Svolgimento del processo

Con citazione del 19 giugno 1975, Francesco e Giuseppe Matteucci convenivano in giudizio, dinanzi alla Corte d’appello di Bologna, il Comune di Ferrara, proponendo opposizione alla indennità definitivamente determinata in L. 316.487 per l’espropriazione (poi pronunciata, in base alla legge 22 ottobre 1971 n. 865, con decreto del 17 novembre 1975) di una loro area edificabile di 1570 mq., sita nella città di Ferrara e compresa nel piano di edilizia economica e popolare.

A sostegno della opposizione, gli attori deducevano di avere diritto ad una indennità corrispondente al valore effettivo del bene, sul presupposto della illegittimità costituzionale dell’art. 16 della citata legge, in relazione agli artt. 3 e 42 Cost.

Il Comune di Ferrara si costituiva e resisteva alla domanda. Dichiarata la illegittimità della norma in questione da parte della Corte Costituzionale e disposta consulenza tecnica, da parte della Corte bolognese, per la determinazione della indennità di espropriazione ai sensi degli artt. 39 e 40 della legge 2359-1865 e delle norme di cui alla legge 2892-1885, il processo veniva poi sospeso in attesa che la Corte Costituzionale, già investita della questione, si pronunziasse sulla legittimità dell’art. 1 della legge 29 luglio 1980 n. 385. Sopravvenuta tale pronuncia, la Corte di appello determinava in L. 61.974.675 la indennità di espropriazione, ordinando al Comune di depositare presso la Cassa D.D. e P.P. la differenza tra tale somma e quella di L. 316.487, già a suo tempo depositata.

A sostegno della decisione, la Corte d’appello osservava che:

– l’area espropriata aveva al momento dell’emanazione del decreto di espropriazione natura di area edificabile, come risultava dagli accertamenti della C.T.U., dato che l’ubicazione, l’accessibilità, lo sviluppo edilizio, in atto nella zona immediatamente adiacente, la presenza di servizi pubblici e sociali all’epoca di riferimento attestavano una concreta attitudine all’edificazione, e come era stato inizialmente riconosciuto dallo stesso ente convenuto che, prima della dichiarazione di illegittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 3 L. n. 385-1980, aveva sostenuto l’applicabilità alla fattispecie concreta di tale legge, dettata per le aree fabbricabili;

– i terreni espropriati dovevano essere considerati edificatori in base alle loro intrinseche caratteristiche e come tali indennizzati indipendentemente dalla loro inclusione nel perimetro del centro abitato delimitato ai sensi di legge;

– l’indennità di espropriazione doveva essere determinata con riferimento al valore del bene espropriato in relazione alle sue caratteristiche essenziali ed alla sua destinazione economica, senza tener conto dei vincoli di inedificabilità imposti da strumenti urbanistici e preordinati all’espropriazione poi attuata, e sulla base del criterio stabilito dall’art. 39 L. n. 2359 del 1865 e fatto proprio dall’art. 14 L. n. 10 del 1977;

– la sopravvenienza della sentenza della Corte Costituzionale n. 5 del 1980 non incideva sulla ritualità del pregresso procedimento amministrativo e dell’instaurazione del giudizio innanzi al giudice ordinario, ma comportava solo che la concreta determinazione dell’indennità di espropriazione doveva essere fatta in base ai criteri legali effettivamente vigenti al momento della decisione;

– a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 233 del 1983 erano venuti meno i criteri dettati dalla L. n. 385-1980 e per la determinazione dell’indennità non poteva farsi ricorso ai criteri indicati nella legge n. 2892 del 1885 e richiamati dall’art. 12 L. n. 167 del 1962, attesa l’abrogazione di tale norma con lo art. 39 l. n. 22 ottobre 1971 n. 865, ma dovevano applicarsi i criteri stabiliti dalla L. n. 2359 del 1865;

– la stima operata dalla c.t.u. sulla base del criterio dettato dall’art. 39 della citata legge era da condividere essendo stata la stessa effettuata sulla base della valutazione comparativa di numerose compravendite avvenute in Ferrara nel periodo di riferimento, sicché doveva ritenersi congruo il valore di L. 14.250 mq pari a complessive L. 21.745.500;

– agli attori doveva riconoscersi il diritto ai maggiori danni da svalutazione monetaria sulla somma loro spettante, sulla base della ragionevole presunzione che gli stessi l’avrebbero posta al riparo dall’inflazione in atto e non potendosi escludere la colpa nel comportamento dell’Ente espropriante dal momento che la somma offerta (L. 40 mq) appariva irrisoria anche in relazione alle norme vigenti al momento dell’espropriazione e poi dichiarate incostituzionali, le quali consentivano una valutazione della indennità in misura più elevata;

– la rivalutazione andava determinata nella misura del 185% sulla base delle indicazioni fornite dal c.t.u. e degli indici Istat, sicché spettava agli attori la complessiva somma di lire 61.974.675, oltre gli interessi legali dalla data dell’espropriazione.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione il comune di Ferrara sulla base di due motivi cui resistono con controricorso i fratelli Matteucci. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

Con il primo motivo il Comune di Ferrara denuncia la falsa applicazione dell’art. 39 della legge n. 2359 del 1865, in relazione all’art. 16 e all’art. 18 della legge n. 865-71, come modificata dalla legge n. 10-77 e della legge n. 385-80 e successive modificazioni, nonché alle sentenze della Corte Costituzionale n. 5-80 e 223-83, oltre al vizio di carenza di motivazione.

Il Comune sostiene che gli elementi considerati dalla Corte d’appello al fine di qualificare come edificatorie le aree espropriate (frutto di una immotivata scelta dell’istruttore nella impostazione dei quesiti al consulente tecnico) sono inidonei a colmare il salto di disciplina determinato dalle sentenze della Corte costituzionale 5-80 e 223-83 tra le aree a carattere agricolo (tuttora soggette della disciplina delle norme dichiarate incostituzionali con riguardo ai suoli edificatori) e quelle aventi quest’ultima caratteristica (ora soggette alla disciplina della legge n. 2359 del 1965), a tale fine essendo necessari il riferimento a criteri certi e il riscontro puntuale degli elementi da cui desumere la natura edificatoria del terreno, tenuto conto degli effettivi atteggiamenti dei proprietari delle aree e della preesistenza di strumenti di urbanizzazione relativi all’area espropriata, in ossequio ai principi informatori delle leggi del 1971, 1977 e 1980, non venuti meno a seguito delle decisioni della Corte costituzionale; e non essendo sufficiente l’art. 39 della legge del 1865 a costituire un principio generale né essendo espressione di normativa speciale le citate leggi del 1971, 1977 e 1980. Principio generale, secondo il ricorrente, è non già quello enunciato espressamente in norme scritte, ma quello che risulta dall’intero corpo della normazione positiva; e rispetto ad esso l’art. 39 non è sufficiente a colmare il vuoto aperto dalle sentenze della Corte Costituzionale, posto che, nella determinazione dell’indennità, si deve avere riguardo alle “caratteristiche essenziali” e alla “destinazione economica” del bene espropriato, non adeguatamente considerati dal consulente tecnico (che operava in un momento d’incertezza legislativa), onde sarebbe stato opportuno disporre nuove e più puntuali indagini peritali con la determinazione di più precisi indirizzi.

Nelle suesposte censure -che questa Corte ritiene infondate- sono promiscuamente trattati problemi di natura diversa: quello relativo alla congruità della motivazione circa la ritenuta natura edificatoria del bene espropriato; quello, economico estimativo (che peraltro rifluisce nel primo), circa la individuazione degli elementi in presenza dei quali tale natura può essere affermata; quello, strettamente giuridico, relativo alla ricerca della disciplina applicabile nella determinazione della indennità per i suoli edificatori, dopo le pronunzie d’illegittimità costituzionale di cui alle sentenze n. 5-80 e 223-83. Quest’ultimo problema influirebbe, secondo il ricorrente, sulla soluzione del secondo, nel caso che, per effetto di non ben precisati principi tuttora desumibili dalle norme espunte dall’ordinamento della Corte costituzionale, residuerebbero, ai fini del riconoscimento della natura edificatoria dei suoli, criteri legali dai quali l’interprete non potrebbe discostarsi.

Per tale via si tende sostanzialmente a recuperare, come principi di massima, quelle disposizioni che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittime in quanto contrarie ai precetti costituzionali proprio nella espressione di quei principi in base ai quali l’indennità di espropriazione sarebbe mantenuta in misura irrisoria o meramente simbolica.

Sembra trascurare il ricorrente che la sentenza n. 5-80 (di cui egli propone una lettura inesatta e riduttiva della sua reale portata) nuove della considerazione che l’indennità di espropriazione, se non deve necessariamente costituire una integrale riparazione per la vendita subita, deve tuttavia rappresentare un serio ristoro e che a tal fine occorre far riferimento “al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso, secondo legge”; ed aggiunge che “per le aree destinate alla edificazione, in quanto poste in zone già interessate dallo sviluppo edilizio, deve ritenersi essenziale tale destinazione”. La Corte costituzionale, inoltre, ha escluso che lo ius aedificandi dipenda dal rilascio della concessione edilizia nell’ambito della predisposizione di strumenti urbanistici per la determinazione legale della conformazione urbanistica del territorio, ma ha precisato che la rigidità del sistema normativo, instaurato per la disciplina della edificabilità dei suoli, non è tale da legittimare le conseguenze che se ne vorrebbero trarre e che il diritto di edificare continua ed inerisce alla proprietà, pur se ne sia limitato o compresso il contenuto, nel senso che esso appartiene al proprietario, o al titolare di altro diritto reale, al quale altri non può essere autoritativamente sostituito. Infine, la Corte costituzionale ha osservato che la rilevanza, ai fini della indennità di espropriazione, della destinazione edilizia dei suoli è implicitamente riconosciuta dal sistema attuato con la legge 865-71 e successive modificazioni e, che tale rilevanza è operante nel nostro ordinamento anche dopo l’attuazione delle nuove norme per la edificabilità dei suoli, com’é dimostrato dalle disposizioni tributarie che legittimano la tassazione del valore edificatorio delle aree, desunto dalla loro collocazione in un insediamento edilizio.

Dalla citata sentenza non è lecito trarre i principi che il ricorrente pretende, se non adottando quei criteri che in essa risultano esplicitamente o implicitamente ripudiati e cioé il concetto di edificabilità ancorato soltanto all’attuazione di precisi strumenti urbanistici, in quanto essi possono influire negativamente sulla condizione economica del bene, ma non possono positivamente attribuire, in via esclusiva, una destinazione edificatoria che il bene, per le sue caratteristiche naturali e per l’assenza di precisi divieti legali, già non avesse.

Né può in questa sede esaminarsi, perché prospettata solo nella memoria, la deduzione secondo cui, nel caso concreto, la natura edificatoria del suolo espropriato non si potrebbe riconoscere ai fini della determinazione della indennità, perché attribuita per la prima volta nel piano per l’edilizia economica e popolare: e ciò a prescindere dalla contraddittorietà dell’assunto, in quanto da un lato nega la edificatorietà e dall’altro la riconosce sia pure in dipendenza dal piano, e dal riferimento di tale carattere, nella sentenza impugnata, ad epoca anteriore all’adozione del piano, per cui la possibilità di sfruttamento edilizio era già consentita al proprietario del suolo anteriormente a indipendentemente dalla adozione del piano medesimo.

La tesi del ricorrente non può, dunque, essere seguita nella impostazione dalla quale muove, essendo del tutto neutra la disciplina dichiarata incostituzionale, come quella residuata da tale dichiarazione, rispetto all’accertamento del carattere edificatorio, o meno, del bene espropriato; né se ne possono condividere le conclusioni circa la inidoneità delle norme contenute nella legge del 1865 a colmare il vuoto determinato dalle sentenze della Corte costituzionale.

Una volta tenuto distinto il problema estimativo, relativo alla natura del bene, da quello giuridico della individuazione della norma applicabile in luogo di quelle espunte dall’ordinamento (problema, quest’ultimo, che il ricorrente assume doversi risolvere in base ad un principio non bene individuato, da desumersi dall’intero corpo della normazione positiva, e che pecca di genericità ed astrattezza per potersene fare sicura e concreta applicazione), non resta che aderire ai principi, enunciati dalle Sezioni unite con la sentenza n. 4091-85 a conferma di un indirizzo univocamente affermato nell’ambito di questa sezione (v. sent. 1197; 3278, 3314, 5620 e 6467-84), secondo cui, per i suoli edificatori, in luogo dei criteri di determinazione dell’indennità colpiti dalla dichiarazione d’incostituzionalità, devono applicarsi quelli dettati in via generale dalla legge del 1865.

La sentenza impugnata, che di tale indirizzo ha fatto applicazione, si sottrae, sotto tale profilo, alle censure formulate con il primo motivo. Essa, peraltro, non è neppure censurabile sul piano della congruità della motivazione, poiché, da un lato, non risponde al vero che essa sia stata condizionata, nel suo iter argomentativo, dal modo con cui erano stati formulati i quesiti al consulente tecnico (essendosi, la Corte, posto il problema se i terreni espropriati avessero, oppure no, natura edificatoria); dall’altro, lo svolgimento della motivazione risponde a corretti principi di diritto ed a canoni di logica e di coerenza interna, che, solo, potrebbero essere sindacati in questa sede.

La Corte d’appello, facendo corretta applicazione dei principi enunciati dalla sentenza n. 5-80 della Corte costituzionale, ha rilevato che le aree espropriate dovevano considerarsi edificatorie in base alle loro caratteristiche intrinseche e come tali dovevano essere indennizzate, indipendentemente dalla loro inclusione nel perimetro del centro abitato delineato ai sensi dell’art. 18 della legge 865-71. Esse, infatti, come aveva accertato in modo incontroverso il consulente, sono situate nell’immediata periferia della città di Ferrara a sud-ovest della ferrovia Ferrara-Ravenna, in zona dove da oltre mezzo secolo vi sono due strade (le attuali via Mambro e Rambaldi) e un modesto sviluppo edilizio, mentre da circa un decennio tale sviluppo, pilotato prima dal piano di fabbricazione e dopo dal piano regolatore, s’ è ulteriormente esteso. L’ubicazione, l’accessibilità, lo sviluppo edilizio in atto nella zona immediatamente adiacente, la presenza di servizi pubblici e sociali attestavano, quindi, una concreta attitudine edificatoria, del resto riconosciuta dallo stesso Comune, il quale, prima della dichiarazione di incostituzionalità della legge n. 385-80, aveva sostenuto l’applicabilità dei criteri riferiti alle aree edificabili.

La Corte d’appello ha per ciò ribadito che, come la corte costituzionale aveva precisato, l’indennità doveva essere determinata con riferimento alle caratteristiche reali del bene espropriato ed alla sua destinazione economica; ed ha precisato che, anche quando un suolo sia gravato da vincoli di inedificabilità imposti da strumenti urbanistici e preordinati alla espropriazione poi attuata, il giudice chiamato a determinare l’indennità non deve tenere conto dell’influenza negativa esercitata da tali vincoli sul preesistente valore di mercato del bene.

Con il secondo motivo, il Comune ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1224, 2° comma, c.c., nonché il vizio di omessa e contraddittoria motivazione, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto responsabile l’Amministrazione per il danno cagionato, nelle more del pagamento dell’indennità, dalla svalutazione monetaria. Sennonché -sostiene il ricorrente- mancano nel caso concreto i presupposti di tale responsabilità, poiché esso aveva determinato l’indennità in base ai criteri tabellari all’epoca vigenti in materia e non può essere, quindi, chiamato a rispondere degli effetti derivanti dalla successiva dichiarazione d’incostituzionalità dei criteri adottati in osservanza di un obbligo di legge. Né la Corte d’appello, nel ravvisare la colpa del Comune nella misura irrisoria della indennità (come da esso determinata) anche con riguardo ai parametri di legge all’epoca ancora vigenti, ha giustificato tale affermazione con adeguata motivazione. Infine, sarebbe censurabile la statuizione relativa agli interessi fatti decorrere -e sulla somma rivalutata- dalla data della espropriazione.

Tali censure sono fondate sotto entrambi i profili prospettati. Quanto al primo, la Corte d’appello non ha disconosciuto che la responsabilità per il danno ulteriore, previsto dall’art. 1224, 2° comma, c.c., postula il ritardo colpevole nell’adempimento, da parte del debitore; né ha ravvisato la colpa del Comune nel solo fatto di avere determinato l’indennità in sede amministrativa con l’applicazione dei parametri fissati dalle norme allora vigenti e soltanto successivamente caducate dalla dichiarazione d’incostituzionalità, avendo invece, ritenuto che, pur nella legittima applicazione di tali criteri, il Comune avesse colposamente errato nella qualificazione del bene espropriato e nel non avere rapportato l’indennità alla più favorevole coltura agraria (orto irriguo).

Pertanto, non può rimettersi in discussione il problema se fosse nei poteri dell’ente espropriante discostarsi dai criteri legali tabellari di determinazione della indennità, vigenti all’epoca in cui tale determinazione veniva operata, ed assumere l’iniziativa di una determinazione secondo criteri del tutto liberi, svincolati da quelli rigidamente fissati dalla legge, nel dubbio (da qualche parte già avanzato) della legittimità costituzionale della legge applicata.

la sentenza impugnata dev’essere invece esaminata sotto il profilo residuale della esatta, o meno, individuazione della colpa del debitore.

Orbene, il riesame, in tali limiti consentito a questa Corte, induce a ritenere che la motivazione della sentenza impugnata è del tutto carente, essendosi limitata ad una mera affermazione, non suffragata da alcun riscontro del parametro applicato e di quello effettivamente applicabile, con riguardo alla classificazione del terreno ed agli elementi di fatto a tal fine necessari.

Errata, poi, è la sentenza nella parte relativa alla statuizione sugli interessi, poiché la Corte di appello, ai fini della determinazione del maggior danno (individuato nella sola svalutazione monetaria) in relazione ad una obbligazione pecuniaria, qual è -per costante giurisprudenza- quella avente ad oggetto l’indennità di espropriazione, ha fatto ricorso al criterio della rivalutazione della somma capitale e su di essa ha concesso gli interessi legali, di cui al primo comma dell’art. 1224, facendoli per giunta decorrere dalla data dell’espropriazione.

La Corte d’appello ha, in sostanza, fatto applicazione, per l’ipotesi regolata dall’art. 1224 c.c., dei principi dettati per le obbligazioni derivanti da fatto illecito, secondo cui la rivalutazione della somma da liquidarsi a titolo di risarcimento dei danni e gli interessi sulla somma rivalutata assolvono a funzioni diverse, perché la prima mira a ripristinare la situazione patrimoniale del danneggiato, qual essa era prima del fatto illecito, ed a porlo nella situazione in cui si sarebbe trovato se l’evento dannoso non si fosse verificato, mentre i secondi hanno natura compensativa e sono per ciò compatibili, con la conseguenza che sulla somma risultante dalla rivalutazione debbono essere corrisposti gli interessi a decorrere dal giorno in cui si è verificato il fatto dannoso.

Diversi principi devono applicarsi in tema di maggior danno da inadempimento di obbligazioni pecuniarie.

Invero, gli interessi moratori ex art. 1224, 1° comma, hanno (anche) funzione risarcitoria, rappresentando il risarcimento forfettario del danno, il quale coincide innanzi tutto con gli interessi corrispettivi che il creditore avrebbe in ogni caso conseguito se avesse avuto la disponibilità della somma. Tale funzione risarcitoria si evince direttamente dalla norma, in quanto il secondo comma dell’art. 1224 usa le espressioni “maggior danno” e “risarcimento ulteriore” per indicare quanto è dovuto oltre gli interessi; ed è ugualmente un’obbligazione d’interessi, finalizzata al risarcimento, quella costituita dalle parti che abbiano espressamente convenuto la misura degli interessi moratori.

Se, dunque, gli interessi previsti dalla norma citata vanno inquadrati nella categoria dei “danni”, e il tasso legale costituisce la misura del danno presunto, e se alla stregua dell’art. 1224, il risarcimento del danno costituisce un’obbligazione accessoria che si aggiunge al debito pecuniario, nella ipotesi in cui il danno ulteriore viene liquidato sotto forma di rivalutazione della somma capitale (che costituisce soltanto una delle tecniche applicative del secondo comma dell’art. 1224), al danno presunto, costituito dagli interessi legali, si sostituisce la rivalutazione, quale espressione del totale danno in concreto, idoneo a coprire l’intera area dei danni subiti dal creditore fino al momento della liquidazione. In conseguenza, gli ulteriori interessi sulla somma rivalutata devono essere riferiti al debito già liquidato (cioé quale risulta al momento della liquidazione) e la loro decorrenza -nonostante che diversamente si sia ritenuto con riferimento ad una pluralità di fattispecie non sempre omologhe fra di loro (cfr. i riferimenti contenuti nella sentenza n. 4820-84)- non potrà essere anteriore a detta liquidazione, al fine di evitare che il creditore, veda liquidato due volte lo stesso danno, sia pure attraverso modalità diverse, e consegua più di quanto avrebbe ottenuto se l’obbligazione fosse stata tempestivamente adempiuta.

Pertanto, nei punti investiti dal secondo motivo del ricorso, la sentenza impugnata, in accoglimento del ricorso medesimo, dev’essere cassata, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Bologna, che riesaminerà la controversia, alla stregua delle osservazioni che precedono e dei principi enunciati, e provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo del ricorso e ne accoglie il secondo. In relazione alle censure accolte, cassa la sentenza impugnata e rinvia per nuovo esame ad altra sezione della Corte d’appello di Bologna, che provvederà anche sulle spese del giudizio di Cassazione.
Così deciso in Roma il 27 novembre 1985.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 11 MARZO 1986