Svolgimento del processo

Con ricorso in data 13.10.1980 D’Alessandro Rosalba conveniva in giudizio davanti al Pretore di Pistoia Ferrari Bruno, titolare del maglificio David, corrente in Quanata, esponendo di essere stata alle dipendenze del predetto maglificio fino al giorno 5.9.1980; che in tale giorno le era stata inviata una lettera di licenziamento in tronco per assenza ingiustificata dall’1 all’8 agosto; che, precedentemente, con una lettera del giorno 8.8.1980, le era stato notificato un provvedimento di sospensione cautelare; che il licenziamento, contestato con lettera raccomandata in data 26:9:1980, era da considerarsi illegittimo, sia perché adottato nel periodo iniziale di gravidanza, sia perché la assenza dal lavoro era da connettersi al godimento delle ferie secondo gli accordi intervenuti tra dipendenti ed azienda con il concorso dei rappresentanti sindacali; che altri dipendenti avevano fruito delle ferie a decorrere dall’1.8.1980 ancorché lo stabilimento fosse stato chiuso il successivo giorno 8; che il datore di lavoro non aveva inteso recedere dalla volontà di licenziarla benché le avesse previamente proposto di dimettersi volontariamente con il corrispettivo di una somma di denaro ed altresì nonostante che essa ricorrente avesse provveduto a presentare il certificato medico di gravidanza. Pertanto chiedeva dichiararsi nullo il licenziamento e, conseguentemente, ordinarsi la sua reintegrazione nel posto di lavoro con condanna della controparte a pagarle una somma pari a non meno di cinque mensilità di salario a titolo di risarcimento dei danni.

Costituitosi in giudizio, il Ferrari, quale titolare del maglificio David, eccepiva che la D’Alessandro non poteva invocare l’applicabilità della legge 30.12.1971 n. 1204, giacché non aveva provveduto a presentare tempestivamente una idonea certificazione medica circa il rivendicato suo stato di gravidanza; che, comunque, stante l’assenza arbitraria dal lavoro della lavoratrice nel periodo dal 1° all’8 agosto, il licenziamento doveva ritenersi legittimato da una evidente giusta causa, tanto più che a norma del vigente CCNL era da considerare fatto idoneo a produrre la risoluzione in tronco del rapporto di lavoro una assenza ingiustificata per soli tre giorni.

Con sentenza del 17.2.1981 il Pretore rigettava la domanda proposta dalla D’Alessandro, con compensazione integrale delle spese di lite.

Riteneva il primo giudice che l’abbandono senza preavviso del posto di lavoro da parte della D’Alessandro costituiva aperta violazione di ogni elementare dovere inerente al vincolo della subordinazione ed alla connessa diligenza imposta dalla legge al prestatore di lavoro, sicché doveva essere considerato fatto integrante un inadempimento contrattuale di “estrema gravità”, sia sul piano soggettivo, sia su quello oggettivo, in relazione alla durata dell’assenza ed al significato che assumeva nel contesto della situazione aziendale (scadenza dei termini di consegna della produzione dell’azienda). Riteneva, infine, il Pretore che il comportamento della D’Alessandro era sicuramente tale da superare i limiti imposti dal divieto di licenziamento ex lege 1204-1971, e cioé tale da poter essere ricondotto all’ipotesi in detta legge contemplata all’art. 2, comma 3° lettera a) “di colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro”.

Avverso tale sentenza proponeva appello la D’Alessandro davanti al Tribunale di Pistoia, che confermava la sentenza del Pretore e condannava la appellante al pagamento delle ulteriori spese processuali.

Ritenevano i giudici di appello che non vi era stata immutazione circa il motivo del licenziamento (primo motivo di gravame della D’Alessandro), in quanto si l’art. 62 del CCNL cui faceva riferimento la lettera di licenziamento, sia l’art. 2 della legge n. 1204 del 1971 ponevano a base del licenziamento la giusta causa di cui all’art. 1 legge 15.7.1966 n. 604.

Escludeva, poi, il Tribunale, a seguito delle analisi delle risultanze probatorie, che il Ferrari fosse lui inadempiente per aver mutato l’intendimento originario di chiudere la fabbrica il 1° agosto, in quanto tale intendimento era stato esplicitamente subordinato all’evasione di tutte le commesse pendenti entro il mese di luglio, mediante l’effettuazione di straordinari da parte di tutto il personale, il che poi non era risultato possibile, per cui non poteva ritenersi sorto un impegno contrattuale del datore di lavoro a consentire l’anticipazione desiderata dalla D’Alessandro, pur se la stessa aveva prestato lavoro straordinario volontariamente.

Ritenevano, infine, i giudici di appello che esattamente il Pretore aveva, qualificato di estrema gravità l’abbandono del posto di lavoro da parte della D’Alessandro, poiché l’arbitraria assenza assumeva importanza rilevante sia soggettivamente, in quanto la fissazione del periodo di ferie spetta al datore di lavoro, ed il non rispettarlo raggiunge i limiti dell’insubordinazione, sia oggettivamente data la criticità della situazione aziendale (necessità di evadere le lavorazioni afferenti alle commesse, prima della chiusura estiva della fabbrica).

Evidenziavano, infine, che nella vicenda non poteva avere inciso l’evento della gravidanza della D’Alessandro, giacché al momento dell’abbandono del posto di lavoro la stessa – come rilevavasi dal certificato medico esibito (ultima mestruazione il 17.7.1980) – non poteva che ignorare il suo stato; né aveva mai addotto motivi di ordine patologico al fine di giustificare la necessità di lasciare anticipatamente il lavoro, essendosi invece riferita soltanto alla circostanza di avere ormai preso in locazione una casa al mare a partire dalla data del 1° agosto; né, ricevuta la lettera di sospensione cautelare dell’8.8.80 la D’Alessandro aveva giustificato, nel termine assegnatole di cinque giorni, la propria assenza, esibendo il certificato medico soltanto in data 2.9.1980.

Propone ricorso per cassazione la D’Alessandro con tre motivi. Resiste il Ferrari con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione

Con il primo motivo d’Alessandro Rosalba denunzia la “violazione dell’art. 2 legge 30.12.1971 n. 1204 in relazione alla nozione di colpa grave, costituente giusta causa del licenziamento”.

Lamenta la ricorrente che il Tribunale ha errato nel considerare che ogni infrazione disciplinare, prevista dal contratto collettivo come giusta causa di licenziamento, possa concretizzare quella colpa grave, di fronte alla quale non opera il divieto di licenziamento della lavoratrice madre ai sensi dell’art. 2 della legge 1204-1971.

In particolare, a suo avviso, il Tribunale ha omesso ogni valutazione del comportamento soggettivo di essa ricorrente in relazione al suo stato.

Con il secondo motivo la D’Alessandro denunzia: “Violazione di legge, errata e falsa applicazione delle norme sulla interpretazione dei contratti di cui agli artt. 1362 C.C. e segg. in relazione con gli artt. 61 e 62 del CCNL di categoria. Omessa motivazione su un punto decisivo della controversia”.

Assume la D’Alessandro che la sentenza d’appello, come quella di 1° grado, è viziata per aver errato nella interpretazione delle norme contrattuale nel senso di aver qualificato assenza ingiustificata il comportamento di essa D’Alessandro, la quale intendeva, invece, esercitare il suo diritto alle ferie in epoca (1° agosto) come promesso dal datore di lavoro a condizione che fosse svolto il lavoro straordinario (condizione verificatasi) ed in più per aver omesso di esaminare il punto decisivo della controversia relativo alla insubordinazione.

Con il terzo motivo la D’Alessandro denunzia: “Falsa ed errata applicazione delle norme sulla interpretazione dei contratti di cui agli artt. 1362 e segg. C.C. in relazione agli artt. 61 e 62 del CCNL di categoria”.

Lamenta la ricorrente che l’azienda, mentre nella lettera di licenziamento ha indicato, come giusta causa, un’assenza ingiustificata di oltre tre giorni, costituente infrazione disciplinare prevista dal CCNL come caso di licenziamento, successivamente, nel giudizio, ha addotto argomenti e motivazioni inerenti a un comportamento di essa D’Alessandro costituente colpa grave tale da superare il divieto il licenziamento delle lavoratrici madri ex art. 3 della legge n. 1241-71. Il licenziamento, quindi, secondo la ricorrente sarebbe illegittimo anche per vizio di procedura.

Osserva la Corte che va accolto il primo motivo di ricorso, restando in esso assorbiti gli altri.

Premesso, invero, che lo stato di gravidanza è un fatto obiettivo, nella specie clinicamente e quindi indiscutibilmente accertato (talché è indifferente che del suo stato di gravidanza la D’Alessandro fosse stata o meno a conoscenza, al momento del licenziamento) e premesso altresì, che il licenziamento avvenne durante lo stato di gravidanza, ne consegue che il giudice del merito avrebbe dovuto esaminare esclusivamente alla stregua della legge speciale se la lavoratrice fosse in colpa grave o meno, onde superare il divieto di licenziamento.

Recita, infatti, l’art. 2 legge 30.12.1971 n. 1204 al secondo comma: “Il divieto di licenziamento opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza e puerperio, e la lavoratrice, licenziata nel corso del periodo in cui opera il divieto, ha diritto di ottenere il ripristino del rapporto di lavoro mediante presentazione, entro novanta giorni dal licenziamento, di idonea certificazione dalla quale risulti l’esistenza, all’epoca del licenziamento, delle condizioni che lo vietavano”.

Ed al terzo comma soggiunge: “Il divieto di licenziamento non si applica nel caso: a) di colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro”.

Ciò posto è dato rilevare che, invece, nella sentenza impugnata il licenziamento viene ritenuto giustificato in base ai criteri di cui all’art. 1 e segg. della legge 15.7.1966 n. 604, criteri che si affermano identici a quelli della legge 30 dicembre 1971 n. 1204, il che non è giuridicamente esatto.

Già questa Corte, con sentenza n. 1258 del 1978, ha enunciato il principio che “la nozione di giusta causa, data dalla legge di tutela delle lavoratrici madri, richiede dal punto di vista soggettivo una colpa più qualificata in relazione alle condizioni fisio-psichiche delle donne in stato gravidico e dal punto di vista oggettivo comprende situazioni più complesse”.

In altri termini, in base alla legge 1204 del 1971 la tutela della gravidanza è intesa “obiettivamente” ed il divieto di licenziamento cade soltanto di fronte all’accertamento della colpa grave da parte della lavoratrice, colpa specificamente prevista dal terzo comma lett. a) dell’art. 2 della menzionata legge 30.12.1971 n. 1204.

Trattasi di una colpa, qualificata dal particolare stato in cui si trova la lavoratrice, e comprende, come avanti si è detto, situazioni ben più complesse rispetto ai comuni schemi previsti dal Codice e dalla contrattazione collettiva quale giusta causa del licenziamento.

Il licenziamento della D’Alessandro è stato invece motivato dal giudice di merito esclusivamente per l’assenza ingiustificata dal lavoro dal 1° all’8 agosto 1981. In particolare, il giudice di appello non ha analizzato se la infrazione disciplinare della D’Alessandro, contestatale come assenza ingiustificata al momento della risoluzione del rapporto di lavoro, avesse quelle caratteristiche di gravità, sia sul piano soggettivo che oggettivo, necessarie per superare il divieto di licenziamento della lavoratrice madre dettato dalla legge n. 1204 del 1971.

E’ opportuno, quindi, che altro giudice di merito, che si designa nel Tribunale di Pisa, riesamini la fattispecie, valutando la gravità della colpa della D’Alessandro alla luce della legge speciale di tutela della lavoratrici madri, sanando in tal modo l’erroneo principio di diritto, affermato dal Tribunale di Pistoia, di identificazione della “colpa grave” prevista dalla legge speciale con la colpa grave conseguentemente alla inadempienza contrattuale comune, secondo gli schemi del codice e della contrattazione collettiva, quale giusta causa del licenziamento.

Per le ragioni su esposte il ricorso va, dunque, accolto nel suo primo motivo, assorbiti gli altri, e la causa va rinviata al giudice di appello indicato, il quale provvederà anche sulle spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa e rinvia, anche per le spese, al Tribunale di Pisa.
Così deciso in Roma, il 4 giugno 1985.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 5 MARZO 1986