Svolgimento del processo
I coeredi Mauro – Rosa – Maria Cicchelli, quest’ultima divenuta poi dante causa di Laura Mariani Cerati, con atto pubblico del 31 gennaio 1965, procedevano al frazionamento orizzontale della loro villa in Formia via Paone 60 mediante rispettiva attribuzione del piano rialzato, del primo piano e dell’attico, sovrastato da una camera a canne e da un “sottotetto” non menzionato espressamente nello stesso rogito.
Insorta lite, il tribunale di Latina, adito dalla Mariani e dai germani Mauro – Rosa Cicchelli con separato atto 8 febbraio e 13 maggio 1977 (quest’ultimo riassuntivo di giudizio svoltosi dinanzi al pretore di Formia per denuncia di nuova opera e definito con la sospensione dei lavori intrapresi dalla Mariani), dopo la riunione di entrambi i giudizi istruiti mediante acquisizioni documentali ed espletamento di CTU, con sentenza 5 marzo 1981, adottava le seguenti statuizioni.
Il “sottotetto”, comprendendo nel suo volume tutta la struttura lignea portante della copertura sino alla camera a canne fungente da “soletta” dell’attico, doveva ritenersi parte integrante del tetto e
– come tale – di proprietà comune.
L’esclusione del “sottotetto” dalla quota assegnata alla dante causa della Mariani trovava inoltre conferma indiretta nell’atto divisionale, laddove si diceva che il “piano sottotetto” di un fabbricato in Castelnuovo Parano – sottoposto pure a frazionamento – era rimasto di proprietà comune dei condividenti interessati.
Il diritto vantato dalla Mariani di sostituzione del tetto in legno con altro in cemento armato non era configurabile, trattandosi di innovazione vietata dal titolo divisionale perché antiestetica, comportante – se realizzata – un aumento dell’altezza della villa per circa 66 centimetri e non giustificata nemmeno dalle condizioni – buone – dell’attuale copertura.
Il piccolo locale, adiacente all’attico ma a livello più basso, faceva parte – sempre ad avviso del tribunale – della proprietà esclusiva della Cicchelli in virtù del rogito divisionale, laddove si dava atto che le quote di diritto corrispondevano a quelle di fatto, e tenuto conto della conforme destinazione del vano – ove nell’anno 1954 erano stati istallati i cassoni dell’acqua – a servizio esclusivo del primo piano.
Delle quattro finestre aperte dai Cicchelli, soltanto una e cioé quella aperta dal Cicchelli era da considerarsi – in base al parere formulato dal CTU – antiestetica; per cui ne veniva ordinata la chiusura.
Il Tribunale condannava infine la Mariani alla rimozione di tutte le attrezzature ed apparecchiature da lei installate abusivamente a servizio del suo appartamento in un locale terraneo, risultato di proprietà esclusiva del Cicchelli.
Tale decisione, sottoposta a gravame dalla Mariani e dai Cicchelli incidentalmente, veniva poi confermata “in toto” dalla corte territoriale, che adottava però una diversa motivazione con riferimento alla proprietà del “sottotetto”, attribuita ugualmente al condominio sulla scorta dei seguenti rilievi.
Il vano “de quo”, ove erano state alloggiate dall’originario costruttore le strutture lignee del tetto, non faceva parte integrante di quest’ultimo, costituito soltanto dalla copertura, dalle strutture portanti e dagli elementi di gronda, e – sebbene non utilizzato né praticabile – doveva ugualmente ritenersi di proprietà comune perché posto a servizio del tetto, come evidenziato dalle caratteristiche strutturali e funzionali (necessità di sostegno e di alloggiamento delle strutture lignee nello stesso vano).
Il titolo e cioé l’atto divisionale utilizzato dal tribunale per corroborare la presunzione legale di comunione del “sottotetto” e, per converso, dalla Mariani per avvalorare la propria tesi del rapporto pertinenziale con il proprio attico, non poteva – ad avviso della corte – avere efficacia probante in nessuna delle due ipotesi, stante l’omessa menzione del vano “de quo” nella quota immobiliare attribuita alla dante causa della Mariani.
Ricorre quest’ultima con sette motivi, ai quali resistono – mediante controricorso – i Cicchelli.
Entrambe le parti hanno presentato memoria.
Motivi della decisione
Delle sette censure formulate soltanto la seconda merita accoglimento nella misura in cui colpisce nel segno.
Con tale motivo si denuncia la violazione degli art. 817 – 1117 cod. civ., avendo la corte – con motivazione insufficiente e contraddittoria anche per omesso esame dell’atto divisionale – ritenuto che il “sottotetto”, sebbene non utilizzato né praticabile per mancanza di idoneo solaio, sia destinato al servizio esclusivo del tetto in funzione pertinenziale.
Giova anzitutto sottolineare che, secondo la corrente accezione tecnica, per “tetto” s’intende l’insieme delle opere destinate a proteggere l’edificio dalle acque meteoriche.
Il “sottotetto”, ossia la parte di edificio immediatamente inferiore al tetto, a seconda dell’altezza, della praticabilità del solaio, delle modalità di accesso e dell’esistenza o meno di finestre, si distingue in:
– “mansarda” (o “camera a tetto”), e cioé locale abitabile;
– “soffitta”, ossia vano inabitabile ma utilizzabile soltanto come deposito, stenditoio etc;
– “camera d’aria” (o “palco morto”) e cioé vano sprovvisto – a differenza degli altri – di solaio idoneo a sopportare il peso di persone o cose, e destinato quindi essenzialmente a preservare l’ultimo piano dell’edificio dal caldo, dal freddo e dall’umidità.
Questa corte, nell’applicare tali concetti alle singole fattispecie esaminate, ha elaborato i seguenti principi.
Il “sottotetto” di un edificio può considerarsi pertinenza dell’appartamento sito all’ultimo piano solo quando assolva alla esclusiva funzione di isolare e proteggere l’appartamento medesimo dal caldo, dal freddo e dall’umidità, tramite la creazione di una camera d’aria e non anche quando abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l’utilizzazione come vano autonomo (deposito, stenditoio etc.): cfr. sent. 2 febbraio 78 n. 840.
In tale ultima ipotesi l’appartenenza del bene va determinata in base al titolo: in mancanza, poiché il “sottotetto” non è compreso nel novero delle parti comuni dell’edificio, essenziali per la sua esistenza (tetto, muri maestri, suolo etc.) o necessarie all’uso comune, la presunzione di comunione ex art. 1117 n. 1 cod. civ. è applicabile solo nel caso in cui il vano risulti in concreto, per le sue caratteristiche strutturali e funzionali, sia pure in via potenziale, oggettivamente destinato all’uso comune oppure all’esercizio di un servizio di interesse condominiale (sent.5 aprile 82-2090; 26 maggio 64 n. 1285).
Nella specie la corte di merito non ha fatto corretta applicazione di tali principi: avendo affermato la comunione del sottotetto – per cui si controverte – senza peraltro verificare, nel silenzio del titolo, se esso, tenuto conto delle sue caratteristiche strutturali, potesse considerarsi oggettivamente destinato, sia pure potenzialmente, all’uso comune e all’esercizio di un servizio di interesse condominiale o se fosse invece destinato – per essere sprovvisto di solaio idoneo a sopportare il peso di persone o di cose
– essenzialmente ed esclusivamente a preservare l’ultimo piano dello edificio dal caldo, dal freddo e dall’umidità, in guisa da configurare una pertinenza dell’ultimo piano.
Inoltre, la circostanza che il vano “de quo” funga – per evidenti ragioni di tecnica costruttiva peraltro ormai obsoleta – anche da mero contenitore delle strutture portanti del tetto, poggianti sui muri perimetrali, non avrebbe dovuto esimere la corte dall’affrontare la questione nodale, concernente l’accertamento della primaria destinazione oggettiva impressa alla “camera d’aria”, considerata nel suo preponderante spazio volumetrico rispetto a quello occupato dalle travature del tetto, al fine di accertare la sussistenza o meno del rapporto pertinenziale con il sottostante appartamento.
A tutto ciò dovrà ovviamente provvedere il giudice del rinvio. Non resta ora che scendere all’esame degli altri motivi. Con il primo si deduce in violazione degli art. 1117 n. 1 (sotto altro profilo) e 1362 cod. civ. perché la corte – con motivazione carente o, quanto meno insufficiente – avrebbe malamente interpretato l’atto divisionale, costituente titolo per l’attribuzione della proprietà esclusiva del “sottotetto” all’odierna ricorrente.
La censura è infondata.
La Corte, con motivazione immune da qualsivoglia vizio, ha correttamente interpretato l’atto divisionale nel senso che, in difetto di espressa menzione del “sottotetto” nel rogito, la locazione adoperata (“restante parte del fabbricato” attribuita a Maria Cicchelli), è stata implicitamente ritenuta incompleta e quindi equivoca.
Con il terzo e quarto motivo, da esaminarsi congiuntamente per la loro intima connessione, si denuncia la violazione degli art. 1102 – 1120 cod. civ. per avere la corte – con motivazione viziata – affermato l’insussistenza del diritto di sostituzione del tetto ligneo con altro in cemento armato malgrado la liceità di tale innovazione, resa necessaria dalle condizioni di fatiscenza della copertura, ed omesso di pronunciarsi sulla richiesta di rinnovazione della CTU.
Entrambe le censure sono infondate.
La corte, con motivazione ineccepibile, ha escluso la configurabilità del vantato diritto, trattandosi – come accertato in fatto – di innovazione vietata non soltanto dal titolo (atto divisionale) ma anche dall’art. 1120-2 cod. civ. perché antiestetica, comportante – se realizzata – un aumento dell’altezza dell’edificio per circa 66 centimetri e non giustificata nemmeno dalle condizioni – buone – dell’attuale copertura.
E’ stata inoltre implicitamente rigettata l’istanza di rinnovazione della CTU, avendo la corte ancorato il proprio convincimento all’esatto parere del consulente d’ufficio, che ha fatto proprio.
Con il quinto motivo si deduce la violazione degli art. 2700 – 2733 cod. civ. e 113 – 115 – 116 cod. proc. civ., per avere la corte
– con motivazione viziata – affermato, contro il parere del CTU ed attribuendo erroneamente valore confessorio a quanto dichiarato dalla Cicchelli in sede d’interrogatorio, che la proprietà del piccolo locale (sito ad un livello intermedio tra gli appartamenti della Mariani e della Cicchelli) spetta a quest’ultima.
La censura è destituita di fondamento.
La corte, interpretando – previo corretto uso delle regole d’ermeneutica negoziale – il contenuto dell’atto divisionale, ha accertato la perfetta corrispondenza della quota di fatto posseduta dalla Cicchelli a quella assegnatale, in quanto il vano “de quo” era stato destinato – prima della divisione – dal comune dante causa a servizio esclusivo del primo piano mediante installazione dei cassoni dell’acqua.
Quanto dichiarato al riguardo dalla Cicchelli è stato utilizzato, in difetto di specifica contestazione, dalla corte a scopo meramente rafforzativo del proprio convincimento fondato sulle risultanze documentali.
Con il sesto motivo si denuncia la violazione dell’art. 1102 cod. civ., avendo la corte confermato la chiusura di una sola finestra, malgrado l’illiceità delle altre tre, risultante dall’atto divisionale.
Il motivo è infondato.
La questione impinge nel merito, poiché la Corte ha disposto la chiusura dell’unica finestra aperta dal Cicchelli e non anche delle altre tre, facendo leva sul parere di antiesteticità espresso dal CTU e fatto proprio.
Con l’ultimo motivo si denuncia la violazione dell’art. 2697 cod. civ., avendo la corte omesso di specificare se l’ordine di rimozione delle attrezzature si riferiva anche all’autoclave ed ai serbatoi di proprietà comune e di spiegare perché tale ordine era stato impartito soltanto all’odierna ricorrente e non anche agli altri condomini.
La censura è infondata; la Mariani è stata condannata alla rimozione di tutte le attrezzature ed apparecchiature da lei installate abusivamente nel locale terraneo, risultato di proprietà esclusiva del Cicchelli.
La motivazione adottata, conforme peraltro a quella del tribunale, non si presta ad alcun equivoco.
Da tutte le considerazioni sin qui svolte discendono l’accoglimento del secondo motivo per quanto di ragione e la reiezione di tutti gli altri.
La sentenza va pertanto cassata parzialmente e la causa rinviata – anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio – ad altra sezione della corte di appello di Roma, la quale dovrà riesaminare la questione riguardante la proprietà del “sottotetto” alla luce dei principi enunciati.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione, accoglie – per quanto di ragione – il secondo motivo del ricorso; rigetta tutti gli altri motivi; cassa l’impugnata sentenza e rinvia la causa – anche per spese – ad altra sezione della corte d’appello di Roma.
Roma, 17 dicembre 1985.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 22 APRILE 1986