Svolgimento del processo

1. – Giuseppe Giuffrida notificava il 7.6.1985 a Carolina Esposito il titolo esecutivo ed il precetto.

Il titolo esecutivo, rappresentato dalla sentenza 3.5.1985 del tribunale di Napoli, dichiarata provvisoriamente esecutiva, recava la condanna della Esposito a pagare la somma di L. 103.800.000 a titolo di risarcimento dei danni da fatto illecito, oltre interessi, attribuiti nella motivazione con la clausola “come per legge”.

Il precetto conteneva l’intimazione di pagare, oltre alla somma capitale di L. 103.800.000, gli interessi indicati come decorrenti dal 25.10.1971 e liquidati in L. 70.641.666, nonché gli interessi dalla data di notifica del precetto sull’intera somma di cui era stato intimato il pagamento.

2. – Carolina Esposito proponeva opposizione al precetto, lamentando, tra l’altro, che si pretendesse far decorrere la liquidazione degli interessi da una data, il 25.10.1971, non indicata nel titolo esecutivo né determinata in questo con riferimento ad altri atti.

Giuseppe Giuffrida si costituiva in giudizio e chiedeva che l’opposizione fosse respinta: esponeva che la data del 25.10.1971, a partire dalla quale era stata operata la liquidazione degli interessi con il precetto, corrispondeva a quella di commissione del fatto illecito e risultava dalla sentenza penale 14.7.1978 del tribunale di Napoli, sia pur riformata in appello per sopravvenuta estinzione del reato per prescrizione, sentenza che aveva indicato quella data e sulle cui risultanze era stata anche basata la decisione resa in sede civile.

3. – Il tribunale di Napoli, con sentenza 10.6.1986, accoglieva l’opposizione ed affermava che, non risultando dalla decisione fatta valere come titolo esecutivo la data di commissione dell’illecito, gli interessi potevano essere fatti decorrere solo dalla data della domanda di risarcimento dei danni, sicché, sino alla data di notifica del precetto, ammontavano a L. 37.022.000.

4. – Giuseppe Giuffrida proponeva appello.

Carolina Esposito proponeva dal canto suo appello incidentale, lamentando che il tribunale avesse mancato di pronunziare su altra sua domanda, intesa a far dichiarare che, sugli interessi liquidati dalla sentenza costituente titolo esecutivo e richiesti sino alla data di notifica del precetto, non potevano esser pretesi dalla data di questo ulteriori interessi ostandovi la disciplina dell’anatocismo.

L’appello incidentale era proposto con comparsa depositata nell’udienza di prima comparizione del 9.10.1986, dopo che la Esposito aveva assunto l’iniziativa di far notificare all’altra parte la sentenza di primo grado il 27.6.1986.

5. – La Corte d’Appello di Napoli, con sentenza 30.4.1987, rigettava l’impugnazione principale e accoglieva quella incidentale.

La Corte d’Appello riteneva.

– quanto all’impugnazione proposta dal Giuffrida, creditore procedente, che il titolo posto a fondamento dell’esecuzione non consentisse di trarre una data precisa di riferimento per l’evento dannoso patito dallo stesso Giuffrida e che tale data non potesse desumersi da atti fuori del titolo e particolarmente dalla originaria sentenza penale di condanna, giacché questa in appello era stata riformata e il giudice che aveva emesso la sentenza posta in esecuzione s’era dilungato sulla individuazione dell’attività truffaldina dell’Esposito senza peraltro fare riferimento, in ordine al giorno del fatto illecito, alla indicata sentenza penale di condanna;

– quanto all’impugnazione incidentale proposta dall’opponente Esposito, debitrice, che l’appello era ammissibile ed era altresì fondato, perché da un lato la capitalizzazione degli interessi scaduti presuppone la domanda del creditore e tale domanda non può essere rappresentata dal precetto, dall’altro la regola che consente la capitalizzazione non s’applica agli interessi sulle somme liquidate a titolo di risarcimento dei danni.

6. – Giuseppe Giuffrida ha proposto ricorso per cassazione, deducendo tre motivi, articolati in più censure, illustrate da memoria.

Carolina Esposito ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione

1. – Con i primi due motivi vengono denunziati vizi di violazione di norme di diritto (l’art. 1219 n. 1 cod. civ. e gli artt. 116, 132 e 474 cod. proc. civ.) e di difetto di motivazione.

La critica che vi è svolta riguarda il processo logico e la conclusione del giudizio condotto sulla interpretazione della sentenza, che l’attuale ricorrente aveva fatto valere come titolo esecutivo.

I motivi sono fondati per le ragioni di seguito indicate. 2. – Esponendo lo svolgimento del processo si è accennato che quella sentenza recava la condanna a pagare, oltre ad una somma liquidata a titolo di risarcimento del danno da fatto illecito, gli interessi, attribuiti nella motivazione con la clausola “come per legge” e non liquidati in una specifica somma nel dispositivo, che neppure conteneva altri riferimenti ai termini da assumere a base dell’operazione di calcolo.

La liquidazione di tali interessi era stata operata nel precetto, in base al presupposto che fossero dovuti a partire dalla data di commissione del fatto illecito, che era stata indicata nel 25.10.1971.

L’attuale resistente, proponendo opposizione al precetto, aveva lamentato che si fosse preteso far decorrere la liquidazione degli interessi da una data, il 25.10.1971, non indicata nel titolo esecutivo né determinata in questo con riferimento ad altri atti.

L’oggetto del giudizio di opposizione, rappresentato dal doversi accertare se, in relazione a questa componente della somma, di cui era stato intimato il pagamento con il precetto, sussistesse il diritto a procedere ad esecuzione forzata, imponeva al giudice di interpretare la sentenza in virtù della quale l’esecuzione era stata minacciata.

La prima operazione logica da compiere a questo fine consisteva nello stabilire il tipo di credito fatto valere con la domanda, su cui era stata pronunziata la sentenza di condanna, la seconda operazione consisteva nell’individuare, nell’ambito della disciplina degli interessi, la norma cui ricondurre quel tipo di credito: ne sarebbe così risultata la decorrenza assegnata dalla sentenza agli interessati, la condanna al cui pagamento era stata espressa con la formula “come per legge”.

Il giudice dell’opposizione all’esecuzione appare aver compiuto, almeno per implicito, ambedue le operazioni. La sua sentenza mostra la condanna al pagamento degli interessi è stata interpretata come comportare una loro decorrenza dalla data di verificazione del danno prodotto dalla condotta illecita attribuita all’attuale resistente.

Nella sentenza si osserva, invero, che è la concreta individuazione del momento di verificazione del danno, che non è desumibile dall’altra sentenza, (quella fatta valere come titolo esecutivo).

Questo secondo giudizio la sentenza impugnata lo ha espresso affermando che la pronunzia di condanna non aveva consentito di risalire ad una data precisa di riferimento per l’evento dannoso patito dal Giuffrida (l’attuale ricorrente), giacché essa s’era dilungata sull’individuazione dell’attività truffaldina dell’Esposito (l’attuale resistente) e del marito, ma non aveva fatto riferimento, in ordine al giorno dell’illecito, neppure alla sentenza penale di primo grado, peraltro riformata in appello, cui s’era richiamato nelle sue difese il Giuffrida.

Orbene, una volta accertato che, secondo la sentenza di condanna, la decorrenza degli interessi era segnata dalla verificazione del fatto illecito, la successiva operazione logica, imposta dalla necessità di esplicitare la portata di quella sentenza, avrebbe richiesto di stabilire quali fossero stati, secondo la medesima sentenza, gli elementi costitutivi del concreto fatto illecito che essa aveva affermato posto in essere dall’Esposito e da cui aveva fatto seguire la condanna al risarcimento del danno.

Il giudizio espresso dalla sentenza impugnata e sopra riassunto corrisponde – topograficamente – all’ora indicato momento logico del processo interpretativo, ma non resiste alla critica che gli è mossa, di non essere sufficientemente motivato.

La sentenza impugnata, invero, mostra d’essersi arrestata a considerazioni d’ordine formale e di non aver concretamente accertato quale danno la sentenza di condanna avesse considerato subito dal Giuffrida, quale condotta fosse stata ritenuta averlo causato e quale momento logico se non cronologico fosse stato ritenuto conclusivo della condotta illecita e determinativo del danno ammesso a risarcimento.

Per quanto si è detto, il capo della decisione sin qui considerato deve essere cassato ed al giudice di rinvio spetterà riprendere il giudizio di interpretazione della sentenza di condanna, a partire dal punto riscontrato affetto dal vizio di insufficiente motivazione, e completarlo.

Nel rinnovare, nei limiti anzidetti, l’interpretazione della sentenza di condanna, poiché tale interpretazione è richiesta in funzione dell’attuazione esecutiva della sentenza stessa, il giudice di rinvio, in caso di residua incertezza sulla concreta data da assumere a decorrenza degli interessi alla stregua del titolo esecutivo, dovrà, nel decidere la causa, che è causa di opposizione all’esecuzione, applicare l’art. 474 cod. proc. civ. e la regola da esso posta, che l’esecuzione forzata non può aver luogo che in virtù d’un titolo esecutivo e per un diritto certo. Di tal che l’incertezza dovrà risolversi in danno del creditore procedente sino al limite cronologico, oltre il quale non residui dubbio, alla stregua della sentenza di condanna, che essa abbia considerato il danno da risarcire già verificatosi.

L’interpretazione della sentenza andrà condotta tenendo conto della sua motivazione, cioé dei motivi in fatto e in diritto della decisione, valorizzando, allo scopo, sia i fatti emergenti dalla esposizione dello svolgimento del processo sia, eventualmente, quelli desumibili da atti, acquisiti al giudizio di opposizione all’esecuzione, di cui sia provata la produzione nel giudizio di condanna, gli uni e gli altri fatti in quanto possano esser considerati entrati a far parte della motivazione della decisione per costituirne logico e necessario presupposto.

3. – Con il terzo motivo vengono denunziati i vizi di violazione e falsa applicazione di norme di diritto e sul procedimento (l’art. 1283 cod. civ. e gli artt. 99, 112, 190, 325, 326, 342, 343 e 345 cod. proc. civ.), nonché di difetto di motivazione.

Nel motivo sono svolte due censure, che riguardano la decisione resa dalla sentenza impugnata sull’appello incidentale e sulla questione dell’anatocismo.

La critica di violazione delle norme sul procedimento non è fondata.

L’art. 334, comma 1, cod. proc. civ. consente alla parte, contro cui è stata proposta impugnazione, di proporre impugnazione incidentale anche quando per essa è decorso il termine, l’art. 343, comma 1, cod. proc. civ. descrive modo e termine dell’appello incidentale, che va proposto non oltre l’udienza di comparizione.

Questa seconda norma è stata osservata e dunque l’appello incidentale era ammissibile né rilevava che esso fosse stato rivolto contro una capo della decisione diverso da quello impugnato con l’appello principale, perché l’art. 334, comma 1, cod. proc. civ.

non pone limiti di oggetto all’esperibilità dell’impugnazione incidentale (Cass. 7.12.1989 n. 4640).

La critica di violazione e falsa applicazione dell’art. 1283 cod. civ. è invece fondata.

L’attuale ricorrente, con il precetto, aveva intimato di pagare, oltre alla somma di L. 70.641.666, in cui aveva liquidato gli interessi sul risarcimento del danno, anche gli interessi sulla prima somma e ciò a decorrere dalla data dello stesso precetto.

La sentenza impugnata, pronunziando sulla domanda proposta con l’opposizione a precetto, ha dichiarato che gli interessi sulla somma liquidata a titolo di risarcimento del danno non producono ulteriori interessi.

Le ragioni di tale affermazione sono state tratte dalla norma dettata dall’art. 1283 cod. civ.: la corte d’appello ha osservato che l’art. 1283 cod. civ., secondo il quale gli interessi dovuti da almeno si mesi e scaduti possono produrre altri interessi, non s’applica se non alle obbligazioni pecuniarie e non è pertanto invocabile nella diversa ipotesi degli interessi, che vengano riconosciuti a partire dalla data del fatto illecito, sulle somme liquidate a titolo di risarcimento del danno.

Il principio richiamato dalla sentenza impugnata è stato più volte enunciato da questa corte (cfr., da ultimo, sent. 19.3.1990 n. 2296; 22.6.1985 n. 3761; 10.12.1984 n. 6476): come però osserva il ricorrente, esso non s’attaglia alla questione in esame.

Un consolidato indirizzo giurisprudenziale vuole che il danno da fatto illecito sia completamente risarcito solo se al danneggiato siano attribuiti l’equivalente del bene perduto, espresso in moneta al tempo della liquidazione, e gli interessi legali su tale somma a decorrere dalla data dell’illecito.

Questi interessi (c.d. compensativi) non costituiscono peraltro oggetto di un’autonoma obbligazione, ma componente del risarcimento e dunque elemento dell’oggetto dell’obbligazione risarcitoria.

Ciò spiega come, a loro riguardo, non possa profilarsi un problema d’applicazione dell’art. 1283 cod. civ., che presuppone l’esistenza di un’obbligazione avente ad oggetto il pagamento di interessi.

Ne deriva che, una volta pronunziata la condanna al risarcimento del danno e liquidato questo attraverso l’attribuzione anche dei c.d. interessi compensativi, la somma corrispondente, poiché non costituisce l’oggetto di un’autonoma obbligazione di interessi ma componente della liquidazione del danno, si comporterà non diversamente dall’equivalente del danno, quale somma oggetto dell’obbligazione scaturente dalla sentenza, cioé oggetto di un’obbligazione di valuta, soggetta alla disciplina generale di questa e non alla disciplina speciale delle obbligazioni di interessi.

Tra le norme che compongono la disciplina generale delle obbligazioni pecuniarie è quella dettata dalla prima parte dell’art. 1282, comma 1, cod. civ., secondo la quale i crediti liquidi ed esigibili di somme di danaro producono interessi di pieno diritto.

Il credito di risarcimento del danno, liquidato da sentenza esecutiva, di diritto o tale dichiarata dal giudice che l’ha emessa (art. 282 cod. proc. civ.), costituisce appunto un credito liquido ed esigibile di soma di danaro, in ambedue le componenti sin qui considerate (cfr. Cass. 11.12.1990 n. 11786 in relazione alla condanna alle spese contenuta in sentenza esecutiva).

D’altro canto, la sentenza di condanna, che costituisce titolo esecutivo per il credito in essa liquidato, costituisce altresì titolo esecutivo per gli interessi che il credito produce di diritto secondo il disposto dell’art. 1282, comma 1, cod. civ. (cfr. con riguardo al titolo esecutivo rappresentato dalla cambiale, gli artt. 63, comma 1, e 55, comma 1, R.D. 14 dicembre 1933 n. 1669).

La sentenza impugnata, che ha negato il diritto a procedere ad esecuzione forzata per gli interessi sulla componente del credito rappresentata dai c.d. interessi compensativi, si rivela dunque viziata dalla falsa applicazione dell’art. 1283 cod. civ..

Il relativo capo di decisione va perciò cassato; il giudice di rinvio si atterrà sul punto al principio di diritto avanti enunciato.

4. – Il ricorso va accolto nei limiti indicati e negli stessi limiti va cassata la sentenza impugnata.

La causa è rimessa al giudice di rinvio, che si designa in altra sezione della corte d’appello di Napoli, cui si rimette di provvedere anche sulle spese di questo grado di giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa in relazione, rinvia la causa ad altra sezione della Corte d’Appello di Napoli, anche per le spese.
Così deciso il 19 aprile 1991, in Roma, nella camera di consiglio della terza sezione civile della Corte Suprema di Cassazione.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 14 DICEMBRE 1991