Svolgimento del processo

Con atto notificato il 16 ottobre 1996 l’avv. Antonio Piccolo esercitava nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi della legge 13 aprile 1988 n. 117, azione per il risarcimento del danno cagionatogli dalla custodia cautelare in carcere eseguita il 13 maggio 1993 in forza di un provvedimento del GIP presso il Tribunale di Cazanzaro, Dott. Vincenzo Calderazzo, il quale aveva accolto la richiesta del P.M., Dott. Stefano Tocci.

Faceva presente: a) giugno 1993 il provvedimento era stato revocato dal tribunale del riesame e che il GUP aveva successivamente emesso sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste”; b) che particolarmente infamante era la natura dei reati ascrittigli, essendogli stato attribuito il ruolo di “consigliere – consigliori” all’interno della consorteria mafiosa “Maesano” di Isola Capo Rizzuto; c) che l’art. 2 della legge n. 117 del 1988 prevedeva la possibilità di agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali ed anche di quelli non patrimoniali che derivino dalla privazione della libertà personale” e che, nella specie, appariva ictu oculi la sussistenza dei requisiti richiesti, e cioé il dolo eventuale e comunque la colpa grave; d) che, secondo la lettera b dell’art. 2, costituisce colpa grave l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza é incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento. Chiedeva, pertanto, il risarcimento del danno nella misura di lire un miliardo o in quella che sarebbe emersa dalle risultanze processuali.

Con decreto depositato il 23 gennaio 1997 il Tribunale di Messina dichiarava inammissibile la domanda non ricorrendo una delle ipotesi previste dall’art. 2 della legge n. 117 del 1988, la cui elencazione é tassativa, e non potendo dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove.

Il reclamo proposto dal Piccolo contro tale decreto era rigettato dalla Corte di appello di Messina con ordinanza del 17 – 28 marzo 1997. Osservava la Corte di merito:

a) che era irrilevante la circostanza che in primo grado l’udienza nella quale il giudice istruttore aveva rimesso la causa al collegio fosse un’udienza di prima comparizione e non una udienza di trattazione, in quanto: a.1.) l’art. 5 della legge n. 117 del 1988 non distingue tra questi due tipi di udienza ai fini della rimessione; a.2.) a norma dell’art. 187, comma 3, c.p.c., il giudice istruttore può rimettere la causa al collegio per la decisione di una questione pregiudiziale (quale era quella di specie) anche all’udienza destinata esclusivamente alla prima comparizione delle parti; a.3.) nessun pregiudizio era derivato al reclamante, essendo state le parti rimesse al collegio dopo che entrambe avevano precisato le proprie conclusioni;

b) che nella fase del presente procedimento diretta alla deliberazione sull’ammissibilità dell’azione rientra, ai sensi del citato art. 5, anche l’indagine sul carattere non interpretativo della violazione di legge o sulla natura puramente percettiva dell’errore di fatto, che la parte prospetti causativo di danno;

c) che l’attività censurata dal reclamante (i due magistrati avrebbero emesso il provvedimento restrittivo della libertà personale sulle semplici dichiarazioni accusatorie del pentito Staffa e senza minimamente preoccuparsi di trovare a queste gli opportuni riscontri obiettivi) non può dar luogo alla responsabilità di cui alla legge n. 117 del 1988, essendo da questa espressamente esclusa “l’attività …. di valutazione …. delle prove”;

d) che il comportamento dei due magistrati non poteva nemmeno farsi rientrare nell’ipotesi di cui all’art. 2, comma 3, lett. b (negligenza inescusabile consistente nell’avere ascritto un fatto la cui esistenza era incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento), atteso che il fatto addebitato al reclamante non risultava “incontrastabilmente” escluso dalle altre risultanze istruttorie, ma non adeguatamente supportato sul piano probatorio;

e) che estraneo alla previsione legislativa di cui alla legge n. 117 del 1988 era infine il comportamento del P.M. Tocci susseguente alla rimessione in libertà del reclamante, stante che, ai sensi dell’art. 2, comma 1, della legge, i soli danni per i quali può aversi diritto al risarcimento sono quelli collegati alla privazione della libertà personale.

Avverso l’ordinanza della Corte di appello l’avv. Antonio Piccolo ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi.

La Presidenza del Consiglio dei Ministri ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione

1.1. Rileva preliminarmente il Collegio che nel ricorso i fatti di causa sono espressi in modo sommario e frammentario, dovendo per lo più ricavarsi dalle argomentazioni a sostegno dei motivi di impugnazione.

1.2. Con il primo mezzo di impugnazione il ricorrente lamenta violazione di legge facendo presente che secondo l’art. 5 della legge n. 117 del 1988 “il giudice sentite le parti …. delibera …”. Ne consegue che, davanti al tribunale, il giudice istruttore non avrebbe potuto rimettere le parti avanti al collegio, per effetto della novella del c.p.c., ma al contrario avrebbe dovuto rinviare causa alla prima udienza di trattazione, a seguito della quale solamente la causa poteva essere esaminata per il giudizio di ammissibilità.

Prima udienza di cui all’art. 5 cit. dovrebbe intendersi, a seguito della novella al c.p.c., la prima udienza di trattazione e giammai la prima udienza di comparizione, che è finalizzata all’accertamento della mera regolarità formale di costituzione delle parti ai fini del contraddittorio.

1.3. Il motivo non è fondato.

É la stessa legge citata la quale all’art. 5, coma secondo, stabilisce che il giudice istruttore, alla prima udienza rimette le parti dinanzi al collegio (che è tenuto a provvedere entro quaranta giorni dal provvedimento di rimessione del giudice istruttore).

Questa prescrizione si spiega con le esigenze di snellezza e di rapidità che connotano il procedimento in questione, i cui caratteri di specialità sono tali da rendere irrilevante il raffronto con la disciplina del processo ordinario ed inapplicabile, in particolare, la distinzione tra udienza di prima comparizione ed udienza di trattazione.

Deve, quindi, escludersi la sussistenza del dedotto vizio di violazione di legge.

2.1. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia falsa ed erronea applicazione dell’art. 5 cit., per avere la pronuncia impugnata proposto argomenti deducibili solo nella fase rescissoria e non in quella rescindente. In particolare, non era consentito ai giudici di prima istanza esprimere valutazioni su prove eventualmente ancora non acquisite. Essi avevano invece affermato che ” nel comportamento contestato ……. non si ravvisano gli estremi indicati dalla normativa in materia, non ricorrendo le ipotesi previste dall’art. 2 legge 117/1988, la cui elencazione deve essere tassativa” ed inoltre che “non può dar luogo a responsabilità, per espresso divieto sancito dalla normativa citata, l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove”.

Il giudice adito deve, sotto il profilo della manifesta infondatezza della istanza, limitarsi ad una sommaria delibazione e valutare in astratto, e non anche in concreto, la sola idoneità degli elementi nei termini in cui sono stati prospettati.

3.1. Il terzo motivo contiene una doglianza di omessa e contraddittoria motivazione.

La motivazione del provvedimento impugnato, in base alla quale il fatto addebitato non risultava incontrastabilmente escluso dalle altre risultanze istruttorie, ma bensì non adeguatamente supportato sul piano probatorio, travisava i fatti e la ricostruzione storica e processuale. In particolare, nel provvedimento del Tribunale della Libertà di Catanzaro era stato ribadito che “nulla di apprezzabile emerge dagli atti del procedimento per suffragare la pista seguita dall’Accusa, ed inoltre, che nessun elemento, neanche di carattere presuntivo, induce a ipotizzare che quel covato proposito si sia, poi, venuto a materializzare, con il beneplacito del professionista interessato”.

Gli elementi di fatto, quindi, e non solo di diritto, erano ampiamente conosciuti dai magistrati in oggetto, sin dall’inizio dell’indagine, e giammai alcun approfondimento era stato fatto, mentre, sulla base di ciò era stata avanzata richiesta di rinvio a giudizio.

Alla medesima conclusione era giunta la Corte di appello in ordine alla domanda di riparazione per l’ingiusta detenzione, avendo osservato che non risultava dagli atti alcun elemento di riscontro alle notizie fornite da un pentito, e che al contrario risultava che il pentito non poteva conoscere fatti che sarebbero accaduti in un periodo in cui egli era da tempo fuori “dal giro”.

Anche la Corte di Cassazione in data 12 novembre 1993 ribadiva nella motivazione del suo provvedimento che “non vi era nessun elemento di riscontro alla chiamata in reità”.

La custodia sofferta doveva comunque ritenersi priva di valida motivazione, per cui non era condivisibile, perché fuorviante ed affetto da nullità, il provvedimento con il quale si era dichiarata inammissibile l’istanza di qua, atteso che è stato fondato su una valutazione delle prove offerte, in una fase non propria, caratterizzata dalla mancanza di contraddittorio fra le parti.

Avendo il collaboratore di giustizia riferito che era fuoriuscito dalla cosca da ormai due anni, gli inquirenti avrebbero dovuto logicamente chiedergli per quale verso gli era consentito conoscere fatti interni al sodalizio criminale.

4.1. I due motivi – congiuntamente esaminabili per ragioni di connessione – non appaiono meritevoli di accoglimento.

Come già ritenuto da questa Corte (Cass. 9 settembre 1995 n. 9511), in tema di risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, rientra nella fase di delibazione sull’ammissibilità dell’azione, sensi dell’art. 5 della legge 13 aprile 1988 n. 117, anche l’indagine sul carattere non interpretativo della violazione di legge o sulla natura puramente percettiva dell’errore di fatto, che la parte prospetti causativo di danno, atteso che, in base al comma secondo dell’art. cit., l’attività cognitoria del giudice in sede di esame dell’ammissibilità della domanda comprende a verifica dei presupposti di cui al precedente art. 2 e che il secondo comma di tale articolo stabilisce che nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove.

4.2. Nella specie, la sentenza impugnata ha osservato che l’Avv. Piccolo, accusando i due magistrati di aver emesso provvedimento restrittivo della sua libertà personale sulle semplici dichiarazioni accusatorie del pentito Staffa e senza minimamente preoccuparsi di trovare a queste gli opportuni riscontri obiettivi, ha in concreto rimproverato al dott. Tocci ed al dott. Calderazzo di aver erroneamente valutato le prove risultanti dalla espletata istruttoria e di avere a dette prove superficialmente conferito una dignità che in concreto esse di certo non avevano. Ma una tale condotta dei magistrati – sia pur criticabile – non può dar luogo alla responsabilità ipotizzata dalla legge n. 117 del 1988, essendo da questa espressamente esclusa “l’attività … di valutazione …. delle prove” nella quale sicuramente rientrava l’attività censurata dal reclamante.

Inoltre, secondo la corte di appello, il comportamento dei due magistrati non poteva farsi rientrare nell’ipotesi di cui all’art. 2 comma 3; lett. b (negligenza inescusabile consistente nell’avere ascritto un fatto la cui esistenza era incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento), atteso che, anche se delibata in astratto e non in concreto, la condotta dei due magistrati non era inquadrabile nell’ipotesi predetta – (ma in quella di cui al n. 2 dell’art. citato che non dà luogo a responsabilità), in quanto il fatto addebitato al reclamante non risultava “incontrastabilmente” escluso dalle altre risultanze istruttorie acquisite agli atti di causa, ma bensì non adeguatamente supportato sul piano probatorio.

4. 3. Rileva il Collegio che con l’atto introduttivo del presente giudizio era stata dedotta una responsabilità, in ordine ai danni derivanti dalla privazione della libertà personale, cagionati da magistrati per dolo eventuale e comunque per colpa grave, costituita dall’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza era incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento.

Il ricorrente, peraltro, non ha indicato nel medesimo atto introduttivo, né nel successivo reclamo alla Corte di appello, quali atti del procedimento, al momento dell’adozione della misura cautelare, escludessero in maniera inequivocabile il fatto dedotto dal pentito.

Del tutto congrua e priva di vizi logici, quindi, risulta la motivazione della decisione impugnata la quale, da un lato, ha escluso che il fatto addebitato risultasse incontrastabilmente escluso dalle risultanze del processo, penale e, dall’altro, ha ritenuto che in realtà quello che si rimproverava ai due magistrati era che essi si erano basati su notizie riferite da un pentito, le cui dichiarazioni sarebbero state prive di adeguati riscontri.

É il caso di osservare che, trattandosi dell’adozione di una misura cautelare, era necessario verificare la sussistenza di “gravi indizi di colpevolezza” (art. 273 c.p.p.) e non quella di elementi dotati di vera e propria efficacia probatoria. Inoltre, è noto che il tema del valore delle dichiarazioni del c.d. pentiti nei processi riguardanti la criminalità organizzata di tipo mafioso ha formato oggetto di ampia discussione a livello dottrinale e giurisprudenziale.

In tale situazione, non può dubitarsi che, nella specie, la valutazione dell’attendibilità del pentito e della verosimiglianza delle sue dichiarazioni ai fini dell’adozione della misura cautelare nei confronti dell’odierno ricorrente rientrasse nell’attività di valutazione del fatto e delle prove, che l’art. 2, comma secondo, della legge citata prevede quale ipotesi di esclusione della responsabilità del magistrato.

Non sussiste, quindi, il dedotto vizio di violazione di legge, avendo la Corte di appello fatto corretta applicazione dei principi enunciati dalla sopracitata sentenza di questa Corte, richiamata anche dal provvedimento impugnato. D’altra parte, sarebbe inutile passare alla fase di merito del procedimento, se le ragioni addotte dall’attore non possono essere fonte di responsabilità.

4.4. Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Ricorrono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
Così deciso in Roma il 3 dicembre 1998
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 12 MAR. 1999
(*) ndr: così nel testo.