Svolgimento del processo

Con ricorso del 23 agosto 1984 Giorgio Rosà chiedeva al pretore di Rovereto, sezione distaccata di Riva del Garda, di dichiarare illegittimo il licenziamento del 25 marzo 1993 con decorrenza 1° aprile successivo, intimatogli dalla Arcese Trasporti s.p.a., della quale era dipendente in qualità di autista di terzo livello, distaccato presso la Cartiera del Garda s.p.a. con mansioni di portinaio, magazziniere e autista. Deduceva il Rosà che l’invocato giustificato motivo oggettivo non era corroborato anche dalla contemporanea impossibilità di essere utilizzato nell’ambito dell’organizzazione aziendale, e che, comunque, si verteva in tema di licenziamento per giustificato motivo soggettivo determinato dal comportamento di esso lavoratore denunziato dalla Cartiera del Garda s.p.a., con veto all’utilizzazione del lavoratore all’interno del suo stabilimento, con lettera 18 marzo 1993, e quindi avente natura disciplinare, per il quale non era stata sperimentata la procedura ex art. 7 della legge n. 300 del 1970.

Il pretore accoglieva la domanda con tutte le conseguenze di cui alla normativa vincolistica in tema di licenziamento individuale.

Il Tribunale di Rovereto respingeva l’appello proposto dalla Arcese Trasporti s.p.a.; spese del grado a carico della società appellante.

Osservava il Tribunale: pacifica la impossibilità, per incompatibilità, di utilizzo del Rosà presso lo stabilimento della Cartiera, era onere della Arcese Trasporti s.p.a. dimostrare la impossibilità di un diverso utilizzo; dall’istruttoria erano emersi elementi, con particolare riferimento all’assunzione di “numerose persone”, che inducevano ad un possibile diverso utilizzo del Rosà; rimaneva, pertanto, confermato l’assunto pretorile, secondo cui il provvedimento espulsivo in realtà sottintendeva un licenziamento ontologicamente disciplinare.

Ricorre per Cassazione la Arcese Trasporti s.p.a. affidando a tre motivi di censura il richiesto annullamento della sentenza impugnata.

Si è costituito il Rosà con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso la Arcese Trasporti s.p.a. denunzia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti (art. 360, n. 5, c.p.c.): il Tribunale, richiamando la relativa giurisprudenza di legittimità, “sembrerebbe” far propria la tesi pretorile circa la sussistenza nel caso di specie di un licenziamento per giustificato motivo soggettivo di natura disciplinare, e tuttavia, nel prosieguo della sentenza, e con richiamo dell’altrettanto relativa giurisprudenza di questa Corte, esaminando la possibilità di reimpiego del lavoratore, dimostra contraddittoriamente di accedere alla tesi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Il motivo è infondato.

Il giudice di appello, in realtà, nella parte iniziale della sua motivazione, premette che “nel caso di specie, si tratta di individuare l’esatta natura del licenziamento intimato dalla Arcese al Rosà”, quindi riassume (“si è visto quale è stato”) “l’interpretazione pretorile data alla fattispecie” e il conforto giurisprudenziale di legittimità alla interpretazione stessa, e tuttavia, in prosieguo, in riferimento alla tesi della società appellante circa la sussistenza nella ipotesi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, e richiamando a sua volta la giurisprudenza di legittimità cui si riferisce la medesima società, precisa che “proprio tale giurisprudenza offre però la possibilità di poter correttamente inquadrare l’odierna fattispecie”, e conclude, in thema, che “nel caso in esame, preso atto della impossibilità, per l’incompatibilità con la gestione delle Cartiere, di mantenere il Rosà presso lo stabilimento predetto, era onere dell’Arcese dimostrare che il dipendente non poteva essere adibito ad altro lavoro”. L’attenta lettura della sentenza impugnata rivela, ancora, che il Tribunale esclude, con riferimento alle risultanze istruttorie, che sia stato correttamente assolto l’onere probatorio della società sulla impossibilità di una ricollocazione del Rosà nell’organizzazione aziendale “in luogo diverso dalle Cartiere”, e, con espressione alquanto incerta, ma sostanzialmente superflua e quindi irrilevante, conclude che “rimane, pertanto, confermato l’assunto pretorile secondo il quale dietro il licenziamento per giustificato motivo si nasconde un licenziamento ontologicamente disciplinare, con le relative conseguenze derivanti dalla mancata osservanza della normativa in tema”. Tale ultima espressione, va ribadito, esula dalla motivazione (in diritto) della statuizione, che invece poggia, evidentemente, solo ed esclusivamente sul mancato onere probatorio da parte della società in ordine alla ricollocabilità del Rosà nell’ambito dell’organizzazione aziendale, che costituisce, invece, l’unico elemento effettivamente e concretamente affrontato e discusso. Dunque, la contraddizione è del tutto apparente e sostanzialmente insussistente: di tanto, dà atto la stessa ricorrente, allorché si esprime (vedi ricorso) che “sembrerebbe, dunque, che anche il Tribunale faccia propria questa tesi, vale a dire che nella fattispecie, si tratterebbe di licenziamento per giustificato motivo soggettivo” sostenuta dal pretore, e più oltre che “il Tribunale, con l’esame della possibilità o impossibilità di impiegare il lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo, ha gravemente inficiato l’affermazione che si tratti di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, ed in buona sostanza sembra abbia accolto la tesi della Arcese Trasporti, che si tratta di licenziamento per giustificato motivo oggettivo”.

Con il secondo motivo di ricorso la Arcese Trasporti s.p.a. denunzia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti (art. 360, n. 5, c.p.c.): gli elementi istruttori dimostravano incontestabilmente l’erroneità dell’affermazione che molti lavoratori assunti dopo il licenziamento erano stati addetti alle medesime mansioni svolte dal Rosà, che erano quelle esclusive di movimentazione all’interno della Cartiera con guida di autoveicoli senza rimorchio della massa complessiva superiore a 3.500 kg; solo due lavoratori assunti erano del medesimo livello retributivo del Rosà, uno dei quali aveva sostituito il lavoratore licenziato, e l’altro addetto “con la qualifica di impiegato presso gli uffici della sede di Arco”; non era stato possibile collocare il Rosà per il servizio di portineria presso la società ricorrente, atteso che per detto servizio era necessaria la patente e di cui il dipendente era sfornito, né per il servizio di magazzino, nel cui settore la società era anche sovradimensionata; i lavoratori assunti erano o tutti muniti di patente E, e lo stesso lavoratore che aveva sostituito il Rosà presso la Cartiera ne stava ultimando il conseguimento, ovvero al patente C ma addetti a lavori di magazzino di 6° o 5° livello; il Rosà non aveva mai indicato in giudizio un concreto posto di lavoro libero o almeno ricavabile; in conclusione, all’atto del licenziamento, non vi erano posti disponibili per l’esercizio di mansioni pari o equivalenti a quelle del Rosà.

Anche questo secondo motivo, che, come si è detto, censura la sentenza impugnata nella sua vera (e unica) argomentazione posta a fondamento della decisione, è infondato.

Va preliminarmente esaminato il problema, cui in verità la stessa società ricorrente sembra dare una soluzione che appare del tutto logica e corretta, pur in presenza di una giurisprudenza anche di legittimità non decisamente uniforme e costante (la questione è oggi sottoposta al vaglio delle SS.UU. di questa Corte per un certo contrasto fra precedenti di questa Sezione Lavoro), circa l’obbligo del cd. repechage (reimpiego del lavoratore nell’ambito dell’organizzazione aziendale) da parte del datore di lavoro (il cui onere probatorio a sensi dell’art. 5 della legge n. 604 del 1966 cede incontestabile a carico dello stesso) che ponga in essere un licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

In termini, il problema, posto in principalità in relazione ai casi di impossibilità sopravvenuta della prestazione per parziale inidoneità fisica, in realtà si riferisce a tutti i casi di impossibilità sopravvenuta della prestazione per fatti imputabili o non al lavoratore stesso, fra i quali, oltre la (ricorrente) ristrutturazione aziendale con perdita di posti di lavoro, cui ormai pacificamente è ricondotto l’obbligo di repéchage, la inidoneità ad effettuare la prestazione in un determinato luogo o secondo determinate modalità (Cass., n. 1970 del 1992, n. 02461 del 1992, n. 08947 e n. 9453 del 1993, n. 07638 del 1996), ovvero per la revoca di un elemento abilitante alla prestazione (Cass., n. 05848 del 1987, n. 05176 del 1988, n. 02727 del 1989), ovvero ancora per la intervenuta detenzione per reati estranei alla prestazione (Cass., n. 02256 del 1981, n. 01965 del 1985, n. 07048 del 1994), ovvero, infine, per fatti in qualche modo connessi ad un “impedimento addebitabile al lavoratore stesso” (Cass., n. 04294 del 1986, n. 01115 del 1992, e, indirettamente, n. 09453 del 1993).

Va osservato, innanzitutto, quanto a tale ultima ipotesi di inidoneità connessa a cd. “colpa del lavoratore”, particolarmente interessante per la sua assimilazione al caso in esame a questo Collegio, che una qualche incertezza è ravvisabile nelle pronunzie richiamate, atteso che, in particolare, da esse non è dato rilevare il concetto stesso di “colpa del lavoratore” o di “impedimento addebitabile al lavoratore stesso” al quale è stato ricollegato il, di volta in volta, negato o dichiarato onere del cd. repéchage a carico del datore: è stato, infatti, ritenuto il datore di lavoro sollevato dall’onere di provare la impossibilità di collocazione nell’ambito dell’organizzazione aziendale allorché il lavoratore è stato licenziato per giustificato motivo oggettivo consistente nella sopravvenuta impossibilità della prestazione per ritiro del nullaosta delle autorità doganali per furto commesso sul posto di lavoro (Cass., n. 01115 del 1992 citata); è stato, invece, ritenuto soggetto a tale onere il datore di lavoro che ha provveduto al licenziamento del lavoratore che aveva visto negato il nullaosta al rilascio del nuovo tesserino di ingresso all’area aeroportuale perché arrestato per furto o ricettazione perpetrato sul luogo di lavoro (Cass., n. 09453 del 1993). Da dette decisioni, cioè, non è dato rilevare, attesi i fatti sostanzialmente e concettualmente identici, quale sia in effetti la cd. “colpa del lavoratore” che costituisca in concreto il discrimine fra l’obbligo o non del repéchage (donde, il relativo onere probatorio) da parte del datore di lavoro che avesse risolto il rapporto per parziale impossibilità sopravvenuta a sensi dell’art. 1464 c.c.

L’incertezza giurisprudenziale, almeno nella ipotesi che si muove nell’ambito concettualmente assimilabile al grave inadempimento, ad avviso di questo Collegio, trova origine nel tentativo di sottintendere l’obbligo del cd. repéchage al fatto sostanziale della riconducibilità del licenziamento ai motivi sottesi alla sopravvenuta parzialità della prestazione, e non anche, come sembra più opportunamente auspicabile, alla scelta del datore di lavoro nella configurazione formale del motivo, soggettivo ovvero oggettivo, perseguita di volta in volta dal datore di lavoro: perché, deve ritenersi assolutamente incontestabile, che la “scelta” del datore di lavoro di perseguire la strada del licenziamento del giustificato motivo soggettivo comporta, a pena di nullità, l’obbligo dello stesso di sperimentare la procedura del licenziamento disciplinare; e ciò, senza che il veto del terzo alla prestazione, quando esso sia dovuto a motivi intersoggettivi tra il detto terzo e il lavoratore, possa determinare quella oggettività del licenziamento, nell’ambito della quale successivamente inserire, o non, l’obbligo del cd. repéchage, svincolando contemporaneamente il provvedimento dalla tutela del lavoratore cononizzata nella procedura disciplinare.

La suddetta tesi, ad avviso di questo Collegio, chiarisce i termini della questione. La scelta del datore di lavoro di procedere al licenziamento per, tout court, giustificato motivo oggettivo determinato dalla sopravvenuta impossibilità della prestazione per il veto del terzo, comporta l’obbligo del datore di lavoro al cd. repéchage, con onere probatorio a suo carico, e, nel caso inverso per giustificato motivo soggettivo, alla sperimentazione, a pena di nullità, della procedura ex art. 7 della legge n. 300 del 1970, nell’un caso e nell’altro con i rischi che la scelta comporta.

Nel caso di specie, la società, ha decisamente e dichiaratamente scelto la strada del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, e su di essa ha insistito sia nei giudizi di merito che nel presente di legittimità, e, pur senza abbandonare la posizione, rigida, della esclusione dell’obbligo del repéchage del Rosà a seguito del veto delle Cartiere, tuttavia si adopera (evidentemente per la debolezza della tesi rigida sopra indicata) per la dimostrazione della impossibilità di ricollocazione del lavoratore nell’ambito della organizzazione aziendale, il cui onere, assume, sarebbe stato assolto nel “modo più esauriente e convincente” possibile.

Il giudice del riesame osserva, in proposito, che “numerose persone” erano state assunte con qualifica di autista di terzo livello, che il Rosà, pur non potendo condurre autotreni per mancanza della patente di categoria E, era comunque abilitato alla guida di motrici, che tra i numerosi assunti, ancorché “con riserva”, nel periodo successivo all’aprile 1993 ve ne erano di sprovvisti di patente di categoria E, e che il Rosà, pur lavorando “prevalentemente per le Cartiere, svolgeva ancora lavori di portineria presso la Arcese”. Sulla base di tali elementi lo stesso giudice, con riferimento al numero complessivo dell’azienda di oltre 120 dipendenti, conclude sostanzialmente per la insussistenza della prova circa la impossibilità “di utilizzare il Rosà in luogo diverso dalle Cartire”.

A fronte della motivazione di cui sopra la società oggi ricorrente oppone una serie di elementi, in realtà, in parte inammissibili e in parte irrilevanti, se non proprio confermativi, della corretta impostazione della sentenza.

Ed invero. Si propone che il Rosà era “addetto esclusivamente nei servizi all’interno degli stabilimenti della Cartiera” e che “la ditta Arcese Trasporti ha assunto esclusivamente lavoratori con mansioni, qualifiche e livelli retributivi diversi da quelli del lavoratore licenziato, che erano quelli di conducente del terzo livello, abilitato alla guida esclusiva di autoveicoli” senza rimorchio della massa complessiva superiore a 3.500 kg. A sostegno di tali affermazioni, in deciso contrasto con gli accertamenti di merito, si analizzano alcune posizioni di nuovi lavoratori assunti e si riportano brani di testimonianze in contrasto con quelle esaminate in sentenza. Orbene, deve ritenersi, in conformità all’indirizzo in thema di questa Corte, che gli elementi opposti dalla società ricorrente non siano sufficienti al richiesto annullamento. Ben vero, “nel controllo in sede di legittimità della adeguatezza della motivazione del giudizio di fatto contenuto nella sentenza impugnata, i confini tra da un lato – la debita verifica della indicazione da parte del giudice di merito di ragioni sufficienti, senza le quali la sentenza è invalida, e – dall’altro – il non ammissibile controllo della bontà e giustizia della decisione possono essere identificati tenendo presente che, in linea di principio, quando la motivazione lascia comprendere le ragioni della decisione, la sentenza è valida. Tale rilievo non esclude la necessità che dalla motivazione (alla luce del disposto del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., nel testo di cui alla novella del 1950) risulti il rispetto, nella soluzione della questione di fatto, dei relativi canoni metodologici, dall’ordinamento direttamente espressi o comunque da esso ricavabili. Deve rimanere fermo, però, che la verifica compiuta al riguardo può concernere la legittimità della base del convincimento espresso dal giudice di merito e non questo convincimento in se stesso, come tale incensurabile. È in questione, cioè, non la giustizia o meno della decisione, ma la presenza di difetti sintomatici di una possibile decisione ingiusta, che tali possono ritenersi solo se sussiste un’adeguata incidenza causale dell’errore oggetto di possibile rilievo in Cassazione (esigenza a cui la legge allude con il riferimento al “punto decisivo”). In relazione, poi, al principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione e del carattere limitato del relativo mezzo di impugnazione, il vizio di motivazione non può costituire oggetto di una generica doglianza, ma sussiste l’onere del ricorrente di indicare le relative circostanze ed elementi, con riferimento anche all’incidenza causale dell’errore in questione” (Cass., 16 gennaio 1996, n. 00326). E dunque, non può ritenersi correttamente proposta la censura in esame, essendo con essa semplicemente introdotte mere affermazioni in contrasto con quelle del giudice di merito, ovvero richieste di sostituire agli elementi probatori accertati e valutati da quest’ultimo quelli diversi e neanche completamente indicati e riportati di cui al ricorso. Evidente il contrasto di detto assunto con i principi della insindacabilità in questa sede delle valutazioni, ove logicamente e congruamente motivate, del giudice di merito “al quale spetta esclusivamente individuare le fonti del proprio convincimento, di esaminare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute più idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare la prevalenza all’uno a all’altro mezzo di prova, salvi i casi tassativamente previsti dalla legge” (Cass., 18 marzo 1995, n. 03205), e dell’autosufficienza del ricorso per Cassazione.

Con il terzo motivo di ricorso la Arcese Trasporti s.p.a. denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966, artt. 1464 e 2119 c.c. (art. 360, n. 3, c.p.c.): il licenziamento per giustificato motivo soggettivo non può essere intimato quando il rapporto debba essere in ogni caso risolto; la Cartiera aveva ufficialmente chiesto alla società di non adibire più il Rosà a servizi presso di essa; la posizione è analoga alla revoca di permessi, autorizzazioni o abilitazioni, ove necessari e concessi; trattasi, pertanto, di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, legittimato da colpa del lavoratore in ordine all’impedimento a svolgere le mansioni; in tal caso il recedente non è onerato della prova di una diversa collocazione; la procedura garantistica del licenziamento disciplinare avrebbe potuto conseguire un risultato a favore del Rosà, con la conseguenza oggettiva di impossibilità di reintegrare il lavoratore nel posto in precedenza occupato o comunque di ricollocarlo diversamente; il Tribunale aveva accertato una causa di sopravvenuta impossibilità della prestazione per colpa del dipendente, donde la piena legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Il motivo è in parte assorbito dalle precedenti argomentazioni e in parte è infondato.

Si è già detto che il provvedimento espulsivo è stato dichiaratamente intimato per giustificato motivo oggettivo, ed in tal senso, sostanzialmente, deve ritenersi assunto dal Tribunale ed ancora in questo giudizio, sicché tutte le lamentele riconducibili ad una (improbabile) diversa natura del licenziamento per giustificato motivo soggettivo non trovano legittimo ingresso in questa sede.

Quanto all’assunta insussistenza dell’obbligo di repéchage, che, per le considerazioni sopra svolte, si è visto, invece, direttamente e automaticamente riconducibile alla natura del licenziamento intimato, va rilevato ulteriormente che, nella specie, il cd. veto delle Cartiere alla prestazione del Rosà nell’ambito della propria organizzazione aziendale, a ben vedere, non equivale certo alla dedotta perdita “secca” del posto di lavoro, atteso che da nessuna parte risulta, ed anzi sembra risultare esattamente il contrario (vedi mansioni di portiere e di magazziniere), che il Rosà era stato assunto per prestare la propria attività in quel luogo geografico. Ed allora, configurandosi la modalità spaziale della prestazione come una direttiva del datore di lavoro sulle modalità della prestazione nell’ambito del suo (insindacabile) potere organizzativo e gestionale dell’azienda, la modificazione di tale elemento non significa affatto che il lavoratore non possa prestare la propria attività, e quindi la intera prestazione, in qualsiasi altra parte dell’unità aziendale. Una diversa direttiva datoriale, che, realizzando le ulteriori e diverse componenti del contratto di assunzione, sopperisca al venir meno della specificazione geografica della prestazione, costituisce obbligatorio intervento organizzativo nell’ambito della predisposizione di quanto necessario a riceversi la prestazione lavorativa per la quale era avvenuta l’assunzione, tenuto conto che essenzialmente la modificazione di una modalità di essa non integra di per sé la dedotta impossibilità sopravvenuta. Si è nell’abito, cioè, della necessaria cooperazione tra i contraenti per il raggiungimento dello scopo del contratto di lavoro, da conseguirsi con una ipotesi di mutamento delle modalità di espletamento della prestazione, piuttosto che di un vero e proprio mutamento delle mansioni stesse. Il ricorso, pertanto, va rigettato, e le spese del giudizio di Cassazione, per la incertezza giurisprudenziale sulle questioni trattate, vanno dichiarate interamente compensate tra le parti.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; dichiara interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di Cassazione.
Così deciso in Roma il 5 maggio 1998.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA L’1 OTTOBRE 1998.