Svolgimento del processo
Mediante manifesto del Comando Militare Marittimo autonomo della Sicilia – affisso dal 13 al 17 luglio 1964 presso il Comune di Trapani e successivamente mediante decreto del Ministero della Difesa
– Marina del 5 aprile 1965 – notificato a Giovanni e Rosario Adragna il 25 settembre s.a. – venne imposta, rispettivamente in via d’urgenza ed in via definitiva, ai sensi della legge n. 1849 del 20 dicembre 1932, su di una fascia profonda ml. 40 antistante la recinzione di un deposito di carburante della Marina, servitù militare consistente nei divieti: a-) di fare piantagioni di alberi la cui altezza potesse intercettare la possibilità di vista e di tiro; di curare determinate operazioni campestri, quali lo scasso del terreno con mine e la combustione dei residui delle piantagioni; b-) di lasciare seccare sul posto i prodotti della coltivazione e di omettere lo sfalcio della vegetazione spontanea; c-) di fabbricare muri, elevazioni di terra o di altro materiale, di scavare fosse od altri vai, ad eccezione di cunette per lo scolo delle acque della profondità massima di cm. 50; d-) di impiantare linee elettriche o condotte di gas, di tenere depositi di materiale infiammabile o fucine od altri impianti provvisti di focolare, con o senza fumaiolo.
Con atto di citazione del 10 agosto 1967 i fratelli Giovanni e Rosario adragna, premesso che nella zona asservita ricadeva, nella misura di circa 6.000 mq. parte di un’area di mq. 25.755 di loro proprietà, sita nella zona periferica dell’abitato di Trapani ed avente destinazione edilizia, convennero davanti al Tribunale di Palermo il Ministero della Difesa-Marina e ne chiesero la condanna al pagamento di una congrua indennità ai sensi della legge 25 giugno 1865 n. 2359, sostenendo che la imposizione della servitù aveva natura espropriativa, in quanto per contenuto tale da sopprimere ogni possibilità di sfruttamento – anche agricolo – del terreno.
L’amministrazione convenuta, costituitasi, contrastò la domanda, controdeducendo che la servitù imposta non comportava modificazione dello stato dei luoghi o compressione del diritto di proprietà idonea a svuotarla di contenuto; che avendo essa carattere non perpetuo, l’indennizzo andava limitato alla durata del vincolo e commisurato ad una quota del reddito agrario e dominicale del terreno, previa rivalutazione ai fini dell’imposta complementare, ai sensi dell’art. 2 della sopravvenuta legge 8 marzo 1968 n. 180.
Intervenuta volontariamente nel giudizio, a sostegno delle ragioni degli attori la loro madre Franca Maria Serraino (quale usufruttuaria per un terzo del terreno asservito) e previo espletamento di consulenza tecnica estimativa circa le caratteristiche dell’immobile ed il suo reddito, il Tribunale di Palermo, con sentenza del 24.12.1970, condannò la Amministrazione convenuta al pagamento di una indennità di lire dieci milioni per anno, con decorrenza dal 19 luglio 1964 e sino alla cessazione della servitù militare, oltre agli interessi sui ratei scaduti ed alle spese.
Osservarono quei giudici che i vincoli imposti sul fondo, impedendone la disponibilità ed il godimento secondo la sua naturale e legale destinazione all’edificazione, concretavano una servitù militare a carattere espropriativo; che tale sacrificio dava luogo ad indennizzo, quantificabile ai sensi della legge 25.6.1865 n. 2359 sulle espropriazioni per pubblica utilità, in applicazione del disposto di cui all’art. 3 della legge n. 1849 del 1932, in quanto la Corte Costituzionale, con sentenza n. 6 del 20 gennaio 1966 aveva dichiarato illegittima la parte in cui quella norma non prevedeva indennizzo per le limitazioni delle proprietà private di natura espropriativa; che in tema di liquidazione dell’indennizzo non era invece applicabile la legge n. 180 del 1968, perché entrata in vigore successivamente alla imposizione della servitù e perché priva di disposizioni circa la sua retroattività; che l’indennizzo, quale equivalente economico del sacrificio temporaneo arrecato doveva essere determinato in ragione del tasso di interesse sulla differenza tra il valore di mercato che il fondo aveva acquisito come suolo edificabile ed il valore di mercato che il fondo aveva conservato come suolo suscettivo di colture agricole non vietate.
Interposero gravame, in via principale la Amministrazione della Difesa, ed in via incidentale i fratelli Adragna e la madre Serraino (deceduto poi nelle more del giudizio).
La Corte di Appello di Palermo – dopo avere disposto una nuova consulenza tecnica circa la estensione e la destinazione dell’area asservita, e dopo avere acquisito altra documentazione tra cui quella attestante che l’originario asservimento era stato sostituito in data 19 maggio 1971 con altro, mediante nuovi provvedimenti dell’amministrazione militare rimasti estranei alla materia del contendere – con sentenza del 25 ottobre 1976, ridusse la indennità dovuta da lire 10 milioni a lire 2.480.800 all’anno, per il tratto di tempo decorrente dal 19 luglio 1964 sino al 19 maggio 1971.
A questa conclusione la Corte di merito pervenne mantenendo inalterati e ribadendo i criteri di diritto informatori della decisione del Tribunale, ma calcolando riduttivamente, rispetto ad essa, il valore e la superficie dell’area gravata dalla servitù militare.
Per la cassazione di tale sentenza – notificata il 18 gennaio 1977
– l’Amministrazione della Difesa ha proposto ricorso, impostato su cinque motivi.
giovanni e Rosario Adragna hanno resistito con controricorso.
Motivi della decisione
1°-) Con il primo motivo la Amministrazione ricorrente sostiene il difetto di giurisdizione nel giudice ordinario e l’improponibilità, per decadenza, dalla domanda indennitaria, partendo dal presupposto che quest’ultima postuli, oggettivamente ed al di là dalla sua impostazione, l’accertamento della illegittimità del provvedimento impositivo della servitù militare (per mancata stima e determinazione dell’indennizzo); provvedimento in ordine al quale non sarebbero stati esperiti i previsti rimedi davanti al giudice amministrativo o davanti al giudice ordinario nei termini indicati dall’art. 51 della legge n. 2359 del 1865.
L’assunto e privo di fondamento.
Nel sistema delineato dalla legge 20 dic. 1932 n. 1849 e dal Regolamento di esecuzione, R.D. 4 maggio 1936 n. 1388, la servitù imposta in via di urgenza aveva effetto dopo 5 giorni dalla pubblicazione del manifesto (o bando) e quella imposta in via definitiva alla scadenza del termine di 10 giorni dalla notificazione del decreto ministeriale al proprietario del fondo asservito, qualora non vi fosse opposizione.
Né al bando né al decreto da pubblicare mediante affissione all’albo pretorio e da notificare per estratto ai fini dell’eventuale reclamo – era per altro allegata la perizia di stima dell’indennità, elaborata dall’Ufficio tecnico militare a corredo del progetto definitivo per la imposizione o la modificazione di servitù (cfr. art. 9 lett. e); art. II, II° co. ed art. 12 del Regolamento); perizia la cui stessa elaborazione poteva essere discrezionalmente rinviata ad un secondo tempo (cfr. art. 9 ult. co del Regolamento).
Poiché inoltre il successivo art. 15 rinviava alla procedura prevista al Capo IV della legge n. 2359 del 1865 sulle espropriazioni per pubblica utilità, per quanto concerneva la determinazione e la corresponsione delle indennità dovute, risultava evidente come quelle operazioni non costituissero un fase sub procedimentale inserite nell’iter amministrativo culminante nel decreto impositivo della servitù, o quanto meno di quest’ultimo non condizionassero la efficacia; bensì concretassero un procedimento autonomo e successivo rispetto all’altro, la cui mancanza od irregolarità non poteva costituire oggetto dell’opposizione all’asservimento prevista dall’art. 4 L. n. 1849 del 1932; ed il cui distacco cronologico non dava adito a profili di incostituzionalità (cfr. C. Cost. n. 138 del 1977).
Deve escludersi, pertanto, che la domanda indennitaria degli Adragna implicasse accertamenti sulla illegittimità dei provvedimenti di asservimento emessi nel 1964 e nel 1965 dall’Amministrazione militare. Incontroversa, invece, l’efficacia delle limitazioni imposte al diritto di proprietà e la legittimità dell’esercizio del potere impositivo, la pretesa fatta valere in giudizio si palesava tendente esclusivamente alla corresponsione di quell’indennizzo, ai sensi della legge n. 2359 del 1865, cui dette limitazioni “davano luogo” secondo il dettato dell’art. 3 della legge n. 1849 del 1932.
Ed ènoto che le controversie circa le pretese patrimoniali conseguenti alla espropriazione (in senso lato) sono devolute in ogni caso alla cognizione del giudice ordinario allorché investano una questione di diritto soggettivo perfetto (cfr., tra le altre, Cass. S.U. n. 179 del 1963): quale, appunto la pretesa di conseguire una giusta indennità nel caso in cui la sua determinazione sia stata mancante od illegale (cfr. Cass. S.U. n. 1569 del 1970).
Rispetto, poi, ad una fattispecie come quella in esame, caratterizzata non solo dalla mancata offerta, o riserva di offerta, di una qualche indennità secondo la perizia di stima dell’Ufficio tecnico militare, ma soprattutto dal mancato svolgimento dell’intera procedura per la stima giudiziale del bene asservito, ai sensi della legge n. 2359 del 1865, risulta insostenibile la tesi della decadenza dall’esercizi del diritto all’indennità per decorrenza del termine di cui all’art. 51 di quella legge. Non può, infatti, profilarsi un onere di tempestiva impugnazione – onde impedire che la determinazione dell’indennizzo divenga definitivo, con preclusione di future richieste in sede giudiziale – quanto quella determinazione manchi e difetti il meccanismo procedimentale a fronte della conclusione del quale la impugnazione possa collocarsi in funzione di tempestiva reazione (cfr., per riferimenti, Cass. n. 2626 del 1956 e n. 2248 del 1960).
Giova ricordare, del resto, che la separazione del procedimento per la imposizione della servitù da quello per la determinazione e corresponsione della indennità, già insito nel sistema normativo di cui alla legge n. 1849 del 1932, è stata ancor più accentuata dalla sopravvenuta regolamentazione delle servitù militari di cui alla legge 24-XII-1976 n. 898, laddove si prevede (art. 14 ult. comma) che gli indennizzi siano corrisposti “a domanda degli aventi diritto”, anche se trattasi di beni asserviti ai sensi della legge n. 1849 del 1932 e successive modificazioni.
2°-) Facendo richiamo, appunto, alla nuova disciplina ora citata, con il secondo motivo l’Amministrazione ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. I della legge 8.3.1968 n. 180, dell’art. 136 della Costituzione, dell’art. 14 della legge 24-XII-1976 n. 898, e sostiene:
a-) che nessun indennizzo per la costituzione di servitù consistenti in un “non facere”, come quella in esame, era dovuta sino al 29 gennaio 1966, giorno successivo alla pubblicazione della sentenza n. 6 del 1966 con cui la Corte Costituzionale aveva dichiarato la illegittimità dell’art. 3 della legge n. 1849 del 1932 per la parte in cui limitava la indennizzabile alle modificazioni da parte dell’autorità militare, dello stato delle cose contrastanti con le esigenze militari, nelle private proprietà;
b-) che dal 30 gennaio 1966 al 5 aprile 1968, giorno anteriore a quello dell’entrata in vigore della legge 8 marzo 1968 n. 180 (pubblicata in G.U. 22.3.1968 n. 76), l’indennizzabilità dell’asservimento risultava escluso, implicitamente, ai sensi dell’art. 14 della legge n. 898 del 1976; o poteva in subordine riconoscersi nella misura prevista dall’art. 2, ultimo comma della legge n. 180 del 1968; oppure, in estremo subordine, in applicazione della legge fondamentale n. 2359 del 1865;
c-) che dal 6 aprile 1968 sino al 19 maggio 1971 l’indennizzo doveva essere quantificato nella misura prevista dall’art. 2 della legge n. 180 del 1968, in applicazione di quanto dettato dall’art. 14 della legge n. 898 del 1976.
Di tali deduzioni soltanto l’ultima è assistita da giuridico fondamento.
Anzitutto nessun dubbio può sussistere circa la rilevanza, nella fattispecie, dalla legge n. 898 del 1976, entrata in vigore il 12 gennaio 1977, anteriormente alla notifica della sentenza in questa sede impugnata e quindi intervenuta quando era aperto e pendente il rapporto processuale relativo alla pretesa di indennizzo, contesta nell'”an” e nel “quantum” (cfr. tra le altre Cass. n. 2217 del 1967).
Occorre di conseguenza tenere presente: che ai sensi dell’art. 14 della nuova legge “ai proprietari dei fondi assoggettati alle servitù militari previste dalla legge 20 dic. 1932 n. 1849 e successive modificazioni, costituite anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge, spetta, per il periodo in cui hanno operato anche di fatto e comunque da data non anteriore al 6 aprile 1968, un indennizzo. Tale indennizzo è determinato, a norma della legge 8 marzo 1968 n. 180 fino all’entrata in vigore della presente legge, ed a norma dell’art. 7 per il periodo successivo”; e che in forza del successivo art. 22 è stata abrogata la legge 20 dic. 1932 n. 1849 e successive modificazioni.
Dal coordinamento di tali disposizioni emerge che quella dettata dall’art. 14 assolve ad una funzione di norma transitoria; che in via transitoria conserva efficacia il criterio automatico di indennizzo previsto dal secondo e dal terzo comma dell’art. 2 della legge n. 180 del 1968 (a tenore del quale a proprietari degli immobili asserviti spetta, per la durata del vincolo, un indennizzo annuo rapportato, a seconda dei casi, alla quinta, alla quarta, od alla terza parte del reddito dominicale od agrario dei terreni ed al reddito dei fabbricati, quali valutati ai fini dell’imposta complementare progressiva) e che alla norma richiamata non è stata assegnata efficacia retroattiva né ultrattiva (rispetto ai nuovi e più liberali criteri sulla determinazione dell’indennizzo, introdotti con l’art. 7 della stessa legge n. 898 del 1976).
3°-) Il primo problema ermeneutico che si pone è se, in forza del sistema normativo così delineato ed in base ai principi sulla successione delle leggi nel tempo e sull’efficacia “ex nunc” della norma abrogatrice, resti precluso al giudice, dopo il 12 gennaio 1977, di riconoscere in favore dei proprietari degli immobili sottoposti a servitù di “non facere” nella vigenza della legge n. 1849 del 1932 un indennizzo per il periodo di asservimento anteriore al 6 aprile 1968, come per implicito ed in superficiale lettura il testo dell’art. 14 della legge del 1976 sembrerebbe suggerire.
Ma la norma, se così restrittivamente interpretata, si paleserebbe manifestamente in contrasto con l’art. 42; terzo comma della Costituzione, e quindi affetta da illegittimità secondo quanto sul punto ha già avuto occasione di rilevare la Corte Costituzionale, dichiarando con la sentenza n. 6 del 20 febbraio 1966 (in G.U. del 29 gennaio 1966) la incostituzionalità dell’art. 3, secondo comma della legge n. 1849 del 1932; nella parte in cui non prevedeva indennizzo per le limitazioni discrezionalmente imposte dall’amministrazione militare alla proprietà privata, se di natura espropriativa.
In tale sentenza – posta in disparte la questione classificaria se le limitazioni in esame fossero da considerare come costitutive di servitù”, anche temporanee, o concretassero limiti di diritto pubblico al diritto di proprietà privata – veniva privilegiato l’esame dell’aspetto se esse, pur non disponendo una traslazione totale o parziale del diritto, incidessero sul godimento del bene tanto profondamente da renderlo inutilizzabile in rapporto alla destinazione inerente alla natura del bene medesimo, e determinassero il venir meno od una penetrante incisione del suo valore di scambio; e veniva ravvisata l’essenza del fenomeno espropriativo, con l’insorgenza del dovere di indennizzo, nella sottrazione in pregiudizio del proprietario del potere di utilizzazione e di disposizione attuata mediante imposizioni dell’amministrazione militare non ricollegabili al regime di appartenenza od ai modi di godimento dei beni in genere o di intere categorie di beni.
Dalla pronuncia di incostituzionalità – produttiva, secondo consolidata giurisprudenza (cfr. Cass. n. 792 e n. 3576 del 1981; n. 1480 e n. 6089 del 1982) e pacifica dottrina, di effetti retroattivi sino al momento in cui era venuto a determinarsi il contrasto della norma con il precetto costituzionale, e perciò regolatrice dei rapporti di diritto sostanziale, ancorché insorti prima della declaratoria della Corte Costituzionale, per i quali penda controversia giudiziale, salvo il limite insormontabile che essi fossero già esauriti e definiti – insorge per il giudice l’obbligo di applicare, in luogo della norma dichiarata illegittima, il nuovo principio di diritto scaturente dalla pronuncia medesima, anche quanto quest’ultima, per incidere su di una omissione del legislatore, abbia carattere “innovativo” e determini non la caducazione di un testo normativo ma la sostituzione di una regola del decidere con altra regola (cfr. Cass. n. 1807 del 1984).
Nella specie la nuova “regola juris”, introdotta in luogo di quella espunta dall’ordinamento per incostituzionalità, è indubbiamente quella – come autorevole dottrina già a suo tempo segnalava – che danno luogo ad indennizzo, ai sensi della legge n. 2359 del 1865, e successive modificazioni, le servitù militari imposte ex legge n. 1849 del 1932 le quali sottraggano al proprietario, in non irrilevante misura, la disponibilità e la utilizzabilità degli immobili asserviti, dovendo esse essere ristorate al pari di quelle consistenti nella modificazione dello stato delle cose.
Ne deriva che la caducazione per abrogazione della legge n. 1849 del 1932 – già erosa nella sua portata precettiva dalla dichiarata pronuncia di incostituzionalità – non significa certo che il legislatore abbia voluto escludere, in recidivante violazione del precetto costituzionale la validità della “regola juris” sopra ricordata in ordine alle servitù militari instaurate prima della entrata in vigore della legge n. 180 del 1968.
L’unica lettura dell’art. 14 in esame che, consentita dal suo testo e dalla sua ratio, si sottragga ad un più che manifesto sospetto di illegittimità costituzionale, è quindi quella che in detta disposizione transitoria non si è fatto parola dell'”an” e del “quantum” della indennità dovuta per le servitù militari imposte da data anteriore al 6 aprile 1968, in quanto la indennizzabilità di esse trova titolo nella legge n. 2359 del 1865 secondo il principio di diritto già affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 6 del 1966.
A tale interpretazione questa Corte deve attenersi, essendo in dovere di scegliere, tra le diverse ipotizzabili, quella consona ai precetti costituzionali, piuttosto che sollevare, sulla base di altra o, non consona interpretazione, questione di legittimità costituzionale.
Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente e limitatamente al periodo intercorso dalla data di acquisto di efficacia della imposizione della servitù (19 luglio 1964) sino alla data di entrata in vigore della legge n. 180 del 1968, risulta, in definitiva, corretto il giudizio della Corte di merito, secondo cui l’indennizzo si rendeva dovuto ai sensi della legge n. 2359 del 1865; conclusione cui danno conforto le considerazioni sin qui svolte: essendo ininfluente la abrogazione della legge n. 1849 del 1932; essendo carente di efficacia retroattiva la legge n. 180 del 1968; né efficacia retroattiva essendo ad essa stata conferita dalla disposizione transitoria di cui all’art. 14 della legge n. 898 del 1976.
4°-) Il secondo problema ermeneutico che la fattispecie presenta è se per il periodo intercorso dal 6 aprile 1968 sino al 19 maggio 1971(data non controversa in cui i vincoli imposti con l’asservimento in esame esauriscono la propria efficacia) l’indennizzo dovuto sia quantificabile secondo i criteri previsti dalla legge n. 2359 del 1865, come dai giudici del merito ritenuto, oppure secondo i criteri automatici introdotti con la legge n. 180 del 1968, come espressamente dettato nel secondo comma dell’art. 14 della legge n. 898 del 1976.
Acquista, al riguardo, rilievo la identificazione della natura dell’asservimento, operata in sede di merito.
Disattesa in primo grado la pretesa degli Adragna, secondo cui con i due provvedimenti del 1964 e 1965 era stata imposta una servitù di carattere permanente (di modo che l’indennizzo doveva corrispondere alla diminuzione del valore di mercato dell’area asservita), la questione fu riproposta col primo motivo dell’appello incidentale, ma la Corte territoriale confermò che la costituita servitù, per la sua particolare fisionomia, aveva implicato limitazioni di carattere temporaneo, correlate alle mutevoli esigenze della difesa militare e produttive di un sacrificio, nel godimento del bene, per il solo periodo di durata dei vincoli. Risulta, dunque coperto da giudicato il punto che sin dall’origine venne imposto un asservimento per natura (temporanea) e per consistenza non eccedente quello previsto e disciplinato dall’art. 2 della legge n. 180 del 1968.
Non gioverebbe osservare al riguardo che i criteri determinativi dell’indennizzo devono essere, immutabilmente, quelli stabiliti dalle leggi vigenti al momento dell’asservimento e che sarebbero comunque inapplicabili leggi sopravvenute a regolamentazione di un tipo di servitù (temporanea) diversa da quella (permanente) in passato effettivamente imposta.
Al contrario, una volta accertata la invarianza nel tempo della natura e della consistenza dell’originario rapporto di servitù temporanea, genetico del credito, il problema dell’indennizzo deve essere risolto attenendosi agli ordinari principi sulla efficacia delle leggi succedutisi l’un l’altra a disciplina del medesimo rapporto di durata.
Come in diverse occasioni questa Corte regolatrice ha già affermato, nel caso di situazioni giuridiche che non si esauriscono in un determinato momento la nuova legge si applica agli effetti del rapporto sorto anteriormente ad essa – non esauriti al momento dell’entrata in vigore della legge stessa,sempre che questa valga a regolare gli effetti ancora in corso o sopravvenuti a quel momento e questi vadano considerati per se stessi, prescindendo dal loro collegamento con lo atto o fatto che li abbia generati, e che il regolamento di tali effetti non valga a modificare la disciplina giuridica del fatto od atto generatore del rapporto medesimo; mentre la nuova legge non si applica (salve espresse ed inequivoche dichiarazioni di retroattività) ai rapporti già esauriti ed agli effetti già verificatisi del rapporto in corso (Cfr. Cass. n. 2753 del 1975; n. 250 del 1981; n. 2705 del 1982).
Ove a questo punto si tenga presente quanto a suo luogo osservato circa la sempre esistita separazione – in tema di servitù militari – tra procedimento amministrativo impositivo delle limitazioni e procedimento determinativo dell’indennizzo, non sembra consentito dubitare che il secondo e terzo comma dell’art. 2 della legge n. 180 del 1968, richiamato dalla norma transitoria di cui all’art. 14 della legge n. 898 del 1976, siano volti esclusivamente a disciplinare un effetto connaturato alla situazione di asservimento, e cioé l’obbligo di corresponsione di un indennizzo quantificato in ragione della durata del vincolo, senza con ciò incidere sulla disciplina giuridica dell’atto generatore del rapporto (decreto di imposizione della servitù).
Non si ravvisano pertanto ostacoli concettuali ostativi alla affermazione che secondo le norme ora menzionate dovevano essere indennizzati gli effetti pregiudizievoli dell’asservimento verificatosi nel periodo compreso tra il 6 aprile 1968 ed il 19 maggio 1971.
Poiché la sentenza impugnata non si è attenuta a detto canone indennitario, per questa parte essa deve essere cassata (accogliendosi per quanto di ragione il secondo motivo del ricorso) e la causa deve essere rimessa per il nuovo esame sul punto al giudice del rinvio.
5°-) Il rigetto della parte del secondo motivo del ricorso, relativa alla indennizzabilità, con criteri non automatici, dell’asservimento imposto nel periodo anteriore al 6 aprile 1968, rende indispensabile lo esame dei due successivi mezzi di annullamento: ma essi si palesano infondati.
Con il terzo motivo l’Amministrazione militare, lamentando la violazione e falsa applicazione dell’art. 39 della legge n. 2359 del 1865 e delle norme giuridiche in tema di indennizzo da servitù temporanea, addebita alla Corte di merito:
a-) di avere preso a base del calcolo non il valore venale del terreno al momento dell’asservimento bensì quello indicato dai C.T.U. con riferimento al tempo dell’espletamento dell’incarico; b-) di non avere considerato che una servitù temporanea “non aedificandi” può rivestire carattere pregiudizievole se imposta su area passibile nell’attualità, con certezza ed immediatezza, di utilizzazione edificatoria; non se gravante su area (come quella di proprietà degli Adragna) solo potenzialmente suscettibile di futura, ipotetica edificabilità.
La censura bus a) non ha ragion d’essere in quanto nella decisione impugnata (pag. 17) è stato posto a base del calcolo il valore per metro quadrato del terreno, indicato dal C.T.U. nominato in primo grado, poi dimezzandolo in considerazione dell’indice di edificabilità dell’intera superficie di proprietà degli Adragna, mentre sono stati del tutto trascurati i valori risultanti dalla consulenza tecnica espletata in secondo grado, i quali effettivamente risultavano riferiti al tempo dell’espletamento dell’incarico.
La censura sub b) si fonda su di un presupposto che non trova riscontro nella situazione di fatto concretamente accertata come reale dai giudici del merito.
Nella motivazione della sentenza resa in primo grado, sul punto confermata da quella d’appello, viene infatti indicata come “indubbia” l’immediata attitudine edificatoria del fondo in questione, per essere esso situato in zona “già provvisto di tutti i servizi pubblici necessari per il progressivo sviluppo edilizio” e nella quale “era già in atto o comunque imminente lo sviluppo della città”.
Detta censura, insostenibile sotto il profilo dedotto, di violazione di norme di diritto ex art. 36 n. 3 c.p.c., si risolve pertanto in quella di cui al quarto motivo del ricorso, impostato (ex art. 360 n. 5 c.p.c.) sulla omessa e contraddittoria motivazione circa la attitudine alle edificabilità, attribuita al terreno senza considerare la esistenza di uno strumento urbanistico che quell’area destinava a verde.
Senonché deve subito rilevarsi che lo strumento urbanistico cui il ricorrente allude consiste in un programma di fabbricazione e relativo regolamento edilizio adottato dal Consiglio comunale di Trapani con delibera n. 32 del 30.X.1969 e n. 42 del 12 dicembre 1969; oltre cinque anni dopo l’imposizione della servitù e successivamente (soprattutto) alla entrata in vigore della legge n. 180 del 1968, con gli effetti, in tema di criteri di indennizzo, che si sono sopra precisati.
In ordine poi alla utilizzabilità in concreto e sino dal 1964 dell’area asservita quale quota parte di terreno edificabile, non potevano certo i giudici del merito ignorare quanto emerso attraverso gli espletati accertamenti peritali: che cioé, se un primo progetto di lottizzazione privata di quel terreno aveva ottenuto nel 1957 parere favorevole da parte della Commissione edilizia ma non definitiva approvazione, un secondo piano di lottizzazione privata era stato poi approvato dalla Giunta comunale di Trapani con delibera n. 1965 dell’II ottobre 1962. Di qui la legittimità del convincimento che concrete iniziative per lo sfruttamento edilizio del terreno erano state assunte da epoca ben anteriore all’asservimento; che almeno l’ultima di esse era risultata, in sede amministrativa, compatibile con gli strumenti urbanistici allora vigenti; che in definitiva i vincoli imposti dall’autorità militare erano venuti ad incidere sulla già maturata appetibilità di quel suolo, sul mercato immobiliare, non come fondo agricolo ma quale bene dotato di un più elevato valore di scambio perché destinato alla urbanizzazione.
6°-) La Cassazione, in parte qua, della sentenza travolge il capo relativo alla regolamentazione delle spese. Risulta di conseguenza assorbito l’esame del quinto motivo del ricorso, contro quella regolamentazione indirizzato.
Al giudice del rinvio, che si designa in una Sezione diversa dalla Corte di Appello di Palermo, si demanda altresì di provvedere in ordine alle spese attinenti al presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte Suprema di cassazione: accoglie per quanto di ragione il secondo motivo del ricorso; rigetta il primo, il terzo ed il quarto, con assorbimento del quinto, cassa in relazione al motivo accolto e rinvia per nuovo esame sul punto e per le spese ad altra Sezione della Corte di Appello di Palermo.
Così deciso in Roma, il 26 settembre 1985.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 8 MARZO 1986