Svolgimento del processo

Con ricorso al pretore di Napoli, Franco Ciancaglini, dipendente del Banco di Napoli esponeva che:

– era stato sospeso dal servizio in via cautelare con delibera 24 settembre 1979, con riferimento a fatti per i quali era stato sottoposto a procedimento penale, nel corso del quale era stato sottoposto a carcerazione preventiva per giorni venti;

– che era stato assolto dalle imputazioni ascrittegli con sentenza 8 ottobre 1984, divenuta irrevocabile;

– che con delibera 28 ottobre 1985, a conclusione di un procedimento disciplinare, il Banco di Napoli gli aveva inflitto la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio e dal trattamento economico nella misura massima consentita di giorni dieci;

– che con la stessa delibera gli erano stati riconosciuti l’anzianità perduta e del diritto agli emolumenti maturati nel periodo di sospensione cautelare dal servizio;

– che, in esecuzione della stessa delibera, il Banco aveva provveduto al pagamento di tutti gli emolumenti arretrati, previa detrazione di quanto corrisposto a titolo di assegno alimentare durante il periodo di sospensione cautelare;

– che, tuttavia, il Banco non aveva provveduto ad erogare la retribuzione maturata nel periodo di carcerazione preventiva, né la rivalutazione e gli interessi sulle retribuzioni corrispostegli dopo la riammissione in servizio;

tanto premesso, il Ciancaglini chiedeva la condanna del Banco al pagamento della rivalutazione e degli interessi sulle somme già percepite e delle retribuzioni maturate durante la custodia cautelare sofferta.

Il Banco di Napoli, costituendosi in giudizio, contestava le pretese del Ciancaglini, chiedendone il rigetto.

Il pretore dapprima, con sentenza parziale del 18 dicembre 1981, affermava il diritto del Ciancaglini a percepire interessi e rivalutazione sulle retribuzioni spettantigli dal 27 ottobre 1979 al 31 dicembre 1985 e dalla maturazione dei singoli ratei fino al 14 gennaio 1986 (data del pagamento del capitale), respingendo le altre domande.

Quindi, con sentenza definitiva dl 28 settembre 1982, determinava le somme dovute al ricorrente per interessi e rivalutazione.

Con sentenza 6 luglio-29 settembre 1994, il Tribunale – in parziale riforma delle sentenze del pretore – accoglieva tutte le domande proposte dal Ciancaglini con il ricorso introduttivo, condannando quindi il Banco a corrispondere anche le retribuzioni maturate nel periodo di carcerazione preventiva, nonché interessi e rivalutazione maturati dal 14 gennaio 1986 fino al saldo.

Il Tribunale ha accertato il diritto del Ciancaglini a percepire la retribuzione per il periodo di custodia cautelare sulla base di una interpretazione letterale dell’art. 81 del Regolamento del personale, all’epoca vigente, secondo la quale la cessazione della sospensione cautelare comporta in ogni caso il diritto del dipendente a percepire “tutti gli emolumenti ai quali avrebbe diritto”. Secondo i giudici di appello, pertanto, il fatto che la carcerazione costituisca un impedimento allo svolgimento della prestazione lavorativa non impedisce che – nel definire gli effetti della cessazione della sospensione cautelare – l’Istituto abbia inteso riservare anche all’ipotesi di sospensione del rapporto per carcerazione (rivelatasi poi ingiusta) l’identico trattamento economico riservato all’ipotesi della sospensione per una imputazione penale (senza carcerazione) rivelatasi poi infondata.

Quanto ad interessi e rivalutazione sugli emolumenti arretrati, il Tribunale sottolineava che la sospensione prevista dall’art. 81 del Regolamento ha natura cautelare, e non può avere carattere sanzionatorio, con la conseguenza che – in caso di esito positivo per il lavoratore – questi ha diritto ad essere sollevato da tutte le conseguenze dannose derivanti dalla sospensione, e quindi a ricevere anche interessi e rivalutazione sugli emolumenti arretrati dalle singole scadenze al saldo.

Avverso tale decisione ricorre per Cassazione il Banco con due distinti motivi.

Resiste il Ciancaglini con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 del codice civile, in relazione agli artt. 81 e 82 del Regolamento del Personale, nonché vizio di motivazione su di un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Il ricorrente rileva che la decisione adottata dal Tribunale si baserebbe su di un argomento letterale del tutto inconsistente. Inoltre, il Tribunale avrebbe interpretato il Regolamento del Personale, all’epoca vigente, in violazione dei principi di interpretazione dei contratti fissati dal legislatore (facendo riferimento sia ad altre norme dello stesso Regolamento che a quelle di un Regolamento entrato in vigore solo successivamente) così incorrendo nel denunciato vizio di violazione di legge e di motivazione.

Il motivo è fondato.

Questa Corte ha sempre affermato il principio, secondo il quale la sospensione dal servizio del lavoratore, ancorché disposta in via cautelare per accertare eventuali irregolarità a lui imputabili, non priva il lavoratore dei diritti che gli derivano dal perdurare del rapporto, mentre tale principio può subire deroga in conseguenza di accordi individuali o per regolamentazione collettiva, nel senso di far operare gli effetti rescissori “ex tunc”, ossia dalla data in cui la sospensione fu disposta, sempreché sia successivamente accertata la sussistenza della giusta causa di risoluzione del rapporto (Cass., 14 dicembre 1968, n. 3968; Sez. Un., 17 febbraio 1981, n. 940; 26 marzo 1982, n. 1885; 19 maggio 1986, n. 3319; 10 dicembre 1986, n. 7350; 28 maggio 1992, n. 6400).

Questa Corte è tornata in argomento, sostanzialmente negli stessi termini, con sentenza n. 4421 del 26 luglio 1984, osservando che anche nel rapporto di lavoro privato la sospensione dal lavoro del dipendente, perché sottoposto a procedimento penale, configura una misura cautelare e provvisoria, destinata ad essere assorbita dal provvedimento definitivo conseguente all’esaurimento ed all’esito di tale procedimento; con la conseguenza che, qualora detta sospensione, in quanto normativamente e negozialmente prevista, determini anche quella della controprestazione retributiva, il sopravvenuto proscioglimento dell’imputato implica che il rapporto riprenda il suo corso, a tutti gli effetti, fin dal momento in cui è stato sospeso, con l’ulteriore conseguenza che il datore di lavoro, sul quale ricadono i rischi della disposta misura cautelare, è tenuto a corrispondere tutte le retribuzioni arretrate: v. Cass., 22 aprile 1986, n. 2848 (Sez. Un.).

Tali principi sono stati confermati dalle Sezioni Unite di questa Corte, le quali hanno ribadito che la sospensione del dipendente perché sottoposto a procedimento penale o disciplinare, non integra una sanzione, ma configura una misura cautelare e provvisoria, destinata ad essere travolta dall’esaurimento del procedimento: “la sospensione cautelare del dipendente sottoposto a procedimento disciplinare o penale, mentre, se non prevista dalla legge o dal contratto, può essere dal datore di lavoro applicata nell’esercizio del suo potere direttivo, ma solo nel senso che esso può rinunciare ad avvalersi delle prestazioni del lavoratore, ferma, peraltro – stante la unilateralità di tal rinuncia – la sua obbligazione di corrispondere la retribuzione (perdurane, fino a che non intervenga una legittima causa di risoluzione, il rapporto di lavoro nella sua integrità), laddove invece sia normativamente e negozialmente prevista, e nei termini specifici in cui lo sia, può legittimare, oltre alla sospensione della prestazione lavorativa, anche quella della controprestazione retributiva”: Cass., n. 1885 del 1982 cit.

Il Tribunale nella sentenza impugnata ha riportato correttamente tali principi di diritto, ma ha dato delle clausole contrattuali applicabili al caso di specie una interpretazione illogica che contrasta con le regole legali di ermeneutica contrattuale.

La disposizione del Regolamento del personale del Banco, applicabile al caso di specie, prevede al penultimo comma dell’art. 81 (Modi e forme della sospensione cautelare e della revoca di essa):

“La cessazione della sospensione, quando non sia adottata la sanzione della revoca, importa il riacquisto dell’anzianità perduta ed il pagamento al dipendente sospeso di tutti gli emolumenti ai quali avrebbe avuto diritto, con detrazione di quanto gli sia stato corrisposto, per assegno alimentare, a norma dell’art. 83”.

Il Tribunale, dopo aver osservato che la decisione del pretore conteneva sul punto un contrasto tra motivazione e dispositivo, ha tratto argomenti “a contrario” dal fatto che l’art. 81 non contenesse alcuna espressa esclusione del diritto al trattamento economico per i periodi di detenzione (a differenza di quanto previsto, ad esempio, dalla norma contenuta nell’art. 80 del Regolamento del personale entrato in vigore dopo i fatti di causa).

L’interpretazione seguita dal Tribunale appare del tutto illogica, poiché in essa non si spiega per quale motivo il lavoratore sottoposto a custodia cautelare in carcere dovrebbe ricevere la retribuzione se sospeso (a differenza di quanto previsto per il lavoratore non sottoposto a misure restrittive della libertà personale). Anche il confronto della norma contenuta nell’art. 81 con quella dell’articolo successivo dello stesso Regolamento (vigente all’epoca dei fatti) che prevede la privazione del trattamento economico nel caso di condanna del dipendente – con sentenza irrevocabile – a pena restrittiva della libertà personale non appare da solo sufficiente per sorreggere la tesi interpretativa seguita dal Tribunale, che si basa – in buona sostanza – unicamente sulla formulazione letterale dell’articolo in contestazione “la cessazione della sospensione … importa il riacquisto dell’anzianità perduta ed il pagamento al dipendente sospeso di tutti gli emolumenti ai quali avrebbe avuto diritto …”.

La retroattività della revoca della sospensione introduce certamente una “fictio iuris” che non può spingersi fino ad eliminare il fatto storico della sottoposizione alla misura della carcerazione, con conseguente assoluta impossibilità di rendere la prestazione lavorativa, circostanza questa che supera e si sovrappone alla sospensione cautelare, costituendo una autonoma causa di esclusione del diritto alla retribuzione per il periodo di detenzione; certamente, la contrattazione collettiva, anche per tale caso, può prevedere il diritto del lavoratore alla retribuzione, pur nell’assoluta impossibilità di un rapporto sinallagmatico tra diritti e doveri del lavoratore.

La sentenza impugnata non spiega in alcun modo le ragioni per le quali si giunge ad attribuire al lavoratore sospeso e sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere un diritto maggiore di quello – in ipotesi – spettante al lavoratore in attività di lavoro sottoposto alla identica misura restrittiva della libertà personale, finendo per attribuire alle parole “emolumenti ai quali avrebbe avuto diritto” una interpretazione non solo illogica, ma anche contraria a quella che sembra essere l’interpretazione letterale della clausola (il cui esame è tuttavia riservato in via esclusiva al giudice di merito).

La decisione del Tribunale non tiene conto, tra l’altro dei principi, desumibili dalla sentenza n. 10087 del 16 ottobre 1990 di questa Corte, secondo i quali non può operare, al di fuori delle cause legali di sospensione con diritto alla retribuzione, il principio della priorità della causa di sospensione (per il quale si deve considerare prevalente, ai fini dell’attribuzione di un determinato trattamento retributivo spettante al lavoratore, la causa di sospensione per prima verificatasi).

La sentenza impugnata deve pertanto essere cassata sul punto, in accoglimento del primo motivo di ricorso. Il giudice di rinvio dovrà procedere a nuovo esame, distinguendo nettamente le due ipotesi della sospensione cautelare e della impossibilità di prestare attività lavorativa per sottoposizione a misura cautelare e considerare innanzitutto il tenore letterale della disposizione contrattuale, prima di ricorrere ad eventuali criteri sussidiari, previsti dalla legge.

Va ricordato che per l’interpretazione dei contratti collettivi, ai quali va equiparato il Regolamento per il personale del Banco di Napoli (Cass., 3 maggio 1991, n. 4816, v. anche Cass., Sez. Un., 30 marzo 1994, n. 3134) il tenore letterale delle clausole è il criterio ermeneutico prioritario (art. 1362 del codice civile), con la conseguenza che da un lato è precluso il ricorso a criteri sussidiari in difetto della motivata dimostrazione circa l’insufficienza del dato testuale ad evidenziare univocamente la volontà contrattuale e dall’altro il giudice del merito è dispensato da qualsiasi motivazione circa ipotetici significati ulteriori delle parole usate dai contraenti, ove non siano forniti, quantomeno, argomentati indizi dell’intenzione delle parti di attribuire alle parole stesse un significato diverso da quello che lo stesso giudice ricavi dal loro tenore letterale (Cass., n. 3134 del 1994 cit.).

È appena il caso di sottolineare l’inapplicabilità al caso di specie di una legge, peraltro successiva ai fatti di causa, e comunque non applicabile al caso di specie (in cui non vi è stato licenziamento ma solo sospensione cautelare), la quale – con disposizione di carattere generale che prescinde quindi da qualsiasi previsione contrattuale – prevede ora la reintegrazione nel posto di lavoro perduto per ingiusta detenzione.

L’art. 102-bis del D.Lgs. 271 del 28 luglio 1989, come modificato dall’art. 24 della legge 8 agosto 1995, n. 332 stabilisce infatti: “1. Chiunque sia stato sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere ai sensi dell’art. 285 del codice, ovvero a quella degli arresti domiciliari ai sensi dell’art. 284 c.p.c. e sia stato per ciò stesso licenziato dal posto di lavoro che occupava prima dell’applicazione della misura, ha diritto di essere reintegrato nel posto di lavoro medesimo, qualora venga pronunciata in suo favore sentenza di assoluzione, di proscioglimento o di non luogo a procedere ovvero venga disposto provvedimento di archiviazione”.

Il caso di specie deve pertanto essere risolto solo alla luce della disposizione del Regolamento del personale del Banco, più volte richiamata.

Con il secondo motivo, il Banco denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 429 comma terzo del codice di procedura civile, dell’artt. 1362 c.c. e segg., in relazione all’art. 81 del Regolamento per il Personale e per insufficiente ed illogica motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Secondo l’Istituto ricorrente, dopo alcune premesse corrette in punto di diritto in ordine alla natura ed agli effetti della sospensione cautelare (equiparata ad una condizione sospensiva della risoluzione del rapporto di lavoro), la sentenza impugnata avrebbe concluso erroneamente che “ulteriore effetto della cessazione della sospensione sarebbe quello della maturazione del diritto del lavoratore anche alla rivalutazione ed agli interessi legali dalle singole scadenze delle mensilità di retribuzione pregresse, e ciò in forza dell’art. 429 del codice di procedura civile, essendo irrilevante un inadempimento colpevole del debitore e sufficiente soltanto che il credito di lavoro sia maturato”.

Così ragionando, tuttavia, il Tribunale avrebbe omesso di considerare che l’obbligazione di pagamento delle retribuzioni pregresse (ed il relativo credito del lavoratore) sorge solo dal momento in cui la causa che ha dato origine alla sospensione cautelare dal servizio sia venuta meno, poiché in precedenza non può esservi alcun obbligo del datore di lavoro, o corrispondente diritto del lavoratore. Infatti, nessun inadempimento può ascriversi al datore di lavoro che legittimamente, cioè in forza di una espressa previsione contrattuale, non abbia corrisposto la retribuzione in attesa della conclusione del procedimento penale.

In altre parole, secondo il ricorrente, anche nella previsione di cui all’art. 429 del codice di procedura civile, il diritto al risarcimento del danno per la diminuzione del credito è correlato ad un ritardo nel pagamento rispetto al tempo di maturazione del diritto del lavoratore e costituisce una sanzione nei confronti del datore di lavoro che poteva e doveva pagare il credito del lavoratore a tempo debito, e cioè al momento della sua maturazione.

Nel caso di specie, invece, doveva escludersi in radice qualsiasi ritardo del Banco, che aveva provveduto a corrispondere al Ciancaglini le differenze di trattamento economico il 14 gennaio 1986 e quindi dopo appena 14 giorni dalla cessazione della sospensione cautelare.

Un adempimento in epoca anteriore, osserva il Banco, sarebbe stato non esigibile, non essendovi stata alcuna prestazione lavorativa da parte del Ciancaglini per tutto il periodo di sospensione cautelare dello stesso.

Il motivo è infondato.

È pur vero che in alcune decisioni anche recenti questa Corte ha mostrato di condividere la tesi ora sostenuta dall’Istituto ricorrente, affermando (Cass., 12169 del 12 novembre 1992) che “la maturazione del credito di lavoro, dalla quale l’art. 429, terzo comma, c.p.c. stabilisce la decorrenza degli interessi e della rivalutazione, coincide – non essendo configurabile per i crediti non ancora scaduti il ritardo nell’adempimento presupposto dalla norma – con l’esigibilità del credito stesso, la quale, allorché un credito è da considerarsi nato in epoca anteriore al fatto costituivo di esso, non può sussistere prima della sopravvenienza del fatto stesso”. Conf. Cass., 3370 dell’11 aprile 1996.

Tale tesi interpretativa non viene tuttavia condivisa dal Collegio, anche alla luce della recente pronuncia delle Sezioni Unite – 26 giugno 1996, n. 5895 – secondo la quale la rivalutazione non è configurata come un danno, ma come una componente dello stesso credito originario, come gli interessi (Cass., 15 aprile 1994, n. 3563, 30 luglio 1993, n. 8481, Sez. Un., 15 maggio 1991, n. 5441) ed entra a far parte del patrimonio del lavoratore indipendentemente dalla effettività del danno, per il solo fatto che il pagamento intervenga con ritardo rispetto alla maturazione del diritto.

Del resto proprio dalle premesse in ordine alla natura cautelare della sospensione – sopra ricordate – deriva come logica conseguenza che la stessa non può mai assumere carattere sanzionatorio e non può dunque incidere sulle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro ed è destinata a cadere con l’accertamento di merito, che solo può incidere sul rapporto di lavoro (sia nel senso di affermare l’esistenza della violazione che comporta la risoluzione del rapporto, sia nel senso di escluderla, con il ripristino di tutte le obbligazioni derivanti dal rapporto).

In caso di esito positivo per il lavoratore, questi avrà diritto di essere sollevato da tutte le conseguenze dannose derivanti dalla sospensione, in quanto la misura cautelare non può incidere sul rapporto sostanziale. Il rapporto di lavoro riprende il suo corso, a tutti gli effetti, dal momento in cui fu sospeso.

Per altro verso, va osservato che la misura cautelare della sospensione si pone come una vera e propria condizione sospensiva della risoluzione del rapporto (come correttamente ha argomentato il Tribunale) e come tale opera retroattivamente, con l’ulteriore conseguenza che in caso di avveramento della condizione, il recesso del datore di lavoro avrà effetto dalla data di applicazione della misura cautelare.

Nel caso di mancato avveramento della stessa – del quale appunto si discute nel caso di specie – a seguito dell’accertamento dell’insussistenza dei presupposti per la risoluzione del rapporto, il rapporto di lavoro dovrà proseguire regolarmente fin dall’inizio della sospensione e la maturazione delle retribuzioni dovrà intendersi, con una “fictio iuris”, avvenuta di mese in mese, con le normali scadenze contrattuali.

Da questi principi, non contraddetti dalle clausole dell’art. 81 del Regolamento più volte richiamato, si ricava pertanto il diritto del lavoratore sospeso a percepire, oltre alla retribuzione arretrata, anche la rivalutazione e gli interessi dalle singole scadenze al saldo, applicandosi alla fattispecie il disposto dell’art. 429 c.p.c.

Deve infatti essere qualificato come credito di lavoro il credito per le retribuzioni relative al periodo di sospensione cautelare del lavoratore, successivamente revocata, riconosciuto al dipendente sulla base della semplice retroattività della caducazione dell’atto cautelare.

Le retribuzioni maturate rappresentano l’utilità economica che il lavoratore avrebbe conseguito dalla prestazione dell’attività lavorativa ove l’espletamento di tale attività non gli fosse stata impedita dal provvedimento di sospensione cautelare.

Le considerazioni già svolte in ordine all’inesistenza di un inadempimento colpevole del debitore ed alla inesigibilità del credito – formulate dall’Istituto ricorrente con il secondo motivo di ricorso – rimangono assorbite dalle considerazioni che precedono, in ordine alla portata retroattiva del mancato avveramento della condizione sospensiva della risoluzione del rapporto.

Una diversa interpretazione verrebbe – come già ricordato in precedenza – a trasformare di fatto una misura cautelare in una sanzione disciplinare, in contrasto con la giurisprudenza consolidata di questa Corte secondo la quale la sospensione dalla retribuzione che acceda alla misura cautelare della sospensione dal servizio non può avere che lo stesso carattere meramente interinale di questa e non può mai assumere carattere sanzionatorio (Cass., 10 dicembre 1986, n. 7350).

In conclusione, il secondo motivo di ricorso deve essere rigettato.In conseguenza dell’accoglimento del primo motivo, la sentenza deve essere cassata, con rinvio al Tribunale designato in dispositivo, il quale dovrà provvedere anche in ordine alle spese di questo giudizio di Cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, rigetta il secondo motivo di ricorso.
Cassa in relazione al motivo accolto la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Rovigo anche per le spese del giudizio di Cassazione.
Così deciso in Roma l’11 novembre 1997.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 26 MARZO 1998.