Svolgimento del processo

Con ricorso al Pretore di Padova notificato il 15.6.1981 il Dott. Mario Prestana esponeva di aver prestato attività lavorativa dal 23.9.74 alle dipendenze della Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo in qualità di impiegato di 1° categoria;

che nel marzo 1980 l’Istituto era venuto a conoscenza che esso attore aveva instaurato dal 1°.8.77 anche parallelo rapporto di lavoro con l’Amministrazione dello Stato, ricoprendo il posto di vice direttore dell’Ufficio Distrettuale delle Imposte di Verona, percependo dalla data suddetta fino al 31.3.1979 duplice retribuzione;

che la doppia occupazione era stata effettuata avendo prestato attività lavorativa a favore della P.A. in periodi in cui esso ricorrente risultava assente per malattia o altri motivi dal posto di impiegato della Cassa di Risparmio;

che detto comoportamento gli veniva contestato con lettera 24.3.1980;

che con lettera 16.4.1980 l’avv. Avrese comunicava alla convenuta che le condizioni di salute psichica del suo assistito erano precarie per cui non era in grado di fornire giustificazioni, allegando la documentazione medica a firma del prof. Caprini; che con lettera del 28.4.1980 l’Istituto gli comunicava la sospensione del servizio a sensi dell’art. 84 del contratto collettivo e con lettera 2.12.1980 il provvedimento di destituzione a sensi della lettera F dell’art. 27 del predetto contratto a far tempo dal 28.4.1980;

che con lettera raccomandata 2.1.1981 era stato impugnato il recesso; ciò premesso il Prestana chiedeva venisse accertata la nullità del licenziamento, in quanto intimato senza giusticazione.

La Cassa di Risparmio, costituitasi in giudizio, chiedeva il rigetto della domanda ed – in via riconvenzionale – la domanda del Prestana al pagamento della somma di L. 1.287.736.

Veniva prodotta in causa la consulenza di parte del prof. Introna il quale concludeva per l’incapacità di volere del predetto.

Il Pretore respingeva la domanda prosposta in via principale ed accoglieva la domanda riconvenzionale con sent. 26 maggio 1982, che, su gravame del Prestana, era confermata dal Tribunale di Padova con sent. 18 dicembre 1982.

Il Tribunale, premesso come pacifico in cause che il Prestana aveva prestato contemporaneamente attività lavorativa alle dipendenze della Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo in qualità di impiegato e della P.A. come vicedirettore dell’Ufficio Distrettuale delle Imposte Dirette di Verona;

che aveva percepito doppia retribuzione dall’1.8.1977 al 31.3.1979;

che il doppio impiego gli era stato possibile, avendo egli approfittato di periodi in cui figurava in malattia e assente per altri motivi dalla Cassa per presentarsi al lavoro all’Ufficio Imposte, e premesso altresì che il Dott. Prestana aveva chiesto che venisse accertato mediante consulenze prodotte (quella di parte e quella espletata nel procedimento penale a suo carico) uno stato di incapacità di volere rilevante in relazione alla intimato il licenziamento per giusta causa, osservava che detta capacità si fondava sulla diagnosi di nevrosi della personalità con caratteristiche ossessive-coatte comportanti un meccanismo coercitivo sull’individuo, impedito nella libera scelta del suo comportamento.

Che il Prestana soffrisse di disturbi nevrotici di natura ossessiva il Tribunale desumeva non solo dagli elaborati di cui innanzi, ma anche dall’esame del suo comportamento antecedente ai fatti: la ricerca della perfezione, il continuo ricorso al concorso, il non saper decidere né in tema di lavoro né di vita sentimentale, circostanze tutte indicative di una personalità non perfettamente equilibrata.

Nel caso di specie andava, tuttavia, tenuto conto delle capacità psichiche del soggetto agli effetti di valutare la colpa incidente sulla dedotta giusta causa.

Era rimasto accertato che il Prestana, nonostante la sua personalità disturbata, conservava lucida la coscienza ed intatta la capacità di intendere; egli, pertanto, capiva chiaramente la assoluta incompatibilità dei due incarichi di lavoro che aveva assunto, la illegittimità di una doppia retribuzione per prestazioni che venivano svolte in orari di lavoro coincidenti; la fraudolenza delle giustificazioni addotte pe rle sue assenze.

Di fronte a tale gravità di comportamento, che non sfuggiva alla coscienza del Prestana, non poteva operare la dedotta esimente, fondata sulla natura coattiva di impulsi ossessivi che avrebbero condizionato le scelte operative del predetto, perché essi non apparivano tali da rendere impossibile una decisione doverosa anche ad un soggetto vittima di nevrosi ossessiva.

Vale a dire che se il Prestana era spinto a comportamenti non sempre coerenti, come il sottoporsi a continue prove di esame, il non sapersi determinare nella scelta del domicilio, l’essere titubante di fronte a possibili occupazioni lavorative comportanti elementi vantaggiosi e svantaggiosi insieme, ciò non significava che fosse talmente privo di volontà da non potersi sottrarre a comportamenti così gravi come quelli denunciati ed ammessi.

Andava, pertanto, confermato il licenziamento, essendo giustamente stato dedotto l’infedeltà del dipendente, comportante l’assoluta rottura del rapporto giudiziario, anche a tener conto di ogni giustificazione possibile.

Quanto alla dedotta immediatezza del licenziamento, osservava il Tribunale che, in realtà, nonostante fossero trascorsi diversi mesi fra la prima contestazione mossa dalla Cassa al dipendente, le accurate indagini svolte presso la Pubblica Amministrazione si erano rese necessarie, da una parte, per le contestazioni sia pure generiche, mosse dal legale del Prestana in ordine alle accuse rivolte al suo cliente e la richiesta di proroga dei termini a difesa nel corso del procedimento disciplinare, e dall’altra parte per le vaghe informazioni rese dalla P.A..

Quanto alla doglianza concernente la retroattività del licenziamento osservava il Tribunale che la retrodatazione del licenziamento al momento della sospensione del rapporto di lavoro era prevista dall’art. 89 del contratto collettivo; che la norma non appariva illegittima;

che nel caso di specie la lunghezza dell’indagine era giustificata;

che di conseguenza, essendo retroagibile il licenziamento alla data di sospensione, altrettanto legittima era la mancata corresponsione della retribuzione nel periodo di sospensione.

Avverso tale decisione ricore per tre motivi il Prestana; resiste con controricorso la Cassa, che ha presentato altresì memoria.

Motivi della decisione

Col primo motivo di ricorso si lamenta che il tribunale, pur conoscendo le contrarie risultanze emerse sia dalle perizie di parte che da quelle d’ufficio davanti al giudice penale, aveva invece ritenuto che esso Prestana fosse talmente privo di volontà da non potersi sottrarre a comportamenti così gravi come quelli accertati, e ciò senza aver disposto alcuna indagine tecnica sulle condizioni mentali dell’appellante, ma sulla base di sue semplici considerazioni, in tal modo avvalendosi di conoscenze acquisite fuori del processo, e così violando l’art. 115 c.p.c.. D’altronde, l’accertamento delle capacità o incapacità del Prestana era sicuramente rilevante ai fini del decidere, discutendosi di un licenziamento per giusta causa, e non per giustificato motivo obbiettivo, in ordine al quale era perciò rilevante l’elemento soggettivo in ordine ai fatti costituenti giusta causa di recesso, e in particolare quello della colpa.

Col secondo motivo di ricorso si lamenta omessa motivazione sul punto decisivo della controversia costituito dalla richiesta ammissione di consulenza tecnica: il Tribunale, infatti, non ha in alcun modo motivato il mancato accoglimento della istanza istruttoria formulata sin dal primo grado di giudizio, e tuttavia ha ritenuto il Prestana, pur in assenza di qualsiasi riscontro oggettivo e probatorio, capace di volere.

I due motivi, che conviene esaminare congiuntamente, sono infondati. Essi hanno per oggetto in primo luogo, ed essenzialmente, la mancata ammissione della consulenza tecnica.

Orbene, tale richiesta, effettuata in appello solo per relationem ai mezzi istruttori richiesti in primo grado, non risulta in alcun modo illustrata e sostenuta nelle pur diffuse e analitiche censure che riempiono le oltre trenta pagine dei motivi d’appello.

Cosicché correttamente il Tribunale, che peraltro ha chiaramente mostrato di tener presente detta richiesta, l’ha rigettata per implicito, come d’altronde poteva ben fare in relazione ad un provvedimento discrezionale, e soprattutto, in mancanza di alcuna specifica collecitazione da parte dell’appellante.

Le valutazioni che il giudice del merito ha direttamente effettuato circa le capacità del Prestana non costituiscono, poi, ricorso a cognizioni extraprocessuali, bensì doveroso e corretto esercizio del potere di critica degli elaborati peritali acquisiti al processo.

Cosicché le attente ed analitiche argomentazioni, con cui esso giudice ha ritenuto che, pur nel grave quadro patologico accertato, il Prestana conservasse le capacità di rendersi conto della scorrettezza del suo comportamento e del venir meno dei suoi obblighi verso il datore di lavoro, si sottraggono a censura; non senza comunque considerare che ogni questione relativa alla capacità del Prestana perde rilevanza in base alle considerazioni del primo giudice – non specificamente censurate in appello, e dunque ormai incontestabili – secondo cui gli obblighi di collaborazione, diligenza e fedeltà (richiamati anche nella lettera di licenziamento) si riferiscono non solo alla correttezza, ma anche alla fiducia – essenziale al permanere del rapporto – e alla idoneità del dipendente a svolgere le funzioni o mansioni affidategli; e tale fiducia, se il soggetto è incapace solo di volere, pur se conservi la capacità di intendere, non poteva non venire compromessa nella fattispecie, essendo chiara la inidoenità del Prestana ad attuare in modo soddisfacente la collaborazione propria del rapporto di lavoro, indipendentemente dalla imputabilità del comportamento addebitatogli.

Col terzo motivo si lamenta che il Tribunale abbia ritenuto legittima la retroazione del licenziamento, e della cessazione dell’obbligo di retribuzione, alla data della sospensione cautelare, perché sebbene la giurisprudenza abbia reputato legittime clausole (quale quella di cui agli artt. 99 e 109 del contratto collettivo applicabile alla specie) che prevedono siffatta retroattività, esse possono trovare ragionevole applicazione solo quando rispondano alle esigenze di predeterminazione, di preventiva contestazione e di rapidità, indicate da detta giurisprudenza.

La sospensione non deve ytradursi in ragion fattasi da parte del datore di lavoro, perché verrebbe a costituire una sanzione disciplinare mascherata, nonostante l’etichetta attribuitale dai contratti collettivi.

Comunque, anche in ipotesi di accertata (ex nunc) legittimità del recesso, il datore di lavoro deve essere condannato a corrispondere al lavoratore le retribuzioni non corrisposte durante il periodi di sospensione.

Anche questa censura è infondata.

La sospensione cautelare del dipendente sottoposto a procedimento disciplinare o penale, mentre, se non prevista dalla legge o dalla disciplina collettiva, può essere dal datore di lavoro applicata nell’esercizio del suo potere direttivo, ma solo nel senso che esso può rinunciare ad avvalersi delle prestazioni del lavoratore, ferma peraltro, stante la unilateralità di tale rinuncia, la sua obbligazione di corrispondere la retribuzione in relazione al perdurante rapporto di lavoro, laddove, invece, normativamente o convenzionalmente prevista, può legittimare – in quanto specificamente stabilito – oltre alla sospensione della prestazione lavorativa, anche quella della controprestazione retributiva (come appunto previsto dal contratto collettivo applicabile alla specie).

la sua durata, peraltro, in armonia con la natura meramente interinale di detta misura cautelare, in quanto tale non sanzionatoria e quindi inidonea a incidere di per sé sulla esistenza delle contrapposte obbligazioni delle parti, non può che essere limitata al tempo occorrente allo svolgimento della procedura cui è propedeutica, cioé quella disciplinare e penale; e la sua efficacia è destinata a risolversi senza residui non appena quella procedura sia esaurita, dato che, se il rapporto non rimanga risolto, esso riprende il suo corso dal momento in cui le rewlative obbligazioni rimasero sospese, mentre, se il rapporto venga meno, la perdita del posto di lavoro e dei connessi diritti risale alla data di inizio della procedura di licenziamento.

Il carattere, dunque, interinale della misura in questione, destinata a durare finché duri il procedimento cui accede, ne comporta la caducità, nel senso che al termine e secondo l’esito di esso di potrà stabilire se la disposta, preventiva sospensione resti giustificata, ovvero debba venir meno a tutti gli effetti, ovvero se gli effetti del procedimento disciplinare debbano risalire – ove espressamente previsto – all’iniziale momento in cui siano state cautelarmente sospese le reciproche obbligazioni.

E’ quanto questa Corte a Sezioni Unite ha ritenuto, anche sulla base di precedenti sue decisioni, nonché tenuto conto di analogo principio canonizzato nel settore del pubblico impiego, con sentenza 26 marzo 1982, n. 1885, e in sezione semplice ha ribadito con sent.

26 luglio 1984, n. 4421.

In relazione a tale giurisprudenza sembra eccessiva la critica, avanzata da pur accorta dottrina, che pone in dubbio che la contrattazione collettiva possa validamente attribuire al datore di lavoro il potere di sospensione cautelare, potendosi replicare che, risolvendosi la procedura disciplinare per la irrogazione del licenziamento in una sostanziale garanzia per il lavoratore, cui si evita la perdita immediata del posto di lavoro e si offre la possibilità di preventivamente scagionarsi, deve necessariamente ammettersi la necessità di una corrispondente garanzia nei riguardi del datore di lavoro, e cioé che la prestazione lavorativa sia nei nei casi più gravi sospesa con provvisoria esclusione del lavoratore stesso dall’azienda fino a che non possa emettersi un provvedimento positivo o negativo in ordine alle mancanze al medesimo addebitate.

Ed una così delicata materia, ai fini di un ragionevole contemplamento dei rispettivi interessi, non può trovare appropriata regolamentazione se non in quegli atti nei quali si sostanzia la fonte stessa del potere disciplinare, e cioé nella contrattazione collettiva, la quale – tenuto conto appunto della finalità garantistica dell’adozione della procedura disciplinare anche per i licenziamenti per giusta causa – può provvedere un corrispondente sacrificio del diritto al lavoro e alla retribuzione in attesa della definizione della procedura stessa (cfr. Cass. 11 marzo 1980, n. 1632).

Certo, proprio muovendo dalla evidenziata finalità garantistica, potrebbe ritenersi che, ove sul punto taccia la disciplina collettiva la misura cautelare (ove non risulti più correlata alla contestazione degli addebiti in sede di procedura disciplinare) debba venire adottata con formalità tali da porre il lavoratore in condizione di sapere in relazione a quale mancanza quella misura venga disposta, e quindi di apprestare le proprie difese; e che la sua durata massima, non predeterminata, debba essere congrua, cioé riconducibile ad un ragionevole contemperamentodei contrapposti intreressi, nel senso che la durata del procedimento disciplinare, ove rimessa all’iniziativa e alla discrezionalità del datore di lavoro, non pregiudichi il lavoratore assoggettatovi.

Ma, quanto al secondo punto, il rimedio è contenuto nel sistema come sopra delineato; invero, un eccessivo protrarsi del procedimento per inerzia del datore dilavoro trova rimedio e disincentivazione nell’obbligo del datore di lavoro di corrispondere le retribuzioni arretrate in caso di conclusione del procedimento stesso in senso favorevole al lavoratore. Al che potrà eventualmente aggiungersi il risarcimento del danno, ove sia ravvisabile altresì violazione di obblighi di correttezza e lealtà, ovvero per lesione del diritto del lavoratore a svolgere la sua attività lavorativa con i conseguenti riflessi professionali.

Se, viceversa, il procedimento si conclude sfavorevolmente al prestatore di opera, la ritenuta legittimità delle clausole collettive che prevedono al retroattività dell’atto espulsivo esclude che possa ritenersi lesa una posizone soggettiva del dipendente.

Nella specie, in relazione all’accenno in proposiuto enucleabile nella censura, va rilevato che il giudice del merito non ha mancato di valutare, sia pure indirettamente, anche tale aspetto, accuratamente indicando (v. narrativa) le concrete ragioni , riferibili essenzialmente all ostesso incolpato che, da un lato, aveva mosso rilievi solo generici e dall’altro aveva chiesto termini a difesa, ma anche al ritardo nelle risposte da parte della pubblica amministrazione con la quale era intercorso il contemporaneo rapporto d’impiego di esso inquisito, per cui il procedimento disciplinare, e la relativa reatroazione del provvedimento risolutorio, si erano prolungati per circa sei mesi.

E, parimenti, quanto al primo punto, dalla sentenza stessa risulta che anche in ordine la provvedimento cautelare l’inquisito era stato posto in grado di svolgere le sue difese, e che le aveva in concreto esercitate.

Il ricorso va dunque rigettato.

La peculiarità della vicenda induce a ritenere sussistenti giusti motivi per la integrale compensazione fra le parti delle spese processuali.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso; dichiara compensate fra le parti le spese e onorari della presente fase.
Così deciso in Roma il 6 novembre 1985.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 19 MAGGIO 1986