Svolgimento del processo

Con citazione del 22 dicembre 1977 la s.p.a. Carapelli conveniva innanzi al Tribunale di Roma il Ministero del Commercio estero e, assumendo la illegittimità, sotto molteplici profili, del provvedimento di incameramento di parte della cauzione da essa prestata, sotto forma di fideiussione bancaria, in relazione al pagamento anticipato di due partite di avena di provenienza argentina, incameramento disposto con D.M. 6 maggio 1977, per omessa importazione nel termine prescritto, di parte della merce pagata, chiede la condanna della predetta amministrazione alla liberazione della fideiussione che l’anzidetto decreto aveva vincolato fino alla concorrenza di dollari USA 10.982,67, ovvero, ove nel frattempo la garanzia fosse stata escussa, alla restituzione della corrispondente somma incamerata, gravata da interessi e svalutazione.

Il Ministero del Commercio estero si costituiva resistendo alla domanda.

Il Tribunale di Roma, con sentenza 12 luglio 1978, rigettava la domanda, condannando la società attrice al pagamento delle spese.

La s.p.a. Carapelli, proponeva appello riproponendo le stesse censure di illegittimità disattese in primo grado.

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza 26 giugno – 7 novembre 1983, accoglieva l’impugnazione e condannava il Ministero del Commercio estero al pagamento, in favore della predetta società, del controvalore in lire italiane della somma di dollari USA 10.982,67, in base al cambio del dì del pagamento, con gli interessi dalla data della decisione, e dichiarava interamente compensate tra le parti le spese di entrambi i gradi del giudizio.

In ordine alla tesi dell’appellante secondo cui il provvedimento di incameramento della cauzione non era legittimo perché contrario alle norme dell’ordinamento comunitario e più in particolare all’art. 30 del trattato istitutivo della comunità, il quale vieta, nel commercio tra gli stati membri, qualsiasi misura di effetto equivalente a restrizione quantitativa, – divieto che, in forza dell’art. 18 del Regolamento CEE 13 giugno 1977, n. 120, è stato esteso anche alle importazioni, in provenienza dai Paesi terzi -, di prodotti come quello di cui alla importazione in questione, assoggettati al regime dei prelievi, riteneva la Corte di merito che la questione, consistente nello stabilire se la cauzione di cui alla L. n. 1126 del 1952, integrasse una misura di effetto equivalente a restrizione quantitativa, era stata già sottoposta all’esame della Corte di giustizia delle comunità europee ed era stata decisa, con efficacia entro certi limiti vincolanti anche per il giudici italiano (Cass. 1773 del 1972) nel senso che, non distinguendo tra i pagamenti anticipati a fine speculativo e pagamenti anticipati consueti e correnti nel campo degli scambi commerciali, l’imposizione della cauzione si risolvesse, relativamente a questi secondi pagamenti, in una misura di effetto equivalente a restrizione quantitativa (sentenza 9 giugno 1982, in cause 206, 207, 209 e 210-80).

La Corte di merito disattendeva poi la tesi del Ministero del commercio estero secondo cui le sentenze della Corte di giustizia della comunità europea, che avevano accertato e dichiarato il contrasto delle norme nazionali con l’ordinamento comunitario, non sarebbero rilevanti nel presente giudizio ed che, in ogni caso potrebbero operare solo con riferimento al momento della sua imposizione e non già con riferimento, a quello del suo incameramento; respingeva, altresì, la tesi secondo cui, dovendo valutarsi, alla stregua dell’anzidetta pronunzia, la finalità in funzione della quale la cauzione risultava imposta, (dovendosi distinguere tra cauzioni volte a prevenire possibili speculazioni valutarie e cauzioni prive di tale intento) la cauzione prevista dalla legge n. 1126 del 1952 sarebbe pienamente legittima perché essa avrebbe l’obiettivo di impedire che gli importatori, speculando sulla disponibilità anticipata di valuta pregiata, possano utilizzarla per finalità diverse da quella per cui essa era stata accordata. La Corte di merito affermava, al contrario, che il rapporto di logica dipendenza esistente tra imposizione ed incameramento della cauzione faceva sì che la illegittimità che colpisce l’una si comunicasse anche all’altro e che la finalità antispeculativa della legge non valesse di per sé ad escludere che la legge stessa potesse essere, per la sua formulazione, suscettibile di un’applicazione esorbitante dei limiti oltre i quali essa cessava di essere compatibile con le norme comunitarie, il che appunto era stato affermato dalla Corte di giustizia delle comunità europee la quale aveva riconosciuto la compatibilità con l’ordinamento comunitario delle cauzioni per i pagamenti anticipati aventi finalità speculative e l’aveva esclusa per gli altri aventi finalità normali.

La Corte di merito, pertanto, riconosciuta la rilevanza nell’ordinamento interno della predetta pronunzia della Corte di giustizia, riteneva di dovere interpretare la norma escludendo i contenuti precettivi che, secondo tale pronuncia, si pongono in contrasto con la normativa comunitaria. Riteneva, quindi, privo di rilevanza lo stabilire se la sancita incompatibilità della cauzione attenesse alla sua imposizione o non piuttosto al suo incameramento ed affermava che da nessun elemento, ancorché esterno al provvedimento che si assumeva legittimo, era dato desumere che l’incameramento della cauzione era stato disposto a fronte di un pagamento anticipato avente carattere speculativo.

Concludeva, pertanto, affermando che, versandosi in ipotesi di incompatibilità della cauzione con la normativa comunitaria, il provvedimento di incameramento della cauzione risultava illegittimo e, come tale, doveva essere disapplicato; di conseguenza, essendo venuto meno il titolo giustificativo della attribuzione patrimoniale, la s.p.a. Carapelli aveva diritto di ripetere in base alle regole dell’indebito, quanto l’Amministrazione aveva incamerato escutendo la garanzia. Sulla somma da restituire riteneva dovuti gli interessi con decorrenza dalla domanda nonché il maggior danno da svalutazione determinato in L. 4.000.000.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione, fondato su tre motivi, il Ministero del Commercio con l’estero.

Resiste con controricorso la s.p.a. Carapelli in liquidazione. Entrambe le parti hanno presentato memorie.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, l’amministrazione ricorrente – denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2, 3 e 4 della L. 20 luglio 1952, n. 1126 e succ. modifiche, dell’art. 2, D.L. 6 giugno 1956 n. 476 (conv. in L. 25 luglio 1956, n. 786) e del D.M. 20 gennaio 1973, conseguenti ad erronea interpretazione delle sentenze della Corte CEE, in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c. – sostiene che la sentenza impugnata avrebbe errato nell’attribuire rilevanza diretta nell’ordinamento interno italiano alla pronuncia della Corte di giustizia CEE del 9 giugno 1982 (nelle cause riunite 206, 207, 209 e 210-1980); sostiene che tale pronuncia è irrilevante perché in questo giudizio si controverte unicamente in ordine alla legittimità dell’incameramento della cauzione prestata dalla soc. Carapelli sotto forma di fideiussione bancaria, in relazione al pagamento di due partite di avena di provenienza argentina disposto con D.M. 6 maggio 1977, per omessa importazione (nel senso di sdoganamento della merce e non già di deposito nel recinto doganale) entro il termine di giorni trenta dall’avvenuto pagamento anticipato della merce.

Soggiunge che è da contestare non solo la diretta rilevanza, ma altresì la rilevanza tout court, in linea di principio, delle pronuncie interpretative della Corte di giustizia CEE le quali avrebbero preso in considerazione, precisandone i limiti di compatibilità con la normativa comunitaria, la legislazione nazionale italiana esclusivamente sotto il profilo impositivo delle cauzioni e non pure sotto il diverso profilo dei modi di realizzazione del diritto dello Stato all’incameramento della cauzione.

Sostiene che la corte di merito avrebbe errato nell’affermare l’esistenza di un rapporto di logica dipendenza tra l’imposizione e l’incameramento della cauzione per cui dalla illegittimità della norma ha fatto discendere l’illegittimità del provvedimento amministrativo che ne ha fatto applicazione.

Con il secondo motivo – denunziando motivazione contraddittoria, illogica e comunque insufficiente sull’asserita illegittimità del provvedimento di incameramento derivata da quella del provvedimento di imposizione della cauzione, in relazione all’art. 360, n. 5 c.p.c. sostiene che, anche dando per ammessa l’esistenza della predetta stretta relazione di dipendenza, non sarebbe tuttavia ineluttabile la conseguenza che ogni illegittimità del momento impositivo si comunichi al momento incamerativo; sostiene che, proprio alla luce della distinzione insita nelle predette pronuncie della Corte di giustizia CEE (e cioé quella tra pagamenti anticipati correnti nella pratica del commercio internazionale e pagamenti anticipati anormali o a carattere speculativo), il momento in cui viene in gioco il potere dell’amministrazione di valutare la speculatività o meno dell’anticipato pagamento e, quindi, per converso, la legittimità o meno della ritardata importazione della merce è unicamente quello che afferisce alla fase attuativa, cioé all’incameramento e non già quello precedente dell’imposizione; soggiunge, quindi, che se una relazione di comunicazione di illegittimità (e quindi, una questione di illegittimità derivata) deve istituirsi, questa sarebbe semmai nel senso esattamente contrario a quello ritenuto dalla Corte d’Appello.

Con il terzo motivo – prospettando violazione e falsa applicazione degli artt. 2033 e 2697, I comma Cod. civ., nonché dei principi generali relativi agli atti amministrativi, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. – sostiene che la Corte di giustizia della CEE non avrebbe recepito la tesi della Commissione secondo cui tutti i pagamenti anticipati costituiscono la regola del commercio internazionale, ma avrebbe rimandato al diritto interno la distinzione tra pagamenti “correnti o abituali” e pagamenti non conformi agli usi e, quindi, a carattere speculativo; ciò perché la Corte CEE ha affermato che la questione imposta dalla legge 1126-1952 si pone in contrasto con l’art. 30 del Trattato CEE limitatamente all’ipotesi che con quella misura vengono gravate quelle importazioni di merci per le quali il pagamento anticipato abbia carattere speculativo. Ad avviso dell’amministrazione ricorrente resterebbero quindi fuori dalla protezione dell’art. 30 del Trattato CEE quelle situazioni in cui il ritardo dell’importatore, rispetto al pagamento, dipenda da altre cause ed in particolare dalla libera scelta dell’importatore che, avendo la disponibilità della merce giunta entro il confine nazionale, dilaziona le operazioni di importazione; resterebbe, quindi, al giudice italiano il compito di: a) definire gli effetti prodotti dal dichiarato contrasto fra norma comunitaria e norma nazionale anteriore e stabilire se ed in quale misura la legge nazionale conservi vigore e sia tuttora applicabile; b) applicare il diritto interno al caso concreto. Sostiene che nella fattispecie il conflitto ravvisato dalla Corte di giustizia della CEE non investirebbe tutta la portata regolatrice della legge interna, ma soltanto alcuni suoi parziali contenuti per cui essa manterrebbe la propria forza e non sarebbe possibile disapplicarla al di fuori dell’ambito in cui si circoscrive la sua incompatibilità con l’ordinamento CEE; ne deduce che, – poiché nel presente giudizio la domanda investe la cauzione, non nella sua imposizione come misura cautelare, ma nel momento del suo incameramento, come misura sanzionatoria – il potere dell’autorità nazionale italiana di colpire una infrazione valutaria sarebbe rimasto estraneo alla tematica affrontata dalla Corte CEE con le sentenze 9 giugno 1982.

Resterebbe, quindi, soltanto da vedere se la sanzione è legittima con riferimento all’obbligo la cui violazione è stata punita e che è costituita dall’obbligazione di eseguire l’importazione (intesa come sdoganamento) nel termine prefissato. Ne deduce che, poiché la Corte d’Appello si è limitata ad accertare che da nessun elemento si desume che l’incameramento della cauzione era stato disposto a fronte di un pagamento anticipato avente carattere speculativo, la sentenza impugnata non avrebbe potuto affermare l’illegittimità del provvedimento di incameramento che, essendo un provvedimento amministrativo, è assistito dalla presunzione di legittimità, per cui competeva alla società che lo aveva impugnato, l’onere di provare il contrario, altresì, che anche secondo i principi della ripetizione dell’indebito ex art. 2033 c.c., incombe, all’attore in ripetizione l’onere di provare l’inesistenza dei fatti costitutivi del titolo legittimante il pagamento effettuato (art. 2697, I comma C.C.). I diversi profili del ricorso, essendo strettamente connessi ed attendendo a diversi profili di una censura sostanzialmente unitaria, debbono essere esaminati congiuntamente.

Poiché la risoluzione della controversia esige l’accertamento della compatibilità con l’ordinamento comunitario della normativa sulla base della quale l’Amministrazione ha disposto l’incameramento della cauzione e cioé dell’art. 1 della L. 20 luglio 1952, n. 1126, dell’art. unico della L. 2 aprile 1862, n. 162 (sulla base dei quali sono stati emanati la circolare del Ministero del Commercio estero n. V-206600-104 del 25 giugno 1976 ed il D.M. com. estero 7 agosto 1978, art. 3 (G.U. 30 aprile 1962, n. 220) occorre preliminarmente richiamare le decisioni della Corte di giustizia della CEE già pronunciate. Sulla specifica questione concernente le leggi suddette sono state emesse due sentenze entrambe in data 9 giugno 1982, la prima in causa 95-81 e la seconda nelle cause riunite 206, 207, 209, 210-80. La prima è stata promossa dalla Commissione CEE, a norma dell’art. 169 del trattato CEE, la quale sosteneva che la normativa italiana, subordinando il pagamento anticipato delle merci destinate all’importazione alla presentazione di una cauzione o di una fideiussione bancaria, costituiva trasgressione all’art. 30 del trattato ed alle due direttive adottate dal Consiglio per l’attuazione dell’art. 67 del trattato (direttiva dell’11 maggio 1960 e direttiva del 18 dicembre 1962). La secondo causa è stata, invece, promossa dal Tribunale civile di Roma, a norma dell’art. 177 del Trattato CEE, con quattro ordinanze del 14 luglio 1980, il quale ha sottoposto alla Corte di giustizia due questioni pregiudiziali intese ad accertare se le misure previste dalle predette leggi, ove, interpretate nel senso di ritenere consentito all’amministrazione del Commercio con l’estero l’incameramento della cauzione, con riguardo, anziché al momento in cui le merci sono giunte nel territorio nazionale, a quello in cui esse vengono nazionalizzate, non si risolvessero in misure di effetto equivalente a restrizione quantitativa ed in tassa di effetto equivalente a dazio doganale.

La Corte di giustizia, con le sentenze citate, ha dichiarato che la Repubblica italiana, imponendo a tutti gli importatori di prodotti provenienti da altri stati membri, una cauzione o una fideiussione bancaria pari al 5% del valore delle merci quando il pagamento viene effettuato in anticipo “in quanto l’espressione “pagamenti anticipati” non si riferisce soltanto ai pagamenti a fine speculativo, ma anche a quelli consueti e correnti nell’ambito degli scambi intercomunitari, è venuto meno agli obblighi impostile dagli artt. 30 e 36 del Trattato”. La Corte di giustizia è pervenuta a tale conclusione sulla base della propria precedente giurisprudenza secondo cui, per ricadere sotto il divieto di qualsiasi misura di effetto equivalente alle restrizioni quantitative all’importazione di cui all’art. 30 del Trattato, e sufficiente che i provvedimenti nazionali siano idonei ad ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi tra stati membri. La secondo delle predette sentenze ha ulteriormente precisato che “la nozione di misura di effetto equivalente riferita alle importazioni, in provenienza da paesi terzi, di prodotti ai quali si applicano i regolamenti n. 120-67 e n. 827-68, ha lo stesso significato di quando essa è riferita agli scambi fra gli stati membri”.

Richiamato così il contenuto delle pronuncie della Corte di giustizia CEE, le quali hanno dichiarato che le leggi italiane la cui applicazione è posta dal Ministero del Commercio con l’estero a fondamento dei provvedimenti amministrativi di incameramento della cauzione, sono incompatibili con l’ordinamento comunitario, occorre accertare i loro effetti nell’ordinamento interno. La tesi dell’amministrazione ricorrente secondo cui esse sono irrilevanti è da respingere.

Al riguardo, onde stabilire i poteri di questa Corte, occorre richiamare la giurisprudenza della Corte Costituzionale in ordine al sindacato del giudice ordinario sulle leggi nazionali in contrasto con l’ordinamento comunitario, la quale ha avuto una significativa evoluzione che è indice della volontà di adeguare all’ordinamento della comunità europea la legislazione italiana con assoluta tempestività e con piena aderenza allo stesso, onde conseguire una piena omogeneità tra gli ordinamenti degli stati membri.

La Corte Costituzionale ha ormai da tempo affermato che esigenze fondamentali di eguaglianza e di certezza giuridica postulano che le norme comunitarie debbono avere piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri, senza la necessità di leggi di recezione o di adattamento, come atti aventi forza e valore di legge, in ogni paese della Comunità sì da entrare ovunque contemporaneamente in vigore e conseguire applicazione uguale ed uniforme nei confronti di tutti i destinatari (1973-183). Essa ha poi affermato il principio che il regolamento della Comunità economica europea prevale rispetto alle confliggenti statuizioni del legislatore nazionale, per cui tra più interpretazioni della legge interna deve prevalere quella conforme alle prescrizioni comunitarie (sentenze n. 176 e 177-1981) e quando vi sia irriducibile incompatibilità fra la norma interna e quella comunitaria, è quest’ultima che in ogni caso deve prevalere con un congegno operativo che inizialmente era diverso a seconda che il regolamento fosse successivo o precedente nel tempo alla legge interna; nel primo caso la sopravvenienza del regolamento comunitario aveva l’effetto di caducare la norma interna ed il giudice nazionale doveva applicare la norma comunitaria; l’effetto caducatorio era, altresì, retroattivo quando la norma comunitaria era confermativa della disciplina già dettata dagli organi della CEE. Nel secondo caso, cioé nell’ipotesi di sopravvenienza della legge interna al regolamento comunitario essa poteva essere rimossa solo mediante la dichiarazione di illegittimità costituzionale (232-1975) per violazione dell’art. 11 Cost.. Questi criteri sono stati modificati dalla Corte Costituzionale con la recente sentenza n. 170-1984 la quale ha riveduto quest’ultima regola affermando, che, poiché, alla normativa derivante dal trattato CEE deve essere assicurata diretta ed ininterrotta applicazione, essa deve essere applicata dal giudice italiano in ogni caso, pur in presenza di confliggenti disposizioni della legge interna, indipendentemente dalla circostanza che questa sia sopravvenuta o preesistente al regolamento comunitario; la norma interna incompatibile con quella comunitaria non può, quindi, essere applicata per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale. Ne consegue l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale della norma interna incompatibile, che deve essere disapplicata direttamente dal giudice competente a conoscere della controversia; restando di competenza della Corte Costituzionale solo le questioni concernenti le leggi di esecuzione del trattato in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale ed ai diritti inalienabili della persona umana (183-1973), nonché le questioni concernenti le statuizioni della legge statale che si assumano costituzionalmente illegittime in quanto dirette ad impedire o pregiudicare la perdurante osservanza del Trattato in relazione al sistema e al nucleo essenziale dei suoi principi (170-1984). Questi principi sono stati poi ribaditi con le sentenze 18 febbraio 1985, n. 47 e 48 le quali hanno riaffermato che compete al giudice ordinario accertare se le disposizioni del diritto interno che vengano in rilievo confliggano con alcuna previsione del diritto comunitario il quale – secondo il Trattato di Roma ed in conformità della garanzia assicurata alla relativa osservanza dell’art. 11 della Costituzione – deve ricevere nel territorio italiano necessaria ed immediata applicazione.

Così chiarito che spetta al giudice ordinario verificare la conformità delle leggi interne, siano esse anteriori o successive al regolamento comunitario, la Corte costituzionale ha ulteriormente sviluppato tali concetti giungendo alla conclusione, nella sua più recente sentenza 19 aprile 1985, n. 113, che anche le statuizioni della Corte comunitaria debbono essere applicate dal giudice competente a conoscere della controversia. Infatti dalla statuizione che la normativa comunitaria entra e permane in vigore nel nostro territorio indipendentemente da ogni legge interna di recezione e prevale su quelle che con essa confliggano, indipendentemente dal tempo della loro emanazione, la Corte ha tratto l’ulteriore deduzione che questo principio vale non soltanto per la disciplina prodotta dagli organi della CEE mediante regolamento, ma anche per le statuizioni risultanti dalle sentenze interpretative della Corte di giustizia.

Sono stati così autorevolmente confermati i principi enunciati da questa Corte di legittimità già con la sentenza 8 giugno 1972, n. 1773, la quale aveva già ritenuto che le norme del Trattato istitutivo della Comunità economica europea costituivano diritto interno dello stato italiano senza alcuna limitazione e senza alcuna condizione di compatibilità con la legislazione italiana preesistente o sopravvenuta, avendo acquistato efficacia immediata ed automatica e creato diritti soggettivi nell’ordinamento interno direttamente o a favore dei singoli, senza bisogno di uno specifico processo di adattamento legislativo dell’ordinamento italiano a quello comunitario.

La questione oggetto dell’esame di questa Corte deve, quindi, essere risolta con l’applicazione dei ricordati principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale del nostro Paese.

Occorre, pertanto, verificare, in primo luogo, la compatibilità della L. 1952, n. 1126 e delle altre sopra ricordate con gli obblighi assunti dallo stato italiano con la ratifica del Trattato istitutivo della Comunità europea avvenuta con L. 14 ottobre 1957, n. 1203.

La sentenza n. 170 del 1984 della Corte Costituzionale ha ricordato che, a questo fine, il giudice italiano può avvalersi dell’ausilio che gli offre lo strumento della questione pregiudiziale di interpretazione, ai sensi dell’art. 177 del Trattato, perché solo in tal modo è possibile soddisfare la fondamentale esigenza di certezza giuridica che impone eguaglianza ed uniformità di criteri applicativi per tutta l’area della comunità europea.

Nel caso in esame la risposta negativa non pone particolari problemi in quanto la violazione dell’art. 30 e 36 del Trattato di Roma, da parte di tutte le predette norme che – imponendo a tutti gli importatori di prodotti da parte di altri Stati, membri della Comunità o terzi rispetto ad essa, di costituire una cauzione o una fideiussione bancaria pari al 5% del valore delle merci, quando il pagamento viene effettuato in anticipo hanno dato luogo ad una misura di effetto equivalente ad una restrizione quantitativa – è stata già ritenuta dalla Corte di giustizia della Comunità europea che le sentenze prima ricordate, le quali, come si è visto, spiegano i loro effetti anche nel territorio dello Stato italiano con esclusione di qualunque ulteriore valutazione, che non sia quella della loro efficacia formale e della loro pertinenza, da parte degli organi del nostro ordinamento, così come – secondo quanto è stato posto in rilievo dalla Corte Costituzionale – avviene negli altri Stati aderenti al Trattato CEE.

La tesi della difesa dell’Amministrazione, secondo cui le sentenze della Corte di giustizia della Comunità europea riguardanti la questione in esame, sono irrilevanti, è del tutto infondata.

Poiché la predetta Corte di giustizia ha distinto tra pagamenti anticipati a fine speculativo e pagamenti normali nel capo degli scambi intercomunitari ed ha ritenuto che solo i primi determinano la violazione degli obblighi imposti dagli artt. 30 e 36 del Trattato, questa Corte di legittimità deve esaminare se le norme dello Stato italiano, della cui applicazione si discute, possano parzialmente restare in vigore per gli aspetti non contrastanti con l’ordinamento comunitario e, quindi, limitatamente alle sanzioni irrogate per i pagamenti anticipati a fine speculativo. A questo fine occorre fare riferimento alla norma fondamentale tra quelle ricordate e cioé all’art. 1 della L. 20 luglio 1982, n. 1126, il quale è così formulato: “I pagamenti anticipati delle merci da importare sono subordinati alla presentazione di cauzione a favore dell’ufficio italiano dei cambi da parte dell’imprenditore. E’ altresì subordinata alla presentazione di cauzione, qualora questa non sia stata presentata a norma del precedente comma, nel caso in cui abbia luogo da parte della Banca d’Italia, o da parte delle banche da questa autorizzate a fungere da sue agenzie, la consegna all’importatore dei documenti idonei a conferire la disponibilità delle merci da importare. La misura della cauzione è stabilita con decreto del Ministero per il commercio con l’estero. La cauzione può essere sostituita da fideiussione bancaria”.

L’analisi della norma pone in evidenza che essa subordina alla presentazione di cauzione o di fideiussione bancaria “i pagamenti anticipati delle merci da importare”; essa non prevede, dunque, nella sua formulazione letterale la distinzione sopra ricordata, né questa emerge dalla sua “ratio” o dalla concreta attuazione (diritto vivente) che ad essa è stata data dall’amministrazione dello Stato, la quale, anche successivamente alla emanazione delle sentenze della Corte di giustizia della Comunità europea – come è testimoniato dai provvedimenti impugnati che hanno dato origine alla controversia in esame – applica tale disciplina a tutti indistintamente i pagamenti anticipati senza distinguere tra quelli a fine speculativo e quelli normali e consueti.

Pertanto, pur dovendosi condividere l’opinione della ricorrente Amministrazione, secondo cui la Corte di giustizia della Comunità europea ha rimesso al diritto interno la distinzione tra “pagamenti correnti o abituali” e “pagamenti non conformi agli usi e, quindi, a carattere speculativo”, è da ritenere che l’organo dello Stato italiano competente a formulare i criteri base per formulare tale distinzione non possa che essere il legislatore, il quale – come si è già posto in rilievo – non ha formulato tale distinzione né nella normativa preesistente alle pronuncie della Corte comunitaria, né ha emanato in data successiva le norme necessarie a tale scopo onde sanzionare – entro i limiti consentiti dall’ordinamento comunitario – i pagamenti anticipati a fine speculativo. In questo senso, fermo restando il dispositivo, deve correggersi la motivazione della sentenza impugnata.

La norma è, quindi, insuscettibile di qualunque applicazione e ciò dispensa da ogni ulteriore esame del motivo di ricorso con il quale l’Amministrazione sostiene che l’onere della prova del fatto che il pagamento anticipato de quo non ha natura speculativa, ricadrebbe sulla parte che ha impugnato l’atto amministrativo di irrogazione delle sanzioni con esso comminate.

Del pari infondata è la censura con la quale si sostiene che l’illegittimità della norma non si comunicherebbe ai provvedimenti amministrativi emanati in applicazione della stessa. Invero, una sanzione in tanto è legittima in quanto trova fondamento in una norma legislativa e, di conseguenza, venuta meno quest’ultima, il provvedimento amministrativo emanato in applicazione della stessa diviene illegittimo quando esiste ad origine o subentra successivamente una causa che non consente di invocare la presunzione di legittimità dell’atto amministrativo. Invero, la carenza del requisito della legittimità è dimostrata dalla inesistenza attuale, per effetto della sopravvenuta illegittimità della norma legislativa, della fonte sulla base della quale il potere amministrativo è stato esercitato.

La censura non può nemmeno essere accolta con riferimento alla distinzione fra il c.d. momento impositivo, cioé quello in cui la sanzione è stata irrogata, ed il c.d. momento incamerativo, cioé quello in cui è stata disposta l’acquisizione della medesima; secondo la difesa dell’amministrazione il vizio potrebbe, al massimo, colpire il primo ma non il secondo. La tesi è manifestamente infondata in quanto contrasta con ogni principio del nostro ordinamento il ritenere che sia legittima l’esecuzione di un provvedimento illegittimo perché non trova fondamento in alcuna norma legislativa efficace e vigente nel momento in cui esso viene posto in esecuzione.

Il ricorso deve, quindi, essere rigettato e, di conseguenza, l’Amministrazione ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese e degli onorari di questo giudizio di legittimità, che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione rigetta il ricorso e condanna la ricorrente Ministero del Commercio con l’estero al pagamento di L. 1.585.000 per spese e di L. 1.500.000 per onorari.

Così deciso nella camera di consiglio della Corte Prima sezione civile della Corte di Cassazione il 9 ottobre 1985.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 14 MARZO 1986