Svolgimento del processo
Con citazione del 15 giugno 1979, lo I.C.C.R.I. conveniva in giudizio il Comune di Bari, esponendo:
che, nel dicembre del 1976, esso istituto aveva concesso al Comune un finanziamento di Lire L. 4.660.000.000, nella forma dell’apertura di credito semplice, che avrebbe dovuto essere coperto con una quota del mutuo di maggiore importo richiesto dall’Amministrazione comunale alla Cassa Depositi e Prestiti a ripiano del disavanzo di bilancio del 1975;
che, successivamente, nel quadro degli interventi legislativi per il consolidamento delle esposizioni bancarie a breve termine di Comuni e Provincie, attuati con il Decreto Legge 17.1.1977 n. 2, convertito nella Legge 17.3.1977 n. 62, la Cassa Depositi e Prestiti
– Sezione Autonoma di credito comunale e provinciale – era stata autorizzata a concedere mutui decennali per la trasformazione in finanziamenti a lungo termine della consistenza, alla data del 31.12.1976, dei crediti a breve termine accordati ai detti enti locali, mediante rilascio di cartelle a favore delle aziende di credito; in misura corrispondente all’ammontare delle esposizioni debitorie, degli enti medesimi, al 31 dicembre ’76: che, ai sensi del DM 22 aprile 1977, lo ammortamento delle cartelle doveva essere effettuato in dieci anni, a decorrere dal 1° gennaio 1977, mediante rimborso annuale di un decimo del capitale nominale iniziale dei titoli;
che, nel caso concreto, la Cassa Depositi e Prestiti solo nel marzo 1978 aveva corrisposto quanto, in virtù dei richiamati provvedimenti normativi, avrebbe dovuto versare ad esso I.C.C.R.I. già nel precedente mese di gennaio, per l’iniziale posizione debitoria del Comune di Bari.
Tanto premesso, chiedeva l’istante condannarsi il convenuto a pagare la complessiva somma di L. 34.855.123 a titolo, appunto, di interessi (maggiorati per anatocismo) per la tardiva erogazione delle somme di cui sopra.
Con sentenza del 23 gennaio 1984,il Tribunale adito rigettava, però, la domanda, per difetto di legittimazione passiva del Comune: in applicazione dell’art. 3 del d.l. 29 dicembre 1977 n. 946, conv.
con modificazioni nella l. 27 febbraio 1978 n. 43 prevedente l’assunzione a carico dello Stato, a partire dal 1° gennaio 1978, (delle rate di ammortamento) dei mutui contratti dagli enti locali per il pareggio dei rispettivi bilanci.
Interponeva allora appello l’I.C.C.R.I., ma la Corte di Bari respingeva il gravame.
Ed avverso quest’ultima sentenza, depositata il 30 maggio 1985, ricorre ora lo stesso istituto, con un unico complesso motivo di cassazione, illustrato anche con memoria.
Il Comune di Bari resiste con controricorso.
Motivi della decisione
1. La disposizione del citato art. 3 legge 1978, n. 43 – della cui falsa applicazione sostanzialmente si duole il ricorrente con l’unico mezzo della impugnazione, che ne ripropone la questione interpretativa e ne prospetta, in subordine, un problema di illegittimità costituzionale – così testualmente recita: “A partire dal 1° gennaio 1978 le rate di ammortamento dei mutui a pareggio dei disavanzi economici dei bilanci degli enti locali, autorizzati con decreto del Ministro per l’interno, o nei limiti di cui all’articolo 5 del decreto legge 17 gennaio 1977, n. 2, convertito, con modificazioni, nella legge 17 marzo 1977, n. 62, nonché quelle relative ai mutui di cui agli articoli 1 e 4 del predetto decreto legge, sono assunte a carico del bilancio dello Stato”.
2. Secondo il ricorrente (e in ciò propriamente consiste il primo profilo della censura che si snoda sul piano esegetico) la norma innanzi trascritta contemplerebbe una ipotesi di accollo cumulativo (tra ente locale accollante e Stato accollato) ovvero di espromissione, anch’essa, cumulativa e, cioè, una forma di assunzione del debito da parte del terzo (Stato), in ogni caso, non liberatoria nei confronti dell’originario debitore. Del quale erroneamente, quindi, la Corte barese avrebbe escluso la legittimazione passiva con riguardo alla azione come nella specie promossa dall’Istituto suo creditore.
3.Una tale interpretazione dell’art. 3 legge n. 43 del 1978 è, però, inaccettabile.
Nel paradigma dell’art. 1272 c.c. la contrattualità ed il ruolo attivo del creditore costituiscono invero elementi essenziali dell’espromissione: che rendono, innanzitutto, palese l’estraneità di tale figura alla fattispecie normativa esaminata. Nel contesto della quale non è dato rinvenire alcun profilo di intesa tra aziende di credito e Stato.
4. Ma anche con riguardo all’ipotesi dell’accollo la soluzione non cambia.
Al riguardo non è, peraltro, necessario prendere compiuta posizione sulla ammissibilità della controversa categoria dogmatica dell’accollo “ex lege”: suggestiva intuizione di autorevole dottrina che altra, non meno cospicua, invece avversa in ragione della negata trasponibilità, oltre il piano negoziale, di un istituto, come appunto quello dell’accollo, caratterizzato da insopprimibili caratteri di volontarietà. Per cui può prescindersi anche dalla ulteriore e subordinata problematica sui limiti di estensibilità della disciplina dello accollo negoziale a quello legale (ove ammesso).
È sufficiente, infatti, qui considerare che l’assunzione unilaterale di debito, quale contemplata dalla norma in parola, non potrebbe comunque ricondursi all’ipotetico schema di un accollo “ex lege”, una volta che anche per questo si ammette, dai suoi fautori, la necessità di un “nucleo minimo di bilateralità ” (in relazione al quale sono, del resto, censite tutte le ipotizzate figure di accollo legale: v. artt. 2558, 2610, comma primo, 1918, 2560, comma secondo cod. civ. ecc.).
5. Restano così di consegna superati i rilievi mossi all’interpretazione seguita dalla Corte di merito: che, nella disposizione del richiamato art. 3 legge n. 43 del 1978, ha viceversa individuato una forma di successione (“per factum principis”) nel rapporto obbligatorio: per cui è lo Stato a porsi come unico soggetto passivo del pagamento, con l’effetto della liberazione dell’ente locale originario debitore.
5/1. Una tale esegesi della norma in questione è, del resto, inequivocabilmente imposta dalla sua letterale formulazione. Anche in relazione a quanto precisato nel successivo comma quarto, per cui:
“In dipendenza ed applicazione delle norme del presente articolo, nei bilanci degli enti locali del 1978 e degli anni successivi non dovrà più essere iscritto l’ammontare relativo alle rate di ammortamento dei mutui di cui al primo e secondo comma”.
Ulteriormente chiarificatore è, poi, il comma sesto del medesimo art. 3, là dove si individua nella Cassa Depositi e Prestiti, l’organo materialmente deputato ad effettuare i pagamenti in questione (“La Cassa… pagherà le rate stesse”) e nel Ministero del Tesoro quello cui spetta di provvedere al rimborso.
5/2. Una diversa lettura (volta a contestare – come fa il ricorrente – l’esclusiva legittimazione passiva dello Stato e, per esso, della Cassa D.P., in relazione ai debiti in questione) verrebbe d’altra parte, palesemente a contraddire la ratio del richiamato art. 3 legge n. 43 del 1978: che si inserisce in un ampio quadro di provvedimenti (v., tra gli altri, la precedente legge 31 marzo 1976, n. 72, sulla “estinzione dei debiti dei comuni verso gli enti ospedalieri”, mediante “pagamento diretto dello Stato agli enti creditori”, come precisato dal DM 11 marzo 1978; e la successiva legge 1978, n. 843, prevedente, all’art. 15, analoga “assunzione dei debiti dei comuni nei confronti degli istituti di previdenza a carico del bilancio dello Stato”), concordemente volti – in attesa e in funzione della definitiva riforma della finanza locale – a predisporre una serie di misure di ripianamento e chiarificazione dei bilanci di Comuni e Province, onde porre detti enti in condizioni di far fronte a nuovi e più qualificati compiti, per una più incisiva ed articolata attuazione del principio costituzionale del decentramento. Obiettivi, questi, con i quali evidentemente contrasterebbe la prospettata concorrente legittimazione dell’ente locale nei confronti (nella specie) delle aziende di credito, per i debiti assunti a carico del bilancio dello Stato: che lascerebbe, invero, indefinita ed aperta una serie di rapporti alternativi di accredito e rimborso e comunque di interrelazioni contabili tra Stato ed enti territoriali, in ordine alle partite interessate.
5/3. In questo senso, del resto, questa Corte si è già pronunciata con riguardo alla citata legge n. 843 del 1978, riconducendo l’assunzione dei debiti dei comuni verso gli enti previdenziali – ivi operata con disposizione (art. 15) che ricalca pedissequamente la struttura di quella ora in esame – ad una forma appunto di successione “ex lege” nel rapporto obbligatorio (cfr. Cass. 3 giugno 1987 n. 4873).
Ed è questo il precedente correttamente invocabile nella fattispecie, e non già la sentenza n. 2242 del 7 aprile 1984 (richiamata dallo I.c.c.R.I.): la quale ha bensì ritenuto la immanente legittimazione passiva degli enti locali, ma con riguardo al diverso schema di intervento dal D.L. 1972, n. 2 (c.d. “Stammati 1”), attuato in termini di consolidamento e non già ancora di assunzione diretta dei debiti dai medesimi a carico dello Stato.
6. La disposizione dell’art. 3 della legge 1978, n. 3, come innanzi interpretata, manifestamente, infine, non contrasta con l’art. 41 Cost., in relazione al profilo (illustrato nella seconda parte del mezzo di ricorso) di violazione della autonomia contrattuale “per la sostituzione dalla legge, in ipotesi, operata del debitore con un soggetto diverso”.
L’autonomia negoziale riceve infatti una tutela, sia pur indiretta, dalla Costituzione – in relazione alla “iniziativa economica privata” ex art. 41 (o al diritto di proprietà ex art. 42), che ne costituiscono i possibili oggetti – ma ciò entro il limite e nella cornice della “utilità sociale” che pur senza negare il carattere di libertà di quella “iniziativa” mira comunque a renderla funzionale agli interessi della collettività.
In questo contesto, è noto come copiosa giurisprudenza costituzionale abbia, in presenza di “fini sociali”, ritenuto la legittimità dei più svariati provvedimenti normativi limitativi della stessa libertà di contrarre, ovvero della libertà (del contenuto, del partner, della durata ecc.) del contratto: giustificando l’introduzione anche successiva di siffatte limitazioni o restrizioni rispetto ad assetti negoziali “ab initio” diversamente strutturati (cfr. “ex plurimis” Corte Cost. 1962 n. 7; 1965 n. 30, 1969 n. 37, 1976 n. 121).
Ed è quest’ultimo il paradigma di intervento legislativo che si realizza anche nella specie con l’attuata sostituzione del soggetto passivo del rapporto obbligatorio (per altro non pregiudizievole degli interessi del creditore) in vista di finalità di innegabile utilità sociale (ed anzi di rilievo costituzionale), come si è appena detto, illustrando la ratio della disposizione censurata.
7. Il ricorso va, pertanto, integralmente respinto. Sussistono, per altro, giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
Così deciso il 25 giugno 1990.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 25 LUGLIO 1991.