Svolgimento del processo
Pisapia Concetta, dipendente dell’Industria Tessile Gastaldi & C. S.p.A., venne licenziata dall’azienda con lettera raccomandata 3.4.1981, per avere, in periodo di malattia, prestato ripetutamente attività volontaria presso la Croce Rossa Italiana di Erba.
Propose ricorso al Pretore di Erba, giudice del lavoro, la Pisapia contestando la legittimità del provvedimento in quanto l’attività di volontariato svolta peraltro in maniera saltuaria non era compatibile con il suo stato di salute e chiedendo, conseguentemente, la dichiarazione di nullità del licenziamento e la reintegra nel posto di lavoro.
Il Pretore con sentenza 15.1.1982 rigettava il ricorso della lavoratrice e la condanna al pagamento delle spese del giudizio.
Su impugnazione della Pisapia, l’adito Tribunale di Como, con sentenza in data 10-29 dicembre 1982, in riforma della sentenza del Pretore dichiarava illegittimo il licenziamento e condannava la società Gastaldi a reintegrare la Pisapia nel posto di lavoro, e risarcirle i danni nella misura pari a cinque mensilità della retribuzione ed a rifonderle le spese del doppio grado di giudizio.
Il Tribunale, succintamente, riteneva che non sussistendo l’ipotesi di simulazione della malattia da parte della Pisapia, e non avendo l’imprenditore provveduto ad attivare il procedimento di verifica della malattia, ai sensi dell’art. 5 l. 20.5.1970 n. 300, tale questione era preclusa, mentre poi non sussisteva un divieto assoluto per il lavoratore malato di svolgere altri impegni, tranne che questi implichino la violazione del divieto di concorrenza ovvero l’inosservanza dei doveri di fedeltà imposti al prestatore d’opera.
Tanto premesso il Tribunale rilevava che la Pisapia, durante il periodo di assenza dall’azienda dal 19 gennaio al 29 marzo 1981, e cioé per circa due mesi e mezzo, per infermità alla gola, si era recata presso la sede di Erba della Croce Rossa undici volte svolgendo prevalentemente orario notturno dalle 20 alle 24 ed uscendo con l’ambulanza in sette occasioni; ma osservava, anche sulla base della prova per testi esperita, che non era possibile far derivare da tali saltuarie uscite in ore serali la dimostrazione del disinteresse della lavoratrice per il proprio stato di salute ed anzi di un comportamento che ne costituisse aggravamento, in quanto l’attività di volontariato si svolgeva nei locali chiusi e riscaldati (salvo le rare uscite in ambulanza) e nulla impediva la Pisapia, durante le uscite da casa e le trasferte, utilizzasse ogni sorta di accorgimento per tenere calda la zona malata (gola). Pertanto concludeva ritenendo sproporzionato e infondato il licenziamento inflitto.
Avverso la sentenza, la soc. p.a. Industria Tessile Gastaldi e C. ha proposto ricorso con quattro motivi; la Pisapia ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, deducendosi il vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo ( art. 360 n. 5 c.p.c.), si sostiene l’inadeguatezza dell’argomento svolto dal Tribunale per ritenere esistenti le cautele attuate dalla Pisapia a tutela della sua salute durante le uscite serali anzidette.
Con il secondo motivo, denunciandosi la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 2° co. c. civ. ( art. 360 n. 1 c.p.c.), si afferma la mancata valutazione dell’affermazione del di lei medico curante, escusso come teste, circa il possibile aggravamento, per l’esposizione al freddo ed all’umido, dell’infermità della Pisapia e quindi si afferma la mancanza di ogni prova, da parte di costei, circa la inesistenza o la prevenzione di tale aggravamento con il terzo motivo enunciandosi numerose violazioni di norme di legge ( artt. 115 c.p.c., artt. 1175, 1176, 2104, 2119 cod. civ.) e vizi di motivazione, ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., si lamenta la mancata valutazione della giusta causa di licenziamento sotto il profilo che la Pisapia, svolgendo attività lavorativa presso terzi e non usando alcun accorgimento a tutela della sua salute, nonostante la sua assenza dal lavoro per malattia, aveva violato i doveri di correttezza, lealtà e buona fede che impongono al lavoratore malato di non aggravare le proprie condizioni di salute e quindi di non prendere più lunga e più gravosa per l’imprenditore l’assenza stessa.
Con il quarto motivo, deducendosi la falsa applicazione dell’art. 5 l. 20 maggio 1970 n. 300 e motivazione insufficiente su di un punto decisivo (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.), si sostiene che il Tribunale aveva erroneamente affermato che non fosse possibile più contestare lo stato di malattia della Pisapia, mentre invece la società datrice di lavoro aveva sempre manifestato i propri dubbi sulla malattia della dipendente e sull’attendibilità dei relativi certificati medici, ed inoltre, anche in difetto della richiesta di accertamento di cui all’art. 5 l. 300-1970, era sempre possibile al giudice operare il controllo sulla esattezza e la attendibilità dei certificati medici trasmessi dal lavoratore al datore di lavoro per giustificare le assenze.
Il ricorso è infondato.
In ordine al primo motivo devesi rilevare che le modalità del comportamento della Pisapia, esattamente ricostruite nel senso che le sole unidici uscite serali per recarsi nei locali della Croce Rossa di Erba, erano pur sempre consentite non essendole assolutamente vietato di uscire di casa, importavano logicamente la esatta conclusione dell’adeguato uso delle misure di cautela che, nell’interesse primario della lavoratrice le imponevano la tutela delle proprie condizioni fisiche durante tali occasioni.
Circa il secondo motivo, trattasi di deduzioni del tutto ipotetiche, perché pur in riferimento alla dichiarazione del teste che l’esposizione al freddo ed all’umido potesse aggravare le condizioni di salute della Pisapia, la circostanza invece obbiettiva della giustificazione della durata della sua infermità alla gola, e la situazione di fatto pure accertata delle occasionali e non frequenti sue uscite serali da casa hanno condotto il Tribunale, esattamente, ad escludere la esistenza di un aggravamento che abbia impedito la sollecita e più rapida guarigione della lavoratrice.
Relativamente al terzo motivo, neppure sussiste alcun elemento che possa denotare un comportamento negligente causativo di una trascuratezza nella cura e quindi di un prolungamento dello stato di infermità della Pisapia, perché non esistendo – come è stato accertato – alcun divieto per la stessa di uscire, anche di sera, non poteva per la situazione come sopra accertata e riferita, trarsi la conseguenza che la facoltà di uscire e la oggettiva attuazione delle suddette rare uscite costituissero elementi di comportamento inadempimento dello obbligo di lealtà, correttezza e buona fede verso il datore di lavoro.
Infine, per quanto attiene al quarto motivo basterà osservare che avendo il Tribunale accertato il mancato esperimento, ed iniziativa dell’imprenditore, del tempestivo controllo della natura, entità e durata della malattia della Pisapia, ed anche dell’eventuale aggravamento di essa, non è più consentito al medesimo datore di lavoro dedurre una pretesa simulazione dell’infermità, ovvero un errore di diagnosi od anche una ipotesi di larghezza ed agevolazione da parte del medico nel prescrivere la necessità di assenza dal lavoro della Pisapia.
Il ricorso va perciò respinto, con la conseguente condanna della società soccombente al pagamento delle spese e degli onorari del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese di lire 10.500 oltre lire 500.000 (cinquecentomila) di onorari.
Così deciso in Roma addì 15 aprile 1985.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 17 GENNAIO 1986