Svolgimento del processo

Per la costruzione dell’autostrada Genova-Sestri Levante la S.p.a. Autostrade – Concessioni e Costruzioni Autostrade – in data 11.5.63 occupò in via temporanea e d’urgenza parte del terreno di proprietà della Chiesa parrocchiale di S. Rocco in Recco e successivamente – in forza dell’ulteriore decreto prefettizio del 15.5.1968 – assoggettò ad espropriazione soltanto una parte della maggiore estensione di suolo di proprietà della Chiesa nonché a servitù di viadotto un’altra parte, limitrofa agli edifici esistenti nella zona non espropriata: come la chiesa parrocchiale, la casa canonica ed altra casa destinata ad opere parrocchiali.

Con citazione del 9.7.68 la Chiesa di S. Rocco si oppose alla indennità liquidata nella misura complessiva di L. 1.299.380, in essa comprese L. 251.265 a titolo di occupazione temporanea, convenendo in giudizio la società Autostrade allo scopo di accertare il giusto valore venale del suolo espropriato nonché la quantità di danno conseguente dalla ridotta utilizzazione della parte di suolo non espropriata nonché dall’esistenza e dall’esercizio dell’opera pubblica destinata ad autostrada.

Il Tribunale di Genova, con sentenza del 28.1.78, ritenuto che l’indennità avrebbe dovuto essere accertata e liquidata giusta il criterio dettato dall’art. 40 L. 25.6.1865 n. 2359 (differenza tra il prezzo dell’immobile anteriore all’occupazione e quello della residua parte successivo all’occupazione stessa, quest’ultimo calcolato tenendo conto anche del deprezzamento derivante dall’esercizio dell’opera pubblica) determinò – a seguito di consulenza tecnica – il valore del complesso dei beni prima dell’espropriazione nella misura di L. 63.846.400 così distinto: L. 47.166.400 quanto agli edifici e L. 16.680.000 quanto al terreno.

Accertò, poi, che il valore degli edifici, in conseguenza della vicinanza del viadotto, dall’altro del quale si verificava caduta di acqua piovana, di polvere e di fango nel solo caso di piogge forti, poteva essere ridotto di L. 10.000.000 (capitalizzazione al 5% di un esborso annuo di L. 500.000 per manutenzione) anziché di L. 14.000.000 come suggerito dal consulente tecnico di ufficio.

Distinse, inoltre, il terreno non espropriato in due parti rispettivamente di mq. 749 e di mq. 516, attribuendo alla prima il valore di L. 7.500 ed alla seconda il valore di 12.000 al metro quadrato: con un totale complessivo di L. 11.809.500.

Calcolato, pertanto, il valore venale degli immobile (terreno e fabbricati) non espropriati nella misura di L. 48.975.900, determinò l’indennità di espropriazione in L. 14.870.500, consistente nella differenza tra L. 63.846.400 (valore iniziale del complesso immobiliare) e L. 48.975.900 (valore dei beni non espropriati).

Liquidò in L. 2.059.505 la indennità di occupazione temporanea dall’11.5.63 al 15.5.68.

Respinse, infine, la domanda di condanna al pagamento della svalutazione monetaria, attesa la natura di debito di valuta e non di valore dell’indennità come sopra liquidata.

Contro tale pronuncia la soc. Autostrade propose appello limitatamente al punto della diminuzione del valore degli edifici parrocchiali, la cui misura di L. 10.000.000 non sarebbe stata correttamente giustificata. La chiesa di S. Rocco propose a sua volta appello incidentale tardivo, lamentando: a) il rigetto della domanda relativa alla svalutazione monetaria; b) la riduzione a L. 10.000.000 della maggior somma di L. 14.000.000 consigliata dal C.T. per il deprezzamento dei fabbricati; c) la mancata valutazione della perdita di aria e di luce da parte dei fabbricati stessi, per effetto della costruzione dell’adiacente viadotto; d) il mancato accertamento dei danni derivanti dall’abbattimento di piante e dalla distruzione del pozzo; e) il mancato riconoscimento di una maggiore indennità relativamente alla parte di suolo espropriato nonché a quella assoggettata alla servitù di viadotto.

La Corte di Genova, disposta ed espletata una nuova consulenza tecnica, con sentenza del 21.1.82 respinse entrambi i gravami, compensate le spese processuali, osservando, quanto all’entità del deprezzamento degli edifici (unica doglianza dell’appello principale e precipua contestazione di quello incidentale) che le risultanze della nuova relazione peritale inducevano a mantenere fermo l’accertamento raggiunto dal primo giudice.

Quanto, poi, alle altre domande dell’appello incidentale, la Corte ne rilevò l’inammissibilità, precisando:

1°) che la lamentela circa la diminuzione dell’aria e della luce era da considerarsi proposta per la prima volta in appello, atteso che la Chiesa di S. Rocco nelle conclusioni di 1° grado aveva fatto riferimento alle indagini del C.T. nelle quali non vi era stato alcun accenno alla diminuzione di aria e di luce in danno degli edifici; 2°) che, parimenti, la richiesta relativa al ristoro dei danni per l’abbattimento delle piante e per la distruzione del pozzo era da considerarsi proposta per la prima volta in appello, essendo stata abbandonata in sede di precisazione delle conclusioni di 1° grado; 3°) che la doglianza circa il mancato riconoscimento di una maggiore indennità si presentava o come non proposta nell’atto di impugnazione, o tardiva (e perciò inammissibile) perché autonoma rispetto all’oggetto dell’appello principale, oppure non sorretta da specifico motivo;

4°) che la richiesta di rivalutazione della moneta, in quanto autonoma, era da ritenersi tardivamente proposta (sentenza di primo grado notificata il 6.4.78, appello incidentale proposto il 13.7.78).

Contro tale pronuncia la Chiesa parrocchiale di S. Rocco di Recco ha proposto ricorso per Cassazione sulla base di 7 motivi, illustrati con memoria.

La S.p.A. Autostrade – Concessioni e Costruzioni Autostrade – resiste con controricorso.

Motivi della decisione

Con i primi due motivi che, data l’intima connessione, vanno esaminati congiuntamente, la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c., 40, 46 e 10 L. 25.6.1865 n. 2359 nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, si duole che la Corte del merito, violando il precetto relativo al dovere del giudice di pronunciarsi in base al contenuto della domanda giudiziale, abbia proceduto alla determinazione dell’indennità giusta il criterio differenziale previsto dall’art. 40 cit., anziché secondo la valutazione del danno permanente subito dagli edifici parrocchiali, ai sensi dell’art. 46 cit., in conseguenza della costruzione e dell’esercizio del viadotto, senza considerare che l’esigua parte di terreno espropriata non formava un tutto funzionale ed inscindibile con la parte residua.

La censura non è condivisibile.

Va premesso che il giudice di primo grado, interpretando la domanda introduttiva del giudizio, determinò l’indennità di espropriazione parziale, secondo il criterio differenziale previsto dall’art. 40 L. 2359-1865, comprendendo nel concetto di diminuzione di valore della parte immobiliare residua sia i danni provocati direttamente dall’occupazione del suolo, sia quelli derivanti dall’esecuzione dell’opera pubblica e dall’esercizio della funzione cui essa era destinata.

Tale criterio valutativo, implicitamente fondato sulla considerazione dell’esistenza di una unica entità inscindibile tra la parte immobiliare espropriata e quella residua, indusse tra l’altro al calcolo del deprezzamento del valore degli edifici conseguente dalla vicinanza del viadotto e dallo sgrondo da esso derivante.

Contro tale criterio non fu sollevata una chiara e precisa censura dalla Chiesa di S. Rocco, con l’appello incidentale, che inducesse la Corte del merito a porsi il problema dell’applicazione, nella fattispecie, dell’art. 46 L. 2359.1865 accanto a quella dell’art. 40 L. 2359-1865. Tant’é che essa Corte, motivando la decisione sul punto del danno permanente agli edifici, con un’espressione piana e tale da non presupporre contrasto fra le parti, scrisse: “L’appello principale ed il secondo mezzo dell’impugnazione incidentale possono essere congiuntamente esaminati attenendo entrambi al deprezzamento degli edifici, originato dai danni derivanti dall’esercizio del sovrastante viadotto, prevedibili all’atto dell’espropriazione e come tali valutabili ai fini della determinazione dell’indennità di esproprio parziale di un immobile”.

E’ evidente che l’attuale doglianza della ricorrente non postula un vizio di omessa pronuncia o di extrapetizione, come potrebbe sembrare dal richiamo fatto all’art. 112 c.p.c., ma rimprovera al giudice del merito la non esatta qualificazione giuridica dell’azione e, perciò, dei fatti su cui essa è fondata, per effetto di una falsa interpretazione della domanda in appello.

Dall’esame di questa emerge che la Chiesta di S. Rocco in Recco chiese oltre all’indennità di espropriazione del terreno occupato, il risarcimento del danno per il deprezzamento del terreno non espropriato e sottostante al viadotto nonché il risarcimento del danno arrecato agli edifici parrocchiali in conseguenza del pregiudizio estetico ed ambientale, del pericolo per la caduta di pietre, di eventuali piogge torrenziali ecc.

Ebbene, l’espressione “risarcimento del danno” intesa in senso strettamente tecnico, richiama la idea del danno da illecito e non quella dell’indennità ex art. 46 L. 2359.1865, la quale non equivale al risarcimento del danno, avendo essa un contenuto più ristretto e limitato, corrispondente alla perdita o alla diminuzione permanente del valore intrinseco dell’immobile derivante da attività legittima della Pubblica Amministrazione. Sicché il giudice del gravame implicitamente escluse che nella specie ricorresse l’ipotesi del “risarcimento” ex art. 2043 c.c. e, aderendo all’impostazione giuridica data dal giudice di primo grado al problema, nominò un nuovo consulente tecnico per una più esatta valutazione del deprezzamento agli edifici parrocchiali dopo le ulteriori opere di riassetto del viadotto, eseguite dalla società Autostrade nel maggio 1976, nel maggio 1977, nel marzo 1979 e nell’ottobre del 1979.

In tale modo la Corte genovese legittimamente inquadrò la fattispecie semplice nella disposizione dell’art. 40 anziché dell’art. 46 succitati, in assenza di contestazione o di contrasto relativi sia all’unica entità funzionale per ubicazione e per destinazione fra la parte espropriata e quella residua degli immobili e sia alla prevedibilità dei danni, al momento dell’espropriazione, derivanti dalla esecuzione e dall’esercizio dell’opera pubblica (sent. 30.8.49 n. 2441 sent. 6.7.78 n. 3342 – sent. 23.6.80 n. 3932).

Non è inutile, del resto, rilevare che il giudice del merito, nella determinazione dell’indennità di esproprio parziale, tenne conto particolarmente del danno emergente e permanente agli edifici, capitalizzando il valore del deprezzamento con un’operazione valutativa coincidente con quella che sarebbe stata adottata se fosse stato necessario procedere sulla base della disposizione dell’art. 46 L. 2359-1865. Con il terzo mezzo di annullamento, la ricorrente, denunciando la violazione degli artt. 2043, 2056, 2058 c.c., 115, 116, 334 e 343 c.p.c. nonché omesso esame di questione rilevante in relazione all’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., sostiene che, se la Corte avesse attribuito alla domanda giudiziale la sua esatta connotazione in quanto tesa alla pronuncia di risarcimento del danno ai sensi dell’art. 46 L. 2359-1865, avrebbe dovuto attribuire al conseguente credito della Chiesa parrocchiale la natura di credito di valore e, perciò, procedere alla rivalutazione monetaria di esso, fuori del condizionamento della tardività o meno dell’appello incidentale.

A prescindere dall’erronea confusione dei concetti fra il risarcimento del danno (ex art. 2043 c.c.) e l’indennità (ex art. 46 L. 2359-1865) che si diversificano per “causa petendi” e “petitum” (come fugacemente chiarito innanzi), la censura va disattesa sul rilievo che, accertata come esatta la qualificazione giuridica conferita dalla Corte del merito al credito della ricorrente, quale “indennità” da espropriazione parziale, quel credito, essendo di valuta, non poteva essere rivalutato se non su tempestiva ed esplicita richiesta dell’appellante incidentale, sorretta dalla prova, anche presuntiva, della verificazione del maggior danno (art. 1224, 2° co. c.c.) per effetto della svalutazione monetaria, stante l’impossibilità di investire il danaro, non riscosso a tempo debito, in modo redditizio.

Con il quarto motivo la ricorrente, denunciando falsa applicazione e violazione dell’art. 1224, 2° comma c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., sostiene che la Corte genovese non ha preso in esame la domanda tesa ad ottenere l’accertamento e la liquidazione del maggior danno subito dalla Chiesa di S. Rocco, in conseguenza della svalutazione monetaria sofferta dal credito nei cinque anni di ritardo, con cui fu eseguito il pagamento da parte della società Autostrade. La censura non ha fondamento: sia perché della pretesa domanda giudiziale non si rinviene traccia nell’atto di appello incidentale (onde non si pone neppure la questione della tardività della sua proposizione) e sia perché, presentandosi conseguentemente proposta per la prima volta in questa sede, essa è certamente inammissibile.

Con il quinto mezzo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 46 L. 2359-1865; 2043; 2050, 2061 c.c.; 115 c.p.c. nonché omessa ed insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia in relazione all’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., sostiene: a) che la Corte di Appello abbia motivato in modo superficiale ed erroneo in ordine alla valutazione del danno agli edifici senza tener conto delle prove offerte e delle stesse risultanze della consulenza tecnica espletata in secondo grado circa i danni derivanti dalle forti piogge; b) che la medesima Corte erroneamente abbia escluso che gli atti volontari ed inconsulti degli utenti del viadotto (come ad es. il lancio di pietre dall’altro) rientrano nella responsabilità civile dell’ente proprietario del viadotto stesso e perciò da tenersi conto ai fini del deprezzamento degli immobili conseguente all’esercizio del viadotto.

La censura è infondata in ordine a ciascuno dei due punti sopra riportati.

Quanto al punto a) è necessario premettere che in sede di legittimità non è consentito riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, ma soltanto controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione compiuti dal giudice cui è riservato l’apprezzamento dei fatti. Pertanto, alla cassazione della sentenza per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo, si può giungere quando uno dei vizi suddetti emerga dall’esame del ragionamento svolto dal giudice e quale risulta dalla sentenza, che si rilevi incoerente, incompleto o illogico; ma non quando il giudice abbai semplicemente attribuito agli elementi vagliati un valore ed un significato non conformi alle attese ed alle deduzioni delle parti (sent. 14.6.79 n. 3355 – sent. 23.2.79 n. 1176 – sent. 14.6.78 n. 2947).

Alla stregua del consolidato orientamento succitato, va detto che dall’esame della motivazione della sentenza sul punto essa si rivela logica e coerente soprattutto nel raffronto delle risultanze delle due consulenze (di 1° e di 2° grado) tecniche e nella limitazione del danno permanente conseguente alla caduta dell’acqua dal viadotto, verificabile soltanto in caso di piogge forti accompagnate dal vento.

Quanto al punto b) non può certamente condividersi l’affermazione della ricorrente secondo la quale “dell’atto inconsulto dell’utente del viadotto debba rispondere la soc. Autostrade che insieme ai benefici del lucroso esercizio dell’azienda ne deve sopportare i rischi”. Ciò perché, rappresentata in modo così generico siffatta proposizione, si correrebbe il rischio di ammettere la possibilità di una “responsabilità oggettiva” dell’ente in ogni caso di azione dolosa o colposa del terzo. Il problema, quindi, della responsabilità in tali casi sarebbe da esaminare con riferimento al fatto proprio della soc. Autostrade da rinvenire ad esempio nell’omissione di accorgimenti tecnici (riparo con reti o con muretti) idonei ad evitare le conseguenze dannose di fatti inconsulti degli utenti della strada sopraelevata.

Ora, a prescindere dalla considerazione che nel giudizio di merito non si è fatta questione alcuna sul problema come sopra indicato, occorre dire che giustamente la Corte di appello ha escluso che il pericolo di eventuali danni agli edifici per fatti inconsulti di terzi (utenti della strada) potesse concorrere nella valutazione del deprezzamento degli edifici parrocchiali. Alla ragione sopra esposta va aggiunto l’assorbente motivo che tali danni, essendo futuri, eventuali e perciò non prevedibili al momento dell’espropriazione, non avrebbero né potuto né dovuto partecipare alla determinazione della indennità di esproprio parziale, con riferimento al valore della parte residua degli immobili non espropriati.

Con il sesto motivo la ricorrente, denunciando violazione degli artt. 112, 115 c.p.c.; 345 c.p.c., 2043 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c. si duole: a) che la Corte del merito abbia respinto il motivo di gravame riguardante il deprezzamento del valore del terreno adibito a sagrato intorno alla Chiesa senza addurre alcuna valida argomentazione e disattendendo le risultanze delle relazioni tecniche, della documentazione allegata e delle prove orali; b) che abbia respinto la domanda di risarcimento dei danni verificatisi in conseguenza dell’esercizio del viadotto successivamente alla pronuncia della sentenza di primo grado: domanda che non poteva non essere proposta per la prima volta in appello ai sensi dell’art. 345 c.p.c.

Anche tale censura va disattesa.

Quanto al punto a) va rilevata l’estrema genericità della doglianza, non idonea, perciò, a far conoscere la decisività degli elementi di prova obliterati, se effettivamente trascurati, dal momento che a pagina 17 della sentenza impugnata si assume ben altro, riguardo alla richiesta della maggiore indennità di esproprio (anche per l’assoggettamento alla servitù di viadotto del terreno che – per intuizione – deve comprendere il “sagrato”), e cioé che la relativa domanda doveva essere disattesa: sia perché non proposta nell’atto di impugnazione, sia perché (ove da considerarsi proposta) tardiva in quanto autonoma rispetto all’oggetto dell’appello principale, sia perché non sorretta da specifico motivo. Contro queste argomentazioni non risulta proposta impugnazione in questa sede di legittimità.

Quanto al punto b) va ugualmente rilevata la genericità dell’assunto che comporta l’impossibilità di conoscere di quali danni si tratta ed in particolare di stabilire se essi fossero da includersi o meno fra quelli prevedibili al momento dell’espropriazione. Ciò perché, se i danni appartenevano a quella serie preveduta, prevedibile e perciò valutabile ai fini della determinazione dell’indennità, deve dirsi che manca qualsiasi indicazione idonea a rappresentare in concreto il difetto di motivazione consistente nella obliterazione di elementi che se vagliati avrebbero potuto condurre ad una diversa decisione; se invece essi, verificatisi nel corso dell’esercizio del viadotto, rientravano fra quelli imprevedibili, non avrebbero dovuto essere presi in considerazione dal giudice di appello perché non rientranti nell’ambito dell’oggetto della controversia, limitato all’accertamento dell’indennità di esproprio.

Con il settimo mezzo la ricorrente lamenta che, in violazione dell’art. 91 c.p.c., siano state compensate le spese processuali nonostante che l’appellante principale fosse stato totalmente soccombente.

La censura non ha pregio, se si riflette che la Corte del merito legittimamente fece uso del suo potere discrezionale, compensando le spese in seguito al rigetto di entrambi gli appelli: principale ed incidentale.

E’ principio che la discrezionalità attribuita al giudice del merito nella condanna della o delle parti alle spese processuali non è sindacabile in sede di legittimità se non quando la soccombenza nelle spese sia stata posta a carico della parte totalmente vittoriosa.

Questa ipotesi non ricorre nella presente fattispecie. Il ricorso va rigettato e la ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali nella misura di L. 85.000 oltre a L. 1.500.000 per onorario.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali nella misura di L. 85.000 oltre a L. 1.500.000 per onorario.
Roma, 24.9.1985.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 12 APRILE 1986