Svolgimento del processo

Il 13 novembre 1980, in esecuzione di un ordine di cattura emesso da Dardani Attilio, Nunziata Claudio, Persico Luigi e Rossi Riccardo, sostituti procuratori della Repubblica presso il tribunale di Bologna, Cambi Costantino, avvocato, era arrestato in Milano per il delitto di favoreggiamento personale (“per avere incitato il prof. Paolo Signorelli nei suoi propositi criminosi contro il magistrato dott. Amato”).

In data 6 febbraio 1981 (dopo che il Cambi era stato posto, il 4 febbraio, in libertà provvisoria) Vella Angelo, consigliere istruttore presso lo stesso tribunale di Bologna, disponeva la sospensione provvisoria del Cambi dall’esercizio della professione. Con ordinanza sentenza 4 maggio 1983 – infine – il Cambi era prosciolto dall’imputazione ascrittagli “perché il fatto non sussiste”.

Premesso quanto sopra con atto 21-24 gennaio 1987 Cambi Costantino conveniva in giudizio, innanzi al tribunale di Bologna, il Ministero di grazia e giustizia, nonché i magistrati Dardani Attilio, Nunziata Claudio, Persico Luigi, Rossi Riccardo e Vella Angelo, per sentirli condannare, in via tra loro solidale, a norma dell’art. 2043 c.c., al risarcimento dei danni subiti per effetto dell’ingiusta detenzione cautelare nonché per la ingiusta applicazione provvisoria della pena accessoria della sospensione dall’esercizio dell’attività forense.

Tutti i convenuti si costituivano in giudizio: l’Avvocatura dello Stato, nell’interesse del Ministero di grazia e giustizia, eccepiva l’incompetenza per territorio del giudice adito, essendo competenti i tribunali di Milano e di Roma, nonché l’inammissibilità, l’improponibilità e infondatezza della domanda avversaria. La stessa Avvocatura, costituitasi (con separate comparse) sia per i convenuti Dardani e Rossi sia per i convenuti Nunziata e Vella eccepiva, altresì, sia l’incompetenza per territorio del tribunale di Bologna, essendo competente quello di Milano, sia l’assenza della designazione del giudice ai sensi dell’art. 56 c.p.c., comma 2, sia l’improponibilità della domanda (ex art. 56 c.p.c., comma 1) nonché la sua infondatezza nel merito. Non diverse conclusioni rassegnava altresì il convenuto Persico che rilevava, altresì, la inesistenza dell’atto introduttivo del giudizio, perché non sottoscritto da procuratore esercente nel distretto della Corte di Appello di Bologna. Nelle more di tale giudizio, con atto 7-8 maggio 1987, sottoscritto anche da un procuratore esercente nel distretto della Corte di Appello di Bologna, il Cambi instaurava altro procedimento, nei confronti degli stessi convenuti, riproponendo le domande tutte di cui alla citazione 21-24 gennaio.

Disposta – in sede di decisione – la riunione delle due cause (dopo che nel corso dell’istruzione il difensore dell’attore aveva dichiarato, da un lato, di accettare l’eccezione di incompetenza territoriale sollevata dall’Avvocatura erariale e, dall’altro, di potere estromettere dal giudizio il convenuto Persico, previa rinuncia di ogni domanda nei suoi confronti), il tribunale con sentenza 14 marzo-20 marzo 1989, rigettata l’eccezione di nullità inesistenza dell’atto di citazione del gennaio 1987, dichiarava improponibile la domanda attrice, per mancanza dell’autorizzazione del Ministero di grazia e giustizia, di cui all’art. 56 c.p.c., comma 1 (richiamato dall’art. 74 c.p.c. ed applicabile ratione temporis, essendo stati instaurati i giudizi prima della entrata in vigore della legge 13 aprile 1988, n. 117), nonché il difetto di legittimazione passiva del Ministero di grazia e giustizia (atteso che nel dedotto comportamento illegittimo dei magistrati non era ravvisabile un fatto illecito), con condanna dell’attore al pagamento delle spese di lite.

Gravata tale pronuncia dal soccombente Cambi la Corte di Appello di Bologna, con sentenza 25 febbraio-21 aprile 1994, rigettava l’appello, ponendo a carico del Cambi le spese di lite del grado.

Ritenuta l’inapplicabilità – nella specie – dell’art. 38 c.p.c., comma 2 (vertendosi in tema di competenza territoriale inderogabile, a norma dell’art. 25 c.p.c.), per cui esattamente i primi giudici avevano affermato la propria competenza territoriale, atteso che in caso di illecito questa si radica nel luogo in cui è stata tenuta la condotta asseritamente illecita (nella specie: Bologna) e precisato, ancora, che l’esame delle questioni concernenti la esistenza del presupposti processuali richiesti dall’art. 56 c.p.c. aveva carattere del tutto pregiudiziale, rispetto alle altre eccezioni, i giudici di Appello hanno osservato, ancora, che in mancanza della autorizzazione prevista dall’art. 56 c.p.c. citato il giudice adito non può che limitarsi a prenderne atto (facendo difetto il presupposto processuale previsto dalla norma positiva per la proponibilità della domanda giudiziale), senza potersi porre il problema della competenza per territorio (non sussistendo alcun giudice competente a esaminare la domanda).

Rilevato, ancora, che gli artt. 55, 56 e 74 c.p.c. erano stati abrogati – per effetto di referendum popolare – unicamente a far tempo dal 7 aprile 1988 e, pertanto, erano ancora applicabili all’epoca dell’instaurazione della domanda giudiziale, i giudici di Appello hanno affermato essere irrilevante – al fine di decidere – che i convenuti Dardani, Nunziata, Persico e Rossi avessero svolto le loro funzioni in un procedimento penale e non in uno civile.

Quanto al dichiarato difetto di legittimazione passiva del Ministero convenuto la Corte di Appello osservava che il tribunale, in realtà, aveva ritenuto l’infondatezza della domanda di responsabilità ex art. 2043 c.c., per la cui sussistenza non era sufficiente l’emanazione di un provvedimento viziato da errores in iudicando o in procedendo e revocabile, ma occorreva la responsabilità civile di chi lo aveva emanato e cioè, ai sensi dell’art. 55 c.p.c., il dolo, elemento psicologico neppure prospettato e che non poteva ritenersi esistente per essere stato l’appellante prosciolto, in sede penale, con formula ampia.

Quanto alle spese i giudici di appello, infine, escludevano che il tribunale fosse incorso nella violazione dell’art. 5, comma 4, tariffa professionale, atteso che le posizioni delle parti dalla Avvocatura dello Stato non erano identiche, ma attenevano a tre diversi rapporti processuali, instauratisi in tempi diversi, in correlazione alla ottenuta autorizzazione ai sensi dell’art. 44 del testo unico approvato con R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611.

Per la Cassazione della riassunta pronuncia ha proposto ricorso Cambi Costantino, affidato a 7 motivi. Resistono, con controricorso, sia l’Avvocatura dello Stato, per il Ministero di grazia e giustizia nonché per i magistrati Dardani Attilio, Nunziata Claudio, Rossi Riccardo e Vella Angelo, sia Persico Luigi.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, violazione e falsa applicazione dell’art. 5 c.p.c.; degli artt. 18-29 c.p.c. e, segnatamente, dell’art. 25 c.p.c.; dell’art. 100 c.p.c.; degli artt. 55, 56 e 74 c.p.c.; degli artt. 11 e 14 delle preleggi“.

Il mezzo si articola, a sua volta, in quattro censure:

1.2. Con la prima, delle indicate censure, il ricorrente osserva che a norma dell’art. 25 c.p.c. per le cause nelle quali è parte lo Stato, sussiste la competenza del giudice del luogo ove ha sede l’Ufficio della Avvocatura dello Stato nel cui distretto si trova il giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie: atteso che nella specie l’Avvocatura erariale aveva – ritualmente – eccepito l’incompetenza per territorio del Tribunale di Bologna, essendo competente il tribunale di Roma, e l’attore aveva aderito a tale eccezione, erroneamente i giudici del merito hanno invocato l’inderogabilità della competenza, senza tenere presente che anche in Roma ha sede un ufficio della Avvocatura dello Stato.

1.3. La censura non coglie nel segno.

Nella specie i giudici del merito hanno ritenuto priva di effetti l’adesione dell’attore all’eccezione di incompetenza – sollevata dalla difesa dei convenuti – in applicazione non di una erronea lettura dell’art. 25 c.p.c. (di cui il ricorrente denuncia la violazione), ma dell’art. 38 c.p.c., comma 2.

Giusta tale ultima disposizione “l’incompetenza per territorio, fuori dei casi previsti nell’art. 28 c.p.c., può essere eccepita soltanto nella comparsa di risposta o, in genere, nel primo atto difensivo del giudizio di primo grado. L’eccezione si ha per non proposta se non contiene l’indicazione del giudice che la parte ritiene competente.

Quando le parti aderiscono a tale indicazione, la competenza del giudice indicato romane ferma se la causa è riassunta entro tre mesi dalla cancellazione dal ruolo”.

Pacifico quanto precede e non controverso che nella presente causa era stata convenuta in giudizio una Amministrazione dello Stato (Ministero di grazia e giustizia), con conseguente applicabilità dell’art. 25 c.p.c., è palese che si era in presenza di una causa per la quale l’inderogabilità della competenza per territorio era disposta espressamente dalla legge (cfr., da ultimo, Cass. 25 maggio 1995 n. 5732; Cass. 14 maggio 1994 n. 4734, nonché Cass. 20 gennaio 1982 n. 355; Cass. 12 marzo 1973 n. 690), cioè in uno dei casi previsti dall’art. 28 c.p.c., con conseguente applicabilità del principio invocato dal ricorrente, sopra riportato.

In altri termini in tanto il giudice è tenuto ad ordinare la cancellazione della causa dal ruolo, per essere competente un diverso giudice, indicato dalla parte convenuta, avendo l’attore aderito a tale indicazione, in quanto la controversia non sia una di quelle indicate dall’art. 28 Cost. per le quali la competenza per territorio è inderogabile; non controverso, come osservato sopra che nella specie la competenza per territorio era inderogabile è evidente che correttamente è stato ritenuto improduttivo di effetti l’accordo sulla competenza intervenuto tra i procuratori delle parti (senza che rilevi, al riguardo, l’esistenza, o meno, in Roma, di un Ufficio della Avvocatura dello Stato).

1.4. Sempre con il primo motivo il ricorrente evidenzia – sotto altro profilo – da un lato, che la competenza territoriale, in relazione alle obbligazioni da fatto illecito, si determina in relazione al luogo ove il fatto ha prodotto i suoi effetti dannosi e nel caso concreto tali effetti (restrizione della libertà professionale, sospensione della professione), avevano spiegato i loro effetti in Roma, luogo nel quale l’avv. Cambi aveva la propria residenza e svolgeva la sua professione ed ove era stato eseguito il provvedimento restrittivo della libertà (quindi erroneamente i giudici di merito, non hanno preso atto dell’adesione dell’attore all’eccezione sollevata dalla difesa erariale, dichiarando la propria incompetenza), dall’altro, che prima di pronunciarsi sulla improponibilità della domanda attrice ai sensi dell’art. 56 c.p.c., i giudici del merito non potevano non esaminare, con precedenza, l’eccezione di incompetenza, formulata dai convenuti.

1.5. Anche tale censura è infondata in ogni sua parte. In tema di risarcimento di danno extracontrattuale, a norma dell’art. 20 c.p.c. territorialmente competente a decidere la causa è – alternativamente – il giudice del luogo in cui è commesso l’illecito, il luogo in cui si realizza l’evento dannoso, nonché il luogo in cui il danneggiante ha la propria residenza, trattandosi di debito di valore, il cui adempimento va effettuato al domicilio che il debitore aveva al tempo della scadenza (Cfr., ad esempio, tra le tantissime, Cass. 16 maggio 1995 n. 5374, Cass., 7 aprile 1995 n. 4057; Cass. 29 marzo 1995 n. 3733; Cass. 22 maggio 1992 n. 6148).

Non controverso che nel caso di specie la condotta illecita che il ricorrente imputa ai controricorrenti – anche se ha prodotto i propri effetti in Roma – è stata certamente posta in essere in Bologna, luogo nel quale vennero adottati sia il provvedimento restrittivo della libertà personale del Cambi sia quello che ha disposto la sospensione di questi dall’esercizio della professione, è evidente che correttamente l’attore aveva instaurato il giudizio innanzi al tribunale di Bologna, dovendosi escludere, in contrasto con gli assunti di parte ricorrente, che in tema di obbligazione da fatto illecito sussista in via esclusiva la competenza del giudice del luogo in cui il fatto illecito ha prodotto i suoi effetti dannosi.

Contemporaneamente, al riguardo, non può non confermarsi, ulteriormente, che in tema di responsabilità civile del giudice, nel vigore degli artt. 55 e 56 c.p.c., la mancanza dell’autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia, di cui al comma 1 di detto art. 56 c.p.c., implica carenza di un presupposto processuale (non difetto di giurisdizione) ed impone la declaratoria d’improponibilità della domanda risarcitoria, con conseguenziale assorbimento della questione di competenza, secondo la previsione del comma 2 del medesimo art. 56 c.p.c., che assume rilievo solo in presenza di quella autorizzazione (Cass., Sez. U., 27 dicembre 1990 n. 12170).

Tale principio – come già in altra occasione osservato – manifestamente non pone la suddetta norma in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., trattandosi di limitazione all’azione risarcitoria giustificata da esigenze pubblicistiche in ordine all’indipendenza ed alla serenità di giudizio del giudice, né con l’art. 28 Cost., il quale nel fissare la regola della diretta responsabilità dei pubblici dipendenti, consente al legislatore ordinario di diversificare la disciplina della responsabilità stessa per categorie o situazioni distinte.

1.6. Sotto un ultimo profilo – infine – sempre con il primo motivo, il ricorrente si duole che pur avendo “rinunciato” alla domanda proposta nei confronti del convenuto Persico i giudici del merito non abbiano pronunciato – limitatamente alla pretesa fatta valere nei confronti del Persico – la cessazione della materia del contendere.

1.7. Si osserva, infatti, “se l’avv. Costantino Cambi, dopo avere proposto una domanda, sia pure improponibile, rinuncia ad essa, non vi è ragione di negargli la pronuncia di cessazione della materia del contendere…”.

1.8. Al pari dei precedenti il rilievo è infondato. Come assolutamente pacifico presso la più che consolidata giurisprudenza di questa Corte regolatrice, la dichiarazione della cessazione della materia del contendere è una vera e propria pronuncia dichiarativa, che pone fine al processo a seguito dell’accertamento del giudice di merito del venire meno della pretesa di diritto sostanziale in esso fatta valere (cfr., ad esempio, Cass., Sez. U., 7 marzo 1996 n. 1791).

Deriva, da quanto precede, pertanto,

– che una tale situazione può essere emessa solo dal giudice che sarebbe stato competente a conoscere della domanda (Cass. 14 ottobre 1991 n. 10775; Cass. 23 ottobre 1974 n. 3072);

– che la detta cessazione della materia del contendere non può essere pronunciata allorché sia accertata la nullità assoluta dell’atto introduttivo del giudizio e la sua conseguente inidoneità alla valida instaurazione del rapporto giuridico processuale, essendo in tal caso preclusa al giudice la cognizione di ogni altra questione di rito e di merito su cui intervenire con una valida pronuncia giurisdizionale (Cass. 24 luglio 1987 n. 6446, ove il rilievo, pertanto, che la decisione sulla questione dell’ammissibilità dell’appello precede, sul piano logico e procedurale, quella relativa a tale pronuncia da parte del giudice adito con l’atto d’impugnazione, giacché il giudice prima di ogni altra indagine deve compiere quella diretta ad accertare la valida introduzione del giudizio, in difetto della quale non ha il potere-dovere di decidere la causa. Non diversamente, la dichiarazione della cessazione della materia del contendere non può essere pronunciata allorché sia accertata la nullità assoluta dell’atto introduttivo del giudizio e la sua conseguente inidoneità alla valida instaurazione del rapporto giuridico processuale, Cass. 26 luglio 1985 n. 4357. Da ultimo, nel senso che la rinuncia (nella specie, al ricorso per cassazione) presuppone la sua ammissibilità, Cass. Sez. U., 8 marzo 1996 n. 1832).

Pacifico quanto precede, è evidente che correttamente i giudici del merito, avendo ritenuto l’improponibilità della domanda, hanno escluso che potesse dichiararsi – nei rapporti con il convenuto Persico – la cessazione della materia del contendere, per intervenuta rinuncia della domanda da parte dell’attore (presupponendo una tale statuizione, in primis, sia la competenza del giudice adito, sia l’ammissibilità (e quindi la proponibilità) in tesi della pretesa fatta valere, nella specie certamente assenti, come si verificherà in sede di esame degli altri motivi).

2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione; violazione e falsa applicazione dell’art. 5 c.p.c.; degli artt. 11 e 14 delle preleggi; degli artt. 55, 56 e 74 c.p.c.; dell’art. 19 della L. 13 aprile 1988 n. 117“.

Si osserva, infatti, che i primi giudici hanno ritenuto l’improponibilità della domanda attrice – affermando la perdurante vigenza degli artt. 55, 56 e 74 c.p.c. – con sentenza deliberata il 14 marzo 1989, totalmente prescindendo dal considerare:

– che tali norme – alla detta data – erano state abrogate per effetto del referendum indetto con D.P.R. 4 settembre 1987, con D.P.R. 9 dicembre 1987 n. 497, con effetto decorsi 120 giorni dal 9 dicembre 1987 (data di pubblicazione del decreto abrogativo sulla Gazzetta Ufficiale);

– che trattandosi di norme processuali, l’abrogazione retroagiva, impedendo ogni pronuncia di improponibilità della domanda ed ogni effetto conseguenziale (non essendo ancora intervenuta la sentenza n. 468 del 1990 della Corte Costituzionale);

– che “se in forza di … questa ultima sentenza … sono retroattive le norme di cui alla legge n. 117 del 1988, questo non vuol dire che al momento della deliberazione della sentenza di primo grado fossero ultrattivi gli artt. 55, 56 e 74 c.p.c.“: in realtà la domanda “ammissibile nel momento in cui il tribunale di Bologna ebbe a decidere su di essa” è “diventata inammissibile per l’intervento della sentenza n. 468 del 1990 della Corte Costituzionale quando su tale domanda ha pronunciato la Corte di Appello di Bologna. Nel frattempo, peraltro, erano state legittimamente proposte tutte le domande sostanziali e processuali, incluse quelle di trasferimento della competenza territoriale e di cessazione della materia del contendere nei confronti” del convenuto Persico.

3. L’assunto è infondato, sotto ogni profilo.

3.1. In primis malamente il ricorrente invoca, a sostegno dei propri assunti, o come esplicante effetti sul presente giudizio, la sentenza 22 ottobre 1990 n. 468 della Corte Costituzionale.

Quest’ultima, infatti, per quanto rilevante a questo punto dell’esposizione, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, comma 2, della L. 13 aprile 1988 n. 117, nella parte in cui, quanto ai giudizi di responsabilità dei magistrati relativamente a fatti anteriori al 16 aprile 1988, e proposti successivamente al 7 aprile 1988, non prevede che il tribunale competente verifichi con rito camerale la non manifesta infondatezza della domanda, ai fini della sua ammissibilità.

Certo che il presente giudizio è stato proposto anteriormente al 7 aprile 1988 (in particolare con citazione 21 e 24 gennaio 1987) è evidente che nessuna efficacia, sulla presente controversia, può spiegare la pronuncia sopra ricordata della Corte Costituzionale.

3.2. In secondo luogo non può tacersi che mentre le sentenze di accoglimento della Corte Costituzionale hanno efficacia retroattiva, nel senso che operano con riguardo a tutti i rapporti processuali non ancora esauriti (anche atteso che diversamente opinando, ne deriverebbe l’impossibilità di dare attuazione alla pronuncia di accoglimento proprio nel procedimento che ha dato occasione al sollevamento della questione di legittimità poi ritenuta fondata) (Cass., Sez. VI, 20 giugno 1994, Bruzzaniti; Cons. Stato, Sez. VI, 18 maggio 1994, n. 788; Cass., Sez. U., 15 novembre 1994 n. 9597), analogo principio non può ripetersi con riguardo alle norme abrogate a seguito di referendum.

Al riguardo l’art. 37 della L. 25 maggio 1970 n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), testualmente dispone che qualora il risultato del referendum sia favorevole alla abrogazione di una legge, o di un atto avente forza di legge, o di singole disposizioni di essi, il Presidente della Repubblica, con proprio decreto dichiara l’avvenuta abrogazione della legge o dell’atto avente forza di legge, o delle disposizioni suddette: l’abrogazione ha effetto a decorrere dal giorno successivo a quello della pubblicazione del decreto nella Gazzetta Ufficiale: il Presidente della Repubblica, nel decreto stesso, su proposta del ministro interessato, previa deliberazione del consiglio dei ministri; può ritardare l’entrata in vigore dell’abrogazione per un termine non superiore … È evidente, pertanto, come accennato sopra, che l’art. 56 c.p.c. ha cessato di spiegare i propri effetti – come del resto assolutamente pacifico in dottrina come in giurisprudenza – unicamente a far data dall’8 aprile 1988, giusta quanto disposto dal D.P.R. 9 dicembre 1987 n. 497.

3.3. Irrilevante, per ritenere che i giudici del merito, avendo reso la loro pronuncia in epoca successiva alla detta data non potevano fare applicazione della citata disposizione, perché abrogata, atteso, da un lato, che le condizioni di proponibilità della domanda devono essere valutate con riguardo alla legge vigente al momento in cui è introdotto il giudizio, dell’atto, che trattandosi di disposizioni processuali la loro abrogazione retroagiva così “impedendo ogni pronuncia di improponibilità della domanda”.

3.4.1. In termini opposti – infatti – rispetto alla premesse da cui muove la censura in esame deve confermarsi – ulteriormente – in conformità ad una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice, che le condizioni di proponibilità della domanda devono sussistere sia nel momento in cui questa è proposta sia successivamente, nel momento della pronuncia del giudice.

Pacifico che nella specie alla data della introduzione della domanda attrice (gennaio 1987) questa era improponibile, atteso che – in violazione della previsione di cui all’art. 56, comma 1, c.p.c. (a quella data certamente in vigore) – la stessa era stata proposta senza la previa autorizzazione del Ministero di grazia e giustizia, è evidente che correttamente i giudici del merito la hanno dichiarata improponibile, anche se all’epoca della loro pronuncia la normativa vigente era diversa (anche considerato che tale norma sopravvenuta – la L. 13 aprile 1988 n. 117 – sia nella sua formulazione originaria (cfr. art. 19, comma 2) sia a seguito dell’intervento della Corte Costituzionale ricordato sopra (C. Cost. 22 ottobre 1990 n. 468) era ed è inapplicabile ai giudizi proposti anteriormente al 7 aprile 1988).

3.4.2. Contemporaneamente – quando alla natura processuale delle norme che ora interessano (artt. 55, 56 e 74 c.p.c.) abrogate a seguito a referendum popolare – deve confermarsi che in materia vige un principio opposto, rispetto a quello invocato dal ricorrente.

In particolare gli atti del processo sono soggetti alla osservanza delle norme, processuali, vigenti al momento in cui gli stessi sono posti in essere (tempus regit actum).

Ne segue – pertanto – che salva diversa disciplina transitoria, nella specie assente, la validità di un atto va verificata solo alla luce della normativa vigente al momento in cui l’atto stesso è venuto ad esistenza, senza che rilevi la successiva abrogazione di tale normativa (o la sua sostituzione con altra, sopravvenuta).

3.4.3. Quanto sopra osservato, del resto, deve evidenziarsi, è stato in molteplici occasioni affermato proprio con riferimento all’azione di risarcimento proposta dal privato nei confronti di un magistrato per fatti illeciti posti in essere, nell’esercizio delle funzioni, in epoca anteriore all’effetto abrogativo del referendum sugli artt. 55, 56 e 74 c.p.c.

È ricorrente – infatti – in giurisprudenza, al riguardo, l’affermazione che l’azione in parola resta disciplinata dalla normativa abrogata, stante l’irretroattività delle norme processuali e sostanziali della legge n. 117 del 1988 (Cass., Sez. U., 27 dicembre 1990 n. 12170, nonché Cass. 8 agosto 1990 n. 502. Sempre nella stessa ottica, cfr., altresì, T.A.R. Lazio, Sez. I, 14 marzo 1990 n. 288).

4. Con il terzo motivo il ricorrente pur denunciando, nell’intitolazione “omessa insufficiente e contraddittoria motivazione; violazione e falsa applicazione dell’art. 14 delle preleggi; degli artt. 55, 56, 74 c.p.c.; dell’art. 19 della L. 13 aprile 1988, n. 117“, censura – in realtà – sotto il profilo di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c., la sentenza gravata nella parte in cui questa ha ritenuto in via di applicazione analogica – senza tenere presente che trattavasi di norma eccezionale – l’art. 74 c.p.c. oltre che al pubblico ministero che partecipa al giudizio civile (a norma degli artt. 69 c.p.c. e ss.) anche all’attività propriamente penale, svolta dal pubblico ministero.

5. Al pari dei precedenti il motivo è infondato. Contrariamente a quanto assume il ricorrente – infatti – deve affermarsi (in conformità, del resto, ad una interpretazione più che consolidata dal testo positivo, cfr., ad esempio, Cass., Sez. U., 6 novembre 1975 n. 3719) che anteriormente al referendum abrogativo indetto con D.P.R. 4 settembre 1987 l’applicabilità, ai magistrati del pubblico ministero, nell’esercizio delle loro attribuzioni penali, dell’art. 55, comma 1, c.p.c. derivava non tanto da una applicazione analogica (e, pertanto, non consentita dall’art. 14 preleggi) dell’art. 74 c.p.c. (secondo cui “le norme sulla responsabilità del giudice e sull’esercizio dell’azione relativa si applicano anche ai magistrati che intervengono nel processo civile, quando, nell’esercizio delle loro funzioni sono imputabili di dolo, frode o concussione”), quanto dalla stessa formulazione dell’art. 55 c.p.c.

Questa ultima disposizione, infatti, con l’espressione “il giudice è civilmente responsabile …”, fa chiaramente, ed inequivocabilmente, riferimento, non ai soli magistrati investiti di funzioni giudicanti, ma a tutti gli appartenenti all'”ordine giudiziario”, come definito e descritto dall’art. 4 del R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, sull’ordinamento giudiziario (e come, con maggior rigore linguistico, ora precisato dall’art. 1 della L. 13 aprile 1988, n. 117).

Pacifico, ancora, – come avvertito dalla Corte Costituzionale già con la propria pronuncia 14 marzo 1968 n. 2 – che l’espressione “funzionari e dipendeti dello Stato”, contenuta nell’art. 28 Cost. si riferisce anche ai magistrati e che il principio generale stabilito dallo stesso art. 28 Cost., della responsabilità diretta dei pubblici dipendenti, compresi i magistrati, non esclude – stante il rinvio alle leggi ordinarie – che tale responsabilità sia disciplinata variamente per categorie e situazioni, è palese che la normativa ora abrogata faceva riferimento, all’art. 55 c.p.c., anche ai magistrati del pubblico ministero.

Diversamente, argomentando, del resto, e ritenendo – come assume il ricorrente – che la normativa di cui agli ora abrogati 55, 56 e 74 c.p.c. era inapplicabile agli illeciti posti in essere da magistrati del pubblico ministero nell’esercizio delle attribuzioni penali, si giungerebbe ad una interpretazione del testo positivo in contrasto con la norma costituzionale (“i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”, art. 107 Cost., comma 3) e, pertanto, per i noti principi in tema di applicazione delle norme positive, principi che escludono che il giudice, a fronte di due possibili letture di un testo di legge, possa privilegiare una interpretazione che ponga la norma stessa in contrasto con i principi costituzionali, inaccettabile.

Deve, al riguardo, infatti, ulteriormente, ribadirsi che se una norma di legge sia suscettibile di più interpretazioni, di cui una darebbe alla norma un significato costituzionalmente illegittimo, il dubbio è soltanto apparente e deve essere superato e risolto interpretando la norma in senso conforme alla Costituzione e alla legge costituzionale (Recentemente, in tal senso, Cass. 5 maggio 1995 n. 4906).

6. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione; violazione e falsa applicazione degli artt. 11 e 14 delle preleggi; degli artt. 55, 56 e 74 c.p.c.; dell’art. 19 della L. 13 aprile 1988, n. 117“.

Premesso che la Corte di Appello di Bologna ha affermato che “la responsabilità dello Stato e, per esso, del Ministero di grazia e giustizia non ricorre, quando sia dedotta a titolo la responsabilità di magistrati nell’esercizio delle loro funzioni, se non nelle ipotesi previste dall’art. 55 c.p.c.“, il ricorrente osserva: “é incredibile a dirsi: la Corte di Appello delibera il 21 aprile 1994 e decide il 9 giugno 1994 come se ancora fosse in vigore una disposizione del codice di procedura civile da anni abrogata dal referendum! E’ evidente la violazione dell’art. 11 preleggi, dopo la sua abrogazione, con l’applicazione di una legge oltre i tempi in essa considerati”.

7. La censura è destituita di fondamento.

Come ampiamente osservato sopra – in sede di analisi del secondo motivo – gli articoli ricordati (55, 56 e 74 c.p.c.) sono stati abrogati a seguito di referendum con effetto unicamente dall’8 aprile 1988 e sono tuttora applicabili con riguardo a fatti avvenuti anteriormente, ed a giudizi promossi, in primo grado, in epoca anteriore alla detta data dell’8 aprile 1988 (V., nel senso che l’azione di risarcimento proposta dal privato nei confronti di un magistrato, e della P.A., per fatti illeciti posti in essere, nell’esercizio delle funzioni, in epoca anteriore all’effetto abrogativo del referendum sugli art. 55, 56 e 74 c.p.c. resta disciplinata dalla normativa abrogata, stante l’irretroattività delle norme processuali e sostanziali della legge n. 117 del 1988, Cass., Sez. U., 27 dicembre 1990 n. 12170, nonché Cass. 8 agosto 1990 n. 502, già ricordate sopra).

8. Con il quinto motivo il ricorrente lamenta, ancora “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione; violazione e falsa applicazione dell’art. 5.4 della tariffa forense approvata con D.M. 31 ottobre 1985 e delle successive”.

Assume, in particolare, il ricorrente, che erroneamente i giudici di appello hanno confermato la sentenza di primo grado, nella parte in cui la stessa ha liquidato all’Avvocatura dello Stato una intera notula per ognuna delle parti rappresentate, affermando che legittimamente il tribunale si era discostato dall’art. 5.4 della tariffa forense secondo la quale “nei casi di assistenza e difesa di più parti aventi la stessa posizione processuale, la parcella unica potrà essere aumentata, per ogni parte e sino ad un massimo di 6 del 20%”.

9. La censura non può trovare accoglimento.

Come accennato in parte espositiva la Corte di Appello di Bologna ha ritenuto l’inapplicabilità nella specie – quanto alle spese liquidate a carico del soccombente per il giudizio di primo grado – dell’art. 5, comma 4, della tariffa forense approvata con D.M. 31 ottobre 1985, rilevando che la posizione delle parti difese dalla Avvocatura non era identica e che la liquidazione delle spese – pertanto – correttamente era stata effettuata in relazione ai tre rapporti processuali instauratisi tra l’attore e le predette parti costituitesi in tempi diversi, in ragione dei tempi nei quali era intervenuta la autorizzazione di cui all’art. 44, R.D. 30 ottobre 1933 n. 1611.

Non controverso quanto precede è palese l’infondatezza della denuncia in questione atteso che con la stessa il ricorrente, travalicando quelli che sono i limiti del giudizio di legittimità, sollecitata, da parte di questa Corte, una pronuncia di merito (una sorta di giudizio di terzo grado) estranea all’attuale quadro normativo.

In particolare deve ribadirsi – al riguardo – che in tema di determinazione del compenso spettante al difensore che abbia assistito una pluralità di parti, costituisce questione di merito, la cui risoluzione è incensurabile in sede di legittimità, lo stabilire se l’opera defensionale sia stata unica, nel senso di trattazione di identiche questioni in un medesimo disegno difensionale a vantaggio di più parti, o se la stessa abbia, invece, comportato la trattazione di questioni differenti, in relazione alla tutela di non identiche posizioni giuridiche (Cass. 14 dicembre 1981 n. 6607).

10. Con il sesto motivo il ricorrente lamentando “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione; violazione e falsa applicazione degli artt. 11 e 14 delle preleggi e dell’art. 112 c.p.c.” censura la sentenza impugnata nella parte in cui questa ha condannato esso concludente al pagamento delle spese del giudizio in favore dell’appellato Persico, senza tenere presente che quest’ultimo nella comparsa di risposta nulla aveva chiesto, al riguardo, invocando la condanna dell’appellante al pagamento delle spese solo in comparsa conclusionale e, pertanto, inammissibilmente.

11. L’assunto – che prescinde totalmente da quanto assolutamente, in tema, presso la più che consolidata giurisprudenza di questa Corte regolatrice, nonché dall’insegnamento della dottrina più autorevole – deve disattendersi.

Il regolamento delle spese processuali è consequenziale, ed accessorio, rispetto alla definizione del giudizio.

La condanna (al pagamento delle spese di lite), per l’effetto, legittimamente può essere emessa, a carico della parte soccombente, anche di ufficio, con il provvedimento che chiude il processo davanti al giudice adito, in mancanza di una esplicita richiesta della parte vittoriosa (Cass. 13 giugno 1994 n. 5720, nonché Cass. 14 dicembre 1985 n. 6333 e Cass. 23 gennaio 1975 n. 267, tra le tantissime).

Perché, in particolare, nel silenzio della parte risulta vittoriosa, il giudice possa omettere di provvedere sull’onere delle spese di causa è indispensabile che detta parte abbia reso, in causa, una esplicita dichiarazione di volontà, da cui risulti la rinuncia a conseguire il ristoro delle spese stesse (Cass. 18 novembre 1988 n. 6242).

Atteso che nella specie l’appellato Persico non ha mai dichiarato – nel corso del giudizio di secondo grado – di rinunciare al rimborso delle spese di lite (ed, anzi, ha tenuto una condotta processuale incompatibile con tale rinunzia, allorché in sede di comparsa conclusionale ha, espressamente, insistito per la condanna di controparte al pagamento delle spese stesse) è evidente che correttamente i giudici di Appello hanno posto a carico dell’appellante anche le spese di parte Persico.

12. Con il settimo – ed ultimo – motivo il ricorrente lamenta “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione; violazione e falsa applicazione degli artt. 11 e 14 delle preleggi; dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 91 c.p.c.“.

Osserva, in particolare, il ricorrente che la condanna dello stesso, al pagamento delle spese di lite, quanto al giudizio di merito, è stata pronunciata con sentenza nella quale è mancato ogni riferimento ai “giusti motivi” che, per espressa richiesta del procuratore dell’appellante, avrebbero dovuto essere presi in considerazione ai fini di una compensazione delle spese, giusti motivi che puntualmente sono indicati da pagg. 22 a pag. 25 del ricorso, atteso che giusta la giurisprudenza di questa Corte quando il giudice di merito motiva sulla sua pronuncia relativa alle spese la Corte di Cassazione è investita del potere – dovere di esaminare detta motivazione ed annullarla, se illogica od erronea, per cui la omessa motivazione sulla pronuncia di condanna non può essere indifferente al giudice di legittimità, specialmente quando la parte abbia nel giudizio di merito sollecitato una pronuncia sulle spese.

“La indifferenza del giudice di legittimità – conclude sul punto il ricorrente – viene in tal caso a coprire una omessa motivazione che rivela l’esercizio arbitrario del potere di pronuncia sulle spese del giudizio da parte del giudice di merito”.

13. L’assunto è totalmente infondato.

Sia in linea di fatto, che di diritto.

13.1. Non risponde – in primis – a verità l’assunto secondo cui farebbe difetto, nella sentenza gravata, qualsiasi motivazione, quanto alle spese del giudizio.

I giudici del merito, infatti, hanno puntualmente motivato la propria situazione sul punto, facendo esplicitamente riferimento alla soccombenza del Cambi (“l’appellante per effetto della soccombenza deve essere condannato al pagamento delle spese del grado…”).

13.2. In secondo, luogo, anche a prescindere da quanto precede, esattamente i giudici del merito – in corretta applicazione del disposto di cui agli artt. 91 e 92 c.p.c. – non hanno preso in esame le molteplici argomentazioni svolte dall’appellante, al fine di dimostrare l’esistenza, nella specie, di giusti motivi che avrebbero autorizzato una compensazione totale o parziale delle spese di lite, tra le parti.

Premesso che le valutazioni del giudice del merito sull’attribuzione dell’onere delle spese si sottraggono, per la loro ampia discrezionalità, al sindacato della S.C., si osserva che a questa compete esclusivamente di verificare in concreto il rispetto del principio fondamentale della soccombenza, posto dall’art. 91 c.p.c., cioè del divieto di porre, sia pure in quota, le spese a carico della parte totalmente totalmente vittoriosa (Cass. 13 settembre 1991 n. 9578; Cass. 11 giugno 1992 n. 7220; Cass. 9 luglio 1993 n. 7535).

Deriva, da quanto precede, che la situazione con la quale il giudice di primo grado condanna alle spese la parte soccombente in applicazione dell’art. 91 c.p.c., comma 1, non è censurabile ove egli non abbia ravvisato i “giusti motivi” per applicare il disposto del successivo art. 92 c.p.c. (Cons. Stato, Sez. V, 3 agosto 1993 n. 835; Cons. Stato, Sez. V, 10 settembre 1993 n. 877; Cons. Stato, Sez. V, 13 dicembre 1993 n. 1284; Cons. Stato, Sez. V, 22 dicembre 1993 n. 1391).

Rientrando nei poteri discrezionali del giudice del merito, la valutazione dell’opportunità della compensazione, totale o parziale, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di sussistenza di altri giusti motivi (salva, peraltro, la censurabilità della relativa motivazione ove a giustificazione della disposta compensazione siano addotte ragioni illogiche od erronee, Cass. 9 luglio 1993 n. 7535), è irrilevante che la parte – poi risulta soccombente – abbia, inutilmente, sollecitato il giudice del merito, perché lo stesso disponesse la compensazione delle spese stesse.

In altri termini la statuizione sulle spese adottata dal giudice del merito è sindacabile, in sede di legittimità, alternativamente o perché è stato violato l’art. 91 c.p.c. (che fa divieto di porre, anche parzialmente, le spese a carico della parte risultata vittoriosa) o, perché, è stata disposta la compensazione, tra le parti, delle spese stesse ed al riguardo è stata addotta, dal giudice, una motivazione illogica ed erronea (Cass. 4 agosto 1994 n. 7235; Cass. 4 gennaio 1995 n. 79; Cass. 14 marzo 1995 n. 1949, nonché Cass. 7 luglio 1992 n. 8242).

In tutti gli altri casi e, in particolare, ove il giudice abbia posto le spese a carico del soccombente, o abbia ritenuto di avvalersi, del potere di disporre la compensazione delle stesse, anche in assenza di qualsiasi motivazione, la statuizione è insindacabile, in sede di legittimità (atteso che ove i motivi del provvedimento – diversi dalla reciproca soccombenza – siano dal giudice del merito taciuti, opera una presunzione legale di conformità a diritto, con conseguente esclusione dell’ammissibilità del controllo suddetto, Cass. 6 settembre 1994, n. 7663 e tenuto presente, altresì che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 92, comma 2, c.p.c., interpretato nel senso che il giudice non ha il dovere di motivare il provvedimento di compensazione per la ritenuta sussistenza di giustificati motivi, poiché il principio sancito dall’art. 111 Cost. secondo il quale ogni provvedimento giurisdizionale deve essere motivato, non è applicabile a quello citato, per la considerazione che l’affermazione dell’esistenza di ragioni che giustificano la compensazione va posta in relazione e deve essere integrata con la motivazione della sentenza e con tutte le vicende processuali, stante l’inscindibile connessione tra lo svolgimento della causa e la pronuncia sulle spese, Cass. 27 novembre 1992 n. 12657).

Deriva – altresì – da quanto premesso, come anticipato, che non esiste alcun obbligo di motivazione, a carico del giudice del merito, allorché lo stesso ritenga di non avvalersi della facoltà – discrezionale – attribuitagli dall’art. 92, comma 2, c.p.c., di disporre la compensazione delle spese, ancorché vi sia stata, ad opera della parte rimasta soccombente, una sollecitazione in tale senso.

14. Risultato infondato in ogni sua parte il proposto ricorso deve rigettarsi, con condanna, per l’effetto, del ricorrente al pagamento delle spese anche di questo grado del giudizio, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese liquidate le stesse, in favore di Persico Luigi in L. 4.104.600 di cui L. 4.000.000 per onorari, e in favore degli altri controricorrenti in L. 5.023.600 di cui L. 5.000.000 per onorari, oltre spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della III sezione civile della Corte di cassazione il giorno 25 giugno 1996.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 10 GIUGNO 1997.