via principale dalla Paganini, sulla base di tre motivi, e incidentalmente, pure in relazione a tre motivi, dall’Amministrazione della Difesa dello Stato, che ha comunque resiste con controricorso all’impugnazione dell’avversaria.

Vi è memoria della ricorrente principale.

Motivi della decisione

1. È preliminare la riunione, a norma dell’art. 335 cod. proc. civ., dei ricorsi, il principale e l’incidentale, proposti contro la stessa sentenza.

2. Dal tenore della motivazione della sentenza definitiva si evince che la Corte ligure respinge la domanda di condanna del Ministero convenuto a “eseguire tutti i lavori e le opere di consolidamento e manutenzione delle gallerie per cui è causa”. Si osserva, infatti, in quella esposizione: “in proposito è sufficiente osservare che l’obbligo della p.a. ad un facere cioè ad eseguire lavori su beni demaniali e su fondi del privato pregiudicati da fatti dannosi causati dai citati beni pubblici non può essere né accertato né posto a carico diretto della p.a. perché, versandosi nell’ambito di attività discrezionale di quest’ultima, deve evitarsi ogni illegittima interferenza nelle funzioni amministrative (cfr. artt. 4 e 5 della legge 1865, n. 2248 all. E)”. La menzione dei chiesti “lavori su beni demaniali” è chiara e univoca nel riferimento a quel capo di domanda.

All’evidenziata reiezione, il primo motivo del ricorso principale ascrive violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E), dell’art. 27 del R.D. 30 giugno 1924, n. 1054, degli artt. 1218, 1223, 1226, 2043, 2051, 2053, 2058 cod. civ., dell’art. 112 cod. proc. civ., nonché omessa motivazione su punto decisivo. Sostiene, in proposito, che il divieto posto dell’art. 4 della legge n. 2248 del 1865, all. E), non si estenda alle domande di mero accertamento del diritto al risarcimento del danno e che, oltre tutto, nella specie il comportamento materiale omissivo e illecito della Marina Militare non sia riconducibile a provvedimenti amministrativi.

Il motivo è fondato.

Sono esatte entrambe le osservazioni critiche testé riassunte, corollari del principio di diritto, accolto sia in giurisprudenza che in dottrina, per cui, laddove sia configurabile un suo fatto illecito, la pubblica Amministrazione incorre in responsabilità uguale a quella dei privati, dal momento che, come la carenza di una potestà provvedimentale amministrativa in quel fatto è il necessario presupposto dell’illecito, pari carenza implica il diritto soggettivo alla riparazione. Nella specie v’è di più, perché, come consacrato nel giudicato interno formatosi sulla sentenza non definitiva di appello (v. pag. 18) non fatta oggetto di impugnazione, l’Amministrazione si obbligò contrattualmente (art. 5 della scrittura in data 14 settembre 1956) ad “adottare le misure atte a salvaguardare la sovrastante e circostante proprietà ” (della Paganini), in tal guisa assumendo o consolidando, in regime di autonomia, una propria posizione soggettiva d’obbligazione che non lascia ambiti a prerogative pubblicistiche. È, poi, noto che la condanna dell’Amministrazione ad un facere rientra nelle attribuzioni del giudice ordinario allorché si verta in tema di obbligazioni e di diritti inerenti ad un contratto da essa escluso “jure privatorum” (Cass. S.U. 19 luglio 1985, n. 4266 e 7 ottobre 1983, n. 5838, fra molte conformi).

L’esattezza della esaminate censure supera la questione subordinata, pure agitata nel primo motivo del ricorso principale, concernente il risarcimento dovuto qualora dovesse essere destinato a persistere il dissesto delle gallerie.

3. La sentenza impugnata osserva che non può essere riconosciuto alla Paganini un compenso (in base alla convenzione del 1956) per l’oggettivo aggravamento della situazione preesistente, perché non è stato dimostrato esistente tale aggravamento, inteso, ai sensi dell’art. 5 della citata convenzione, come collegato ai lavori di ampliamento delle gallerie per cui era stata costituita la cosiddetta servitù e non come una delle più vaste conseguenze dello “omesso obbligo di consolidamento e manutenzione della proprietà demaniale”.

Sull’oggetto, nel secondo motivo del ricorso principale si lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 232 e dell’art. 279 cod. proc. civ. “e dei principi generali dell’ordinamento processuale”, nonché l’insufficienza della motivazione. Al riguardo vi si sostiene, fra l’altro, che l’interpretazione della clausola n. 5 della cennata convenzione, nel senso che essa include l’oggettivo aggravamento della situazione di dissesto, fosse già immodificabilmente data nella sentenza non definitiva di appello.

Anche questo motivo ha fondamento.

Quantunque con l’avvertenza che la concreta rilevanza decisoria del fatto è da definirsi in sede di giudizio di rinvio, per la possibile interferenza di emettenda condanna ad un fare che assorba la domanda di cui qui si tratta, deve darsi atto che la portata oggettiva della convenzione del 1956 è stabilita, con efficacia di giudicato interno, nella sentenza non definitiva di appello pubblicata il 18 febbraio 1985, ed essa corrisponde all’assunto della ricorrente. Invero, in quella pronunzia, la Corte ligure, nel quadro dell’economia della motivazione deputata a reggere la decisione, dichiara:

a) a pag. 15:

“Ad avviso della Corte, attraverso l’interpretazione soprattutto logica di tutto il testo della transazione del 1956 (riportata in narrativa) ed in particolare poi della clausola del capoverso dell’art. 5, si desume da tale transazione l’assunzione, da parte dell’Amministrazione, dell’obbligo di adottare “le misure atte a salvaguardare la sovrastante e circostante proprietà (delle Paganini), con l’intesa che gli eventuali danni, che a tale proprietà potessero essere arrecati, dovranno essere eliminati mediante esecuzione dei necessari lavori, oppure risarciti nella giusta misura”, ANCHE PER IL CASO DI AGGRAVAMENTO DELLO STATO DEI LUOGHI INDICATO NELLA SCRITTURA COME AGGRAVARSI DELLA SERVITU'” (n.b.: il carattere maiuscolo è dell’odierno estensore);

b) a pag. 17:

“Quindi la clausola “qualora però in avvenire la servitù di cui sopra venisse ad aggravarsi” va logicamente intesa, nell’intero contesto della transazione, COME AGGRAVARSI DELLA SITUAZIONE DEI LUOGHI IN CONSEGUENZA DELL’ESISTENZA DELLE GALLERIE CON LE STRUTTURE IN ALLORA ESISTENTI E GIA’RIVELATISI ASSOLUTAMENTE INIDONEE IN RELAZIONE AI DISSESTI VERIFICATISI SUCCESSIVAMENTE ALL’EREZIONE DI TALI STRUTTURE, E NON GIA’COME AGGRAVARSI” DELLE SERVITU’IN SÈ E PER SÈ (LE PARTI HANNO IMPROPRIAMENTE CONFIGURATO COME UNA SERVITU’DELLE GALLERIE, ANCHE SE QUESTE COSTITUISCONO UNA COSTRUZIONE SUPERFICIARIA VERSO IL BASSO)” (vedi n.b. prec.);

c) a pag. 18:

“Può pertanto ritenersi che l’Amministrazione si è assunta le obbligazioni di “adottare le misure atte a salvaguardare la sovrastante e circostante proprietà (della Paganini) e di eliminare “gli eventuali danni che potessero a tale proprietà essere arrecati … mediante esecuzione dei necessari lavori” oppure di risarcirli “nella giusta misura” ANCHE NEL CASO DI ULTERIORI DISSESTI (RIENTRANTI OVVIAMENTE NELL’AGGRAVAMENTO DELLA SITUAZIONE DEI LUOGHI)” (vedi n.b. prec.).

La descritta interpretazione, in sede di sentenza non definitiva divenuta non ordinariamente impugnabile, precludeva alla Corte del merito di modificare il relativo apprezzamento (v. Cass. S.U. 27 febbraio 1962, n. 370).

4. Nella sentenza denunziata per cassazione sono formulate due osservazioni in tema di liquidazione del danno per mancata utilizzazione degli immobili dal 1960 al 6 ottobre 1978:

a) che la maggiore determinazione invocata dall’attrice contrasta con le specifiche indagini effettuate dai consulenti tecnici tenendo conto delle caratteristiche tutte degli immobili e del cosiddetto mercato delle locazioni;

b) che la somma de qua non è rivalutabile perché, trattandosi di importo liquidato a titolo di mancato godimento di beni immobili, l’obbligazione relativa al suo risarcimento ha carattere pecuniario ed è perciò soggetta al principio nominalistico.

Ad entrambe replica il terzo, ultimo motivo del ricorso principale, denunziando la violazione degli artt. 1218, 1223, 1224, 1226, 2043, 2056 cod. civ. e l’insufficienza della motivazione.

Esso, definita “irrisoria” la liquidazione del danno per la mancata utilizzazione della villa a decorrere dal 1978, assume:

a) che, sull’oggetto, il difetto di motivazione sia totale, non essendo stato acquisito in causa alcun dato relativo ai fitti praticati nella zona;

b) che sia erroneo il diniego di rivalutazione monetaria dei relativi importi, trattandosi di debito di valore.

Il primo dei due assunti non ha pregio, riducendosi alla contrapposizione di una immotivata antitesi alle ragioni enunciate nella pronunzia di merito sulla scorta di “specifiche indagini effettuate dai consulenti tecnici, tenendo conto delle caratteristiche tutte degli immobili e del cosiddetto “mercato” delle locazioni”. Dei cosiddetti “fitti praticati nella zona”, la censura non allega nemmeno che vi sia stata, nel processo di merito, dettagliata e documentata deduzione, magari in sede di indagini di consulenza d’ufficio o in critica a questa, con la conseguenza che, in sede di controllo di pura legittimità, la ricorrente non offre elementi di giudizio sull’insufficienza del riferimento che la sentenza di appello fa ai richiamati esiti di specifica, mirata istruttoria.

Il secondo assunto è, invece, fondato.

“Obbligazione pecuniaria” – a sensi dell’art. 1277 cod. civ. – è quella che ha per oggetto l’autovalore nominale (in “corso legale”) della moneta determinata, senza alcun collegamento causale, giuridico economico, con un “valore” esterno, quello, ad esempio, della prestazione corrispettiva o, come nella specie, del danno sofferto del creditore. Diversamente, la funzione – sinallagmatica nel primo esempio, reintegratoria nel secondo -, la causa obligandi trasmette all’oggetto pecuniario dell’obbligazione il connotato giuridico ed economico, il “valore” dell’interesse contrapposto, quello, preminente nel rapporto, al cui appagamento l’obbligato è irrefutabilmente tenuto. Ecco perché la giurisprudenza di questa Corte da circa un trentennio (v. Cass. 24 febbraio 1965, n. 310) afferma la possibile natura “valoristica” dell’obbligazione risarcitoria (v. Cass. S.U. 9 gennaio 1978, n. 57) anche nei casi in cui il nocumento consista nella perdita di una determinata somma di denaro, indipendentemente dalla natura, extracontrattuale o contrattuale, dell’illecito (Cass. 4 settembre 1982, n. 4816, 25 ottobre 1982, n. 5580, 5 agosto 1983, n. 5262, fra tante). In particolare, con puntuale riferibilità alla specie, vale ricordare Cass. S.U. 25 novembre 1985, n. 5814, a mente della quale è suscettibile di rivalutazione monetaria il credito risarcitorio per lucro cessante, derivante dal mancato godimento di un bene protrattosi per una pluralità di anni.

5. Il primo motivo del ricorso incidentale insinua il sospetto dell’extrapetizione (violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.) a carico della sentenza impugnata, nell’assunto che essa pronunci condanna la risarcimento in forma specifica senza che ne sia stata proposta domanda.

L’insinuazione è fallace.

Chiesto dalla danneggiata il risarcimento (cfr. lett B delle conclusioni definitive trascritte nell’epigrafe della sentenza definitiva di appello), la domanda è proposta, nei profili del cennato art. 112 cod. proc. civ. La scelta del modo in cui il ristoro vada realizzato rientra nei poteri decisori del giudice del merito, non incidendo essa sul petitum, il quale resta comunque rapportato all’eventus damni dedotto, e, come ab initio, concretizzato nella congeniale reintegrazione patrimoniale.

Nello stesso motivo, l’Amministrazione della Difesa chiede anche la cassazione “per gli stessi motivi indicati dalla controparte nei n. I e II del primo motivo”.

Tale motivazione, pressoché indecifrabile, svela l’inconsistenza della censura perché ne illumina la carenza di interesse, atteso che il mezzo di impugnazione della controparte aggredisce, anzi che soccorrere, l’economia e la postazione difensiva del Ministero.

6. Il secondo motivo del ricorso incidentale ascrive alla sentenza impugnata, sul capo relativo al risarcimento liquidato alla Paganini, l’errore di avere “accolto pienamente le indicazioni dei consulenti tecnici, senza tenere conto che la loro valutazione si riferiva alle opere da eseguire ed era generica, approssimativa, senza possibilità di riscontro”. Tutto qui.

L’addebito è sterile, similmente a quello contrapposto della Paganini, perché non offre motivazione di alcun vizio logico giuridico della decisione contro cui si appunta. Esso, per giunta, sconfina nell’inammissibilità, perché, così come formulato, implica una rivalutazione dei riscontri di fatto, non consentita nel giudizio di legittimità.

7. Quanto esposto convince che si deve accogliere per quanto di ragione il ricorso principale, rigettare quello incidentale, cassare, in corrispondenza dei motivi accolti, la sentenza impugnata e rinviare la causa a sezione della Corte d’Appello di Genova diversa dalla prima civile che, nei limiti della devoluzione, applicherà i principi di diritto sopra enunciati.

È opportuno demandare al giudice di rinvio il regolamento delle spese del giudizio per cassazione.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; accoglie per quanto di ragione il ricorso principale e rigetta l’incidentale; cassa la sentenza impugnata, in corrispondenza dei motivi accolti, e rinvia la causa, anche per le spese di cassazione, ad altra sezione della Corte d’Appello di Genova.
Così deciso in Roma, camera di consiglio delle sezioni unite civili della Corte Suprema di Cassazione, il 20 settembre 1991.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 13 APRILE 1992.