Svolgimento del processo
1. Con atto notificato il 10 aprile 1989, Francesco Gregorio conveniva davanti al Tribunale di Roma il Ministero di grazia e giustizia, il Ministero delle finanze e lo Stato italiano per essere risarcito dei danni patrimoniali e morali o, in subordine, per ottenere una equa riparazione, in conseguenza dell’ingiusta carcerazione preventiva sofferta dal 14 giugno 1983 all’11 gennaio 1984, in forza di mandato di arresto emesso dal g.i. del Tribunale di Savona per delitti dai quali era stato successivamente prosciolto, e dei danni subiti a seguito di ingiustificate indagini patrimoniali effettuate, per disposizione del g.i., dalla Guardia di finanza.
L’Avvocatura dello Stato, costituitasi per tutte le parti convenute, contestava la fondatezza della domanda sotto entrambi i profili.
Il Tribunale, con sentenza del 5 marzo 1993, rigettava la domanda, sia con riferimento all’equa riparazione richiesta ai sensi degli artt. 314 e 315 c.p.p. del 1988, sia con riferimento alla pretesa risarcitoria azionata contro lo Stato a titolo di responsabilità civile per fatto dei magistrati ai sensi dell’art. 28 Cost.
2. Pronunciando sull’appello del Gregorio, al quale avevano resistito le amministrazioni convenute, la Corte d’Appello di Roma, con sentenza dell’11 dicembre 1995, lo rigettava. I giudici di appello consideravano quanto segue:
– in relazione alla domanda di equa riparazione per ingiusta detenzione, ai sensi degli artt. 314, 315 c.p.p. sussisteva l’incompetenza del Tribunale adito, ai sensi dell’art. 102 disp. att. c.p.p., che prevede la competenza della Corte d’Appello;
– non avendo l’attore dedotto ipotesi di responsabilità del magistrato ai sensi dell’art. 55 c.p.c., la domanda di risarcimento del danno proposta nei confronti dello Stato non meritava accoglimento, atteso che, secondo la normativa vigente all’epoca dei fatti per cui è causa, anteriori all’entrata in vigore della legge n. 117 del 1988 che ha dettato la nuova disciplina della responsabilità civile dei magistrati, è configurabile la responsabilità civile diretta dello Stato per fatti imputabili a magistrati, ai sensi dell’art. 28 Cost., solo nei limiti in cui sia ravvisabile responsabilità del magistrato ai sensi dell’art. 55 c.p.c.;
– l’obbligo risarcitorio dello Stato non poteva farsi discendere dall’art. 5, n. 5, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sottoscritta a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 844, trattandosi di norma non suscettiva di immediata applicabilità.
Avverso tale sentenza ricorre per Cassazione il Gregorio sulla base di due motivi, ai quali resistono, con controricorso, la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministero di grazia e giustizia ed il Ministero delle finanze.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 5, n. 5, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sottoscritta a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 844, deduce il ricorrente che erroneamente la Corte d’Appello avrebbe negato l’immediata efficacia, per effetto dell’intervenuta ratifica, della suindicata disposizione, secondo la quale “ogni persona vittima di arresto o detenzione in violazione di una delle disposizioni del presente articolo ha diritto ad una riparazione”.
1.1. Il motivo non è fondato.
La Corte d’Appello ha negato l’applicabilità dell’art. 5, n. 5, della Convenzione europea sin dal momento della ratifica, sul rilievo che la norma internazionale, per essere precettiva nell’ordinamento interno, deve essere completa nei suoi elementi essenziali, laddove la citata disposizione si limita a prevedere il diritto alla riparazione nel caso di ingiusta detenzione, senza disciplinarne le modalità e stabilirne i parametri, sicché non è autonomamente applicabile.
Così decidendo, i giudici di appello si sono uniformati (richiamandola espressamente) alla giurisprudenza di questa S.C.
Le sezioni unite penali della Corte di Cassazione (sent. 6 marzo 1992, Giovannini; 26 aprile 1990, Vierin; 23 novembre 1988, Polo Castro) hanno invero avuto modo di precisare che le norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sottoscritta a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 844, sono immediatamente applicabili, in quanto assumono il valore di legge ordinaria per effetto della ratifica, a condizione che contengano il modello di un atto interno completo nei suoi elementi essenziali, tali cioè da potere senz’altro creare obblighi e diritti; ove, invece, l’atto internazionale non contenga detto modello, le situazioni giuridiche interne da esso imposte abbisognano, perché si realizzino, di una specifica attività normativa dello Stato.
Ciò premesso, hanno statuito che l’art. 5, n. 5, della Convenzione europea, in virtù del quale “ogni persona vittima di arresto o detenzione in violazione di una delle disposizioni del presente articolo ha diritto ad una riparazione”, prevede un generico diritto alla riparazione, senza ulteriori specificazioni circa la disciplina di tale diritto, per cui la suindicata disposizione non si presta ad una applicazione immediata ed assume soltanto il valore di un impegno degli Stati contraenti a darvi attuazione, attraverso strumenti apprestati dal diritto interno (sent. 6 marzo 1992, Giovannini).
Al suddetto indirizzo ritiene il Collegio di prestare adesione, non sussistendo ragioni che inducano a discostarsene.
2. Con il secondo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 5, n. 5, della suindicata Convenzione europea in riferimento all’art. 28 Cost. e all’art. 2043 c.c., il ricorrente deduce che erroneamente i giudici di appello hanno ritenuto che soltanto con la legge n. 117 del 1988 lo Stato italiano avrebbe dato concreta attuazione alla Convenzione europea disciplinando l’azione diretta contro lo Stato per atti colposi del magistrato.
Sostiene che anche nel previgente sistema una responsabilità diretta dello Stato per fatto del magistrato sarebbe stata configurabile al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 55 c.p.c., ai sensi dell’art. 28 Cost. e dell’art. 2043 c.c.
2.1. Il motivo non è fondato.
La Corte d’Appello, statuendo nei sensi suindicati, si è invero uniformata alla prevalente giurisprudenza di questa S.C., secondo la quale, nel sistema previgente alla legge n. 117 del 1988 che ha riconosciuto il diritto di azione verso lo Stato per atti colposi del magistrato, l’estensione allo Stato della responsabilità dei dipendenti, ai sensi dell’art. 28 Cost., è configurabile, qualora si tratti di comportamenti di magistrati, tenuto conto delle leggi concernenti la responsabilità civile dei predetti all’epoca vigenti, solo qualora ricorrano le specifiche ipotesi di cui all’art. 55 c.p.c., e cioè solo nel caso in cui il magistrato sia imputabile di dolo, frode o concussione (sent. n. 1720/60; n. 3719/75; n. 1916/79; n. 5493/92; in senso contrario: sent. n. 1879/82).
Al richiamato prevalente indirizzo ritiene il Collegio di uniformarsi, non ravvisandosi ragioni per discostarsene.
Né giova richiamare, quale norma fondante la responsabilità diretta dello Stato, l’art. 2043 c.c., ove si consideri, come puntualmente rilevato dalla Corte d’Appello, che tale disposizione sancisce in via generale la responsabilità civile da fatto illecito, e che l’illiceità dei fatti per cui è causa, secondo la normativa vigente all’epoca, era espressamente contenuta nei limiti di cui all’art. 55 c.p.c.
Essendo l’invocata tutela preclusa alla stregua dell’ordinamento interno vigente all’epoca dei fatti, resta percorribile solo la via del ricorso individuale alla Corte europea dei diritti dell’uomo previsto dalla Convenzione, ai fini del conseguimento di una “equa soddisfazione”, ai sensi dell’art. 50 della Convenzione medesima (ipotesi alla quale si riferisce la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo 20 marzo 1997, Loukanov, richiamata dal ricorrente nella memoria).
3. In conclusione, il ricorso va rigettato.
Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
Così deciso in Roma il 29 ottobre 1998.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA 12 GENNAIO 1999.