Svolgimento del processo

Nel corso di una complessa vicenda attuativa delle leggi di riforma fondiaria era disposta con D.P.R. del 4 maggio 1958 l’espropriazione senza indennizzo, i sensi dell’art. 9, 4° co., legge 21 ottobre 1950 n. 841, di circa 204 ettari di terreno di proprietà di Piccirella Arcangela ed Antonietta, i quali ettari, nel quadro di una più ampia proprietà fondiaria assoggettata a scorporo, erano stati vincolati a “terzo residuo”, e sui quali i proprietari Piccirella non avevano eseguito le opere di trasformazione e miglioramento disposte a loro carico ai sensi dei primi due commi del medesimo art. 9.

Il Decreto espropriativo veniva impugnato davanti al Consiglio di Stato, il quale, con ordinanza in data 4 marzo 1969, rimetteva alla Corte Costituzionale la questione della illegittimità costituzionale dell’art. 9, 4° co., della citata legge n. 841 del 1950.

Con decisione del 16 dicembre 1971 n. 200 la Corte Costituzionale dichiarava l’illegittimità costituzionale della norma denunziata limitatamente alle parole “senza alcun indennizzo”.

A seguito di riassunzione del giudizio di Consiglio di Stato, con decisione del 20 ottobre 1972 n. 699, annullava l’impugnato decreto di espropriazione.

Piccirella Alfonso, Teresa e Rachele, quali eredi di Antonietta, convenivano davanti al Tribunale di Bari con atto notificato il giorno 11 dicembre 1972 l’Ente di Sviluppo di Puglia e Lucania (già sezione speciale per la riforma fondiaria in Puglia, Lucania, Molise) per sentirlo condannare o alla restituzione dei terreni costituenti il terzo residuo, occupati il 3 e 4 settembre 1958 inforza del DPR 4 maggio 1958 poi annullato dal Consiglio di Stato, con rivalsa dei frutti dall’occupazione al rilascio, ovvero al pagamento della somma corrispondente al valore dei terreni e somme consequenziali.

L’Ente si costituiva e chiedeva il rigetto delle domande. Nel processo interveniva Piccirella Arcangela, comproprietaria dei terreni costituenti il terzo residuo, facendo proprio le domande formulate dagli attori.

Con sentenza non definitiva del 13 dicembre 1974, depositata il 2 aprile 1975, il Tribunale di Bari condannava l’Ente di Sviluppo a corrispondere il valore dei beni, da determinare in corso di causa, ed i frutti dal giorno dell’occupazione.

Con D.P.R. in data 8 giugno 1975 era nuovamente disposto il trasferimento coattivo della proprietà dei terreni costituenti il terzo residuo in favore dell’Ente di Sviluppo di Puglia, e Lucania, ed era determinata in L. 19.744.535 l’indennità di espropriazione.

Il DPR 8 gennaio 1975 era impugnato dai proprietari davanti al TAR di Puglia, la cui decisione di rigetto veniva sostanzialmente confermata dal Consiglio di Stato con decisione dell’8 gennaio – 4 marzo 1980.

Contro la sentenza non definitiva del Tribunale di Bari sia i proprietari che l’Ente proponevano appello immediato davanti alla corte di appello di Bari.

Quest’ultima, con sentenza 29 dicembre 1982 – 31 gennaio 1983, dichiarava che per l’occupazione e la successiva espropriazione dei terreni costituenti il terzo residuo spetta ai proprietari espropriati soltanto l’indennità determinata con decreto n. 6459-4363 in data 30 ottobre 1979 del Ministero dell’Agricoltura e Foreste, da corrispondersi con i titoli del debito pubblico già emessi e depositati.

La motivazione, per quanto riguarda il presente giudizio di cassazione in relazione ai motivi di annullamento formulati, si articola nei punti seguenti:

a) nel corso del presente giudizio è intervenuto il DPR 8 gennaio 1975 che ha disposto il trasferimento coattivo in proprietà dell’Ente di Sviluppo di Puglia e Lucania dei terreni costituenti il terzo residuo già spettante ai germani Piccirella, con la contestuale determinazione dell’indennità di espropriazione ai sensi dell’art. 18 legge n. 841 del 1950: tale decreto è rimasto definitivamente confermato per effetto del rigetto dei ricorso proposti dai proprietari davanti al TAR della Puglia ed al Consiglio di Stato; in conseguenza di tale provvedimento sopravvenuto la domanda di risarcimento si è automaticamente trasformata in opposizione alla stima dell’indennità, comprensiva della richiesta di risarcimento dei danni derivati sia dall’occupazione sine titulo per il periodo anteriore al valido decreto ablativo (8 gennaio 1975) sia dalla svalutazione monetaria;

b) l’espropriazione di cui trattasi riguarda il settore della riforma fondiaria e non quello della pubblica utilità; conseguentemente si deve escludere che possano trovare applicazione le leggi che hanno variamente disciplinato i criteri di determinazione delle indennità in materia di pubblica utilità, e di realizzazione di opere ed interventi da parte o per conto dello Stato e degli altri enti pubblici; diversamente, l’indennità di espropriazione per i terreni costituenti il terzo residuo di cui è causa deve essere determinata secondo i criteri propri delle leggi sulla riforma fondiaria, criteri che nella specie sono stati correttamente applicati;

c) e precisamente, con il DPR 8 gennaio 1975 il trasferimento coattivo e l’indennità sono stati rispettivamente disposti e liquidati sulla base degli artt. 7-9 legge n. 2 30 del 12.5.1950 (legge Sila) e dell’art. 18 legge n. 841 del 21 otto. 1950 (legge stralcio), salva la determinazione definitiva ai sensi dell’art. 1 legge 15 marzo 1956 n. 156, in concreto effettuata con Decreto del Ministro dell’Agricoltura e Foreste n. 6459-4363 in data 30 ottobre 1979; quest’ultimo decreto liquidava l’indennità definitiva in L. 19.740.000 e gli interessi per ritardato pagamento, dalla presa di possesso dei terreni espropriati (4 sett. 1958) alla data di decorrenza delle cedole annesse ai titoli del debito pubblico (1 luglio 1975), in L. 1.660.000; tali somme esauriscono ogni pretesa degli espropriati:

d) deve altresì ritenersi la legittimità costituzionale dei criteri previsti dalle leggi di riforma fondiaria in tema di indennità conformemente a numerosi giudicati della Corte Costituzionale, dovendosi altresì rilevare che detti criteri costituiscono il risultato della valutazione degli interessi in giuoco anche sotto il profilo della loro rilevanza costituzionale (art. 44 Cost.);

e) l’indennità di espropriazione de qua non è suscettibile di adeguamento monetario, trattandosi di debito di valuta e non ricorrendo il maggior danno risarcibile ai sensi dell’art. 1224 c.c. in assenza di un ritardo colpevole del debitore nell’adempimento: il decreto previdenziale originario (4 maggio 1958) fu annullato non per vizi del procedimento imputabili all’Amministrazione competente ma per illegittimità costituzionale della legge applicata; inoltre l’irrevocabile destinazione dei terreni ad essere espropriati derivava non soltanto dai decreti previdenziali ma direttamente dalla legge delegata di approvazione dei piani particolareggiati.

Avverso la sentenza della corte d’appello di Bari hanno proposto ricorso per cassazione Piccirella Alfonso ed altri sulla base di cinque motivi di annullamento.

L’Ente di sviluppo della Puglia resiste con controricorso. Le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione

Con il primo motivo del ricorso (violazione dell’art. 2043 c.c.) si deduce che la Corte di Bari, nel ritenere che la domanda di risarcimento del danno, provocato dalla illegittima occupazione dei terreni a seguito di provvedimento ablativo poi annullato dal Consiglio di Stato, si fosse automaticamente trasformata in opposizione alla stima dell’indennità di espropriazione (a seguito di nuovo provvedimento ablativo) comprensiva del danno provocato dalla illegittima occupazione sopraprecisata, avrebbe affermato l’erroneo principio secondo cui il risarcimento del danno sarebbe totalmente assorbito dall’indennità di espropriazione; nella specie, dal 1058 (data del primo D.P.R. annullato dal Consiglio di Stato) al 1975 (data del secondo D.P.R., ritenuto legittimo dal Consiglio di Stato) l’occupazione dei terreni costituenti il terzo residuo da parte dell’Ente di riforma era stata illegittima.

Con il secondo motivo (violazione dell’art. 6 legge 15 marzo 1956 n. 156), si deduce, in via subordinata, che comunque la Corte di merito avrebbe dovuto riconoscere a favore degli espropriati gli interessi previsti dal citato art. 6 per il caso di ritardato pagamento dell’indennità, mentre detti interessi sarebbero stati erroneamente liquidati in misura molto inferiore a quella dovuta, non essendosi correttamente computato il periodo corrente dalla data di presa in possesso dei terreni alla data di decorrenza delle cedole annesse ai titoli del prestito pubblico per la riforma fondiaria.

Con il terzo motivo si deduce che erroneamente la sentenza impugnata avrebbe negato che nella specie potesse imputarsi all’Ente di riforma alcun ritardo colpevole in quanto il Decreto espropriativo originario (1958) era stato annullato per illegittimità costituzionale della norma applicata ed in quanto il ritardo conseguente al procedimento pendente non può essere addebitato nell’Ente; al contrario, secondo i ricorrenti, quanto meno dal 1972 (data della decisione di annullamento del decreto espropriativo del 1958) al 1975 (data del nuovo decreto) sarebbe trascorso un periodo di colpevole inattività dell’Ente interessato.

I motivi debbono essere congiuntamente esaminati, in ragione della stretta connessione delle relative censure, e respinti.

Si deve precisare che gli istituti dalla riforma fondiaria e conseguenti espropriazioni (regolati dalle leggi 12 maggio 1950 n. 230 – detta legge Sila -; 21 ottobre 1950 n. 841 – detta legge stralcio -; 15 marzo 1956 n. 156) e delle espropriazioni per pubblica utilità (regolata da una successione di leggi a partire da quella del 25 giugno 1865 n. 2359) sono profondamente diversi tra loro.

Le espropriazioni per la riforma fondiaria sono state gli strumenti operativi sul piano provvedimentale per la riduzione della consistenza delle grandi proprietà terriere secondo la previsione dell’art. 44 Cost., in forza del quale – tra l’altro – la legge può fissare limiti alla estensione della proprietà terriera privata secondo le regioni e le zone agrarie, può trasformare il latifondo e ricostituire le unità produttive al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di attuare equi rapporti sociali: a seguito delle espropriazioni si realizzano congiuntamente la riduzione delle grandi proprietà e la destinazione dei terreni espropriati – previe opere di trasformazione e miglioramento – alla formazione della proprietà contadina.

Le espropriazioni per pubblica utilità presuppongono – invece – la esigenza di realizzare una determinata opera nell’interesse generale e comportano la sottrazione dei beni (necessari al compimento dell’opera) al privato proprietario indipendentemente dalla consistenza ed estensione della sua proprietà complessiva.

In alcune decisioni (nn. 8 e 10 del 1959, n. 60 del 1957) la Corte Costituzionale ha sottolineato l’intrinseca diversità tra gli istituti ora considerati, affermando che la riforma fondiaria ha configurato l’attribuzione di poteri esorbitanti dai limiti della normale attività amministrativa, che si estrinseca nelle espropriazioni per pubblica utilità, e ciò in quanto la materia della riforma fondiaria ha interessato direttamente la struttura sociale ed i suoi rapporti di valenza costituzionale e non soltanto un interesse pubblico determinato.

Correlativamente questa Corte, per quanto concerne i criteri (rifluenti sulla natura del procedimento corrispondente) determinativi dell’indennità per l’esproprio di terreni in sede di riforma fondiaria, ha ritenuto che l’art. 18 legge 21 ottobre 1950 n. 841, nello stabilire che l’indennità suddetta deve corrispondere al valore accertato ai fini dell’imposta straordinaria sul patrimonio di cui al D.L.C.P.S. 29 marzo 1947 n. 143, fissa un criterio autonomo di determinazione, derogativo rispetto a quelli dettati dalla legge 25 giugno 1865 n. 2359 e dalle successive in materia di espropriazione per pubblica utilità; conseguentemente questa Corte ha ritenuto irrilevante per la quantificazione della 1° indennità, ogni indagine sul valore venale dei terreni espropriati (Cass. 1977 n. 172, 1970 n. 4, 1963 n. 1263, 1960 n. 1175).

Ed al riconoscimento della diversità fra i due istituti, la sentenza della Corte di Bari si è correttamente ed espressamente attenuta, ricavandone altrettanto correttamente le necessarie conclusioni sui vari punti in discussione.

Ciò premesso, si deve rilevare che i ricorrenti, pur non avendo impugnato la generale impostazione giuridica della vertenza fondata sopra la netta separazione tra gli istituti sopramenzionati quoad substantiam e quoad effectum, hanno tuttavia elaborato i motivi impugnativi in esame con stretto riferimento alla tematica concettuale ed ai relativi orientamenti giurisprudenziali propri della diversa materia riguardante le espropriazioni per pubblica utilità.

Le considerazioni che seguono, oltre ad evidenziare l’erronea prospettiva concettuale delle censure, serviranno a chiarire alcuni delicati profili sollevati con le medesime.

L’annullamento da parte del Consiglio di Stato del D.P.R. 4 maggio 1958 (ablativo del terzo residuo) per la riconosciuta (dalla Corte Costituzionale) illegittimità della norma applicata non aveva cancellato il potere di procedere all’espropriazione dei medesimi terreni in sede di riforma fondiaria; invero l’illegittimità costituzionale della norma applicata in detto D.P.R. e l’annullamento di quest’ultimo erano strettamente connessi ed erano fondati sulla illegittimità della esclusione di un indennizzo per l’espropriazione del terzo residuo.

E ciò era stato espressamente riconosciuto dal Consiglio di Stato in sede di rigetto dell’impugnazione del successivo D.P.R. del 1975.

Il rinnovato esercizio del potere suddetto, caratterizzato dalla contestuale determinazione dell’indennizzo sulla base dei precisi criteri dettati in materia di riforma fondiaria dalle leggi del 1950, non aveva determinato l’insorgere di una fattispecie qualitativamente nuova rispetto al procedimento ablativo previsto dalle leggi suddette, ma si era inserito in un rapporto (pur sempre disciplinato dalle norme sulla riforma fondiaria) nel quale il periodo di occupazione del 1958 al 1975 pur non trovando il supporto di un valido provvedimento legittimante l’occupazione dei terreni, restava sempre qualificato dalla presenza operativa della riforma fondiaria.

Al riguardo si deve precisare che la fattispecie espropriativa in sede di riforma fondiaria nasceva non con il decreto ablativo, ma, riallacciandosi strettamente e funzionalmente alla esistenza di presupposti e condizioni dettati dalle leggi di riforma con riferimento al 15 novembre 1949 (art. 2 legge n. 230 del 1950; art. 4 legge n. 841 del 1950), con l’inizio del particolare procedimento previsto.

Dopo la compilazione dei piani particolareggiati di espropriazione a cura degli enti di riforma, il governo doveva procedere, sulla base della delegazione prevista dall’art. 5 legge n. 230 del 1950 (richiamato dall’art. 1 legge n. 841 del 1950), all’approvazione dei piani stessi, all’occupazione di urgenza dei terreni soggetti ad espropriazione, all’emanazione dei provvedimenti ablativi.

Ma sin dall’approvazione dei piani particolareggiati di espropriazione veniva ad esistenza un vincolo giuridico che destinava la proprietà terriera soggetta a riforma all’espropriazione prevista.

Ciò si ricava espressamente dall’art. 27 legge n.230 del 1950 e dall’art. 20 legge n. 841 del 1950: secondo quest’ultima norma – in particolare – sono inefficaci di diritto nei confronti degli enti di riforma tutti gli atti gratuiti posteriori al 1 genn. 1948 (ad eccezione delle donazioni in contemplazione di matrimonio e di quelle a favore di enti morali di beneficienza, assistenza ed istruzione), gli atti di vendita ed ai conferimenti a società posteriori al 1 genn. 1948, gli atti a titolo oneroso stipulati dopo il 15 nov. 1949.

Sulla base di tali premesse l’occupazione di terreni soggetti alla riforma fondiaria ed espropriati sulla base di provvedimento annullato (poi seguito da provvedimento valido), deve essere considerato in stretta correlazione con la particolare natura del procedimento di riforma e con la presenza di un sostanziale vincolo in funzione dell’espropriazione.

Ed il diritto del privato espropriato ad ottenere un ristoro per l’occupazione senza titolo formale nel periodo corrente tra i due provvedimenti deve essere valutato, ed il relativo ristoro deve essere liquidato, sulla base degli interessi legali sulla somma da corrispondersi a titolo di indennità espropriativa, secondo quanto previsto dall’art. 6 legge 15 marzo 1956 n. 156 in tema di interessi per il ritardato pagamento delle indennità dovute per effetto delle leggi di riforma agraria: interessi decorrenti espressamente dalla data della presa in possesso dei terreni espropriati alla data di decorrenza delle cedole annesse ai titoli del Prestito per la riforma fondiaria, dati in pagamento delle indennità di espropriazione.

Precisamente alla disciplina delle ipotesi in cui le indennità risultino liquidate a distanza di anni dalla prova di possesso dei beni (come risulta dalla Relazione Zoli al Senato) è preordinata la norma sopra richiamata.

E nella presente fattispecie ha trovato applicazione proprio il citato art. 6 relativamente al periodo di occupazione dei terreni senza titolo formale.

Appare altresì chiaro, vertendosi in tema di riforma fondiaria, che il ristoro per il ritardato pagamento dell’indennità non può essere rapportato al valore venale dei terreni, che è estraneo ai criteri determinativi dell’indennità corrispondente e che comporterebbe un conflitto radicale tra criteri di liquidazione dell’indennità e quelli applicati al ristoro del ritardato pagamento della medesima, ma deve aver riguardo al valore rappresentativo del bene come risultante dalla applicazione dei criteri propri delle leggi in virtù delle quali l’espropriazione è stata pronunziata (nella specie di riforma fondiaria), valore che è stato determinato direttamente dal Ministero dell’Agricoltura mediante moltiplicazione dei redditi dominicali esposti nei decreti di espropriazione per i coefficienti già stabiliti dalla Commissione Censuaria Centrale ai fini dell’applicazione dell’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio, di cui al testo unico 9 maggio 1950 n. 203 (art. 1 citata legge n.156 del 1956).

Ciò vale altresì ad escludere che l’indennità dovuta per la riforma fondiaria sia possibile di rivalutazione monetaria poiché il ritardo nel pagamento della indennità trova la sua specifica disciplina nel citato art. 6 legge n. 156 del 1956 e nella corresponsione degli interessi legali sull’indennità per il periodo del ritardo.

Al riguardo, e sotto una generale prospettiva in tema di effetti della svalutazione monetaria, valide sono anche le ragioni esposte nella sentenza impugnata secondo cui l’indennità di espropriazione è debito di valuta soggetto al principio nominalistico e l’eventuale maggior danno (risarcibile ai sensi dell’art. 1224 – 2° co. – c.c.) non è configurabile in difetto di colpa nel comportamento dell’Ente di riforma, e ciò anche avendo riguardo al periodo corrente tra la decisione di annullamento del decreto espropriativo del 1958 (anno 1972) e la data del nuovo decreto (anno 1975), dovendosi considerare che la competente amministrazione aveva dovuto procedere al riesame della fattispecie ed alla acquisizione degli elementi di giudizio necessari alla determinazione dell’indennità relativa.

Per quanto concerne il profilo concernente errori di calcolo compiuti nella determinazione della somma (interessi legali) dovuta per il ritardato pagamento dell’indennità (L. 1.660.000 in luogo di L. 16.782.254), si deve rilevare che la corrispondente liquidazione era stata effettuata dal Ministro dell’Agricoltura e Foreste con decreto n. 6459-4363 in data 30 ottobre 1979: con detto decreto l’indennità per l’esproprio era stata determinata definitivamente in L. 19.740.000, e gli interessi legali per il ritardato pagamento dell’indennità (dal 4 sett. 1958, data della presa di possesso dei terreni in esercizio del DPR 4 maggio 1958, poi annullato, al 1 luglio 1975, data della prima scadenza delle cedole dei Titoli versati a seguito del DPR 8 gennaio 1975) in L. 1.660.000.

Pertanto, il denunziato errore materiale nel computo degli interessi non riguarda la sentenza impugnata (che sul punto si è limitata ad affermare il corretto riferimento all’6 legge n. 156 del 1956 per la liquidazione di interessi per il periodo anteriore al DPR 8 gennaio 1975) ma il Decreto del Ministro dell’Agricoltura e Foreste, ed in quanto tale non può essere dedotto davanti al giudizio ordinario come motivo di impugnazione di detta sentenza.

Peraltro, si deve aggiungere in astratto che censure riguardanti pretesi errori di calcolo compiuti dal giudice di appello non sono deducibili in sede di legittimità (Cass. 1984 n. 1205 ed altre decisioni nel medesimo senso).

Da ultimo si deve osservare, avendo riguardo all’intrinseca diversità tra l’istituto della riforma fondiaria e quello dell’espropriazione per pubblica utilità, che nessuna influenza sulla presente decisione può avere il richiamo (effettuato dai ricorrenti) a precedenti giurisprudenziali di questa Corte in materia di occupazione illegittima connessa con procedimenti di espropriazione per pubblica utilità e di liquidazione del danno con riferimento al valore venale del bene.

Con il quarto e quinto motivo (violazione dell’art. 1 legge 15 marzo 1956 n. 156 per illegittimità costituzionale della medesima in relazione agli artt. 3, 42, 44 Cost.) i ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata avrebbe dichiarata manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale della norma suddetta in tema di quo indennizzo; detta sentenza non avrebbe valutato la reale portata della decisione della Corte Costituzionale n. 5 del 1980 relativamente al necessario riferimento – in sede di determinazione dell’indennità – al valore reale del bene espropriato, in dipendenza delle sue caratteristiche essenziali; e non avrebbe considerato come necessaria la rivalutazione monetaria dell’indennità pur avendo la decisione n. 91 del 1963 della Corte Costituzionale affermata la rilevanza (ai fini di un equo indennizzo) del sopravvenire di elementi perturbatori dell’entità monetaria della indennità nel periodo corrente dall’inizio alla conclusione del procedimento ablativo.

Le censure sono prive di fondamento, in quanto, come esattamente affermato nella sentenza impugnata, non può porsi in ragionevole dubbio la legittimità costituzionale dei criteri previsti dalle leggi sulla riforma fondiaria per la determinazione dell’indennità di espropriazione, in quanto quest’ultima sebbene inferiore al valore venale dei beni espropriati non può considerarsi simbolica ed in quanto i criteri stabiliti costituiscono il risultato di una ponderata valutazione degli interessi confluenti nell’istituto della riforma fondiaria anche sotto il profilo della loro rilevanza costituzionale; detta valutazione è stata effettuata dal legislatore al fine di stabilire il massimo ristoro possibile delle situazioni giuridiche soggettive sacrificate in relazione alle superiori finalità sociali di una riforma di struttura, quale quella fondiaria.

In particolare l’art. 1 legge 15 marzo 1956 in materia di criteri determinativi dell’indennità de qua corrisponde nella sostanza agli artt. 7 legge n. 230 del 1950 e 18 legge n. 841 del 1950.

Le questioni sollevate in tema di illegittimità costituzionale di detti criteri in relazione agli artt. 3, 42, 44 Cost. sono state ripetutamente esaminate dalla Corte Costituzionale e disattese (Corte Cost. 1958 n. 33, 1957 nn. 61, 64, 65, 68, 71). Né sono configurabili altri profili che legittimino una nuova rimessione della questione suddetta all’esame della Corte Costituzionale. Inoltre si deve precisare che le decisioni n. 91 del 1963 e n. 5 del 1980 della Corte Costituzionale, richiamate dai ricorrenti a fondamento della tesi favorevole ad una nuova riflessione sulla legittimità costituzionale dei criteri determinativi dell’indennità dovuta in materia di riforma fondiaria, non sono utilmente valutabili a detto scopo in ragione delle profonde differenze istituzionali tra la riforma fondiaria e le espropriazioni per pubblica utilità (già delineate nel corso della presente motivazione).

In particolare, la decisione della Corte Costituzionale n. 91 del 1963, nel precisare il concetto di serio ristoro (comunque correlato alla natura degli interessi contrapposti) per i sacrifici della proprietà privata, ha avuto in esame una ipotesi di espropriazione per pubblica utilità connessa con l’avvenuta esecuzione e relativa sistemazione di opera di protezione antiaerea già costruito dallo Stato od a mezzo di enti locali (legge 1 dicembre 1961 n. 1441): peraltro il concetto ivi delineato non è stato disatteso dalle norme in materia di riforma fondiaria.

Sempre in materia di espropriazioni per pubblica utilità la decisione n. 5 del 1980, nel ribadire la nozione di serio ristoro quale base determinativa dell’indennità, ha affermato che il criterio del valore agricolo medio adottato in generale dall’art. 16 legge n. 865 del 1971, come modificato dall’art. 14 legge n. 10 del 1977, non facendo specifico riferimento al bene da espropriare ed al valore di esso secondo la sua destinazione economica, introduce un elemento di valutazione del tutto astratto, che, per i terreni destinati ad insediamenti edilizi che non hanno alcuna relazione con le culture pratiche nella zona, comporta la liquidazione di indennità sperequata in difetto rispetto al valore dell’area da espropriare, con palese violazione del diritto ad un adeguato ristoro che l’art. 42 Cost. vuole assicurare all’espropriato.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato: sussistono giusti motivi, connessi con la natura delle questioni trattate nella presente controversia, per la compensazione integrale delle spese giudiziali della presente fase.

P.Q.M.

la Corte di Cassazione rigetta il ricorso proposto da Piccirella Alfonso ed altri nei confronti dell’Ente regionale di sviluppo agricolo per la Puglia (ERSAP); compensa integralmente le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, il 1 ottobre 1985.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 1 MARZO 1986