Svolgimento del processo

Con atto notificato il 13 aprile 1995, Luigi Pezone chiedeva la condanna della Presidenza del Consiglio dei Ministri al risarcimento dei danni derivati a lui ed alla moglie dall’ingiusta detenzione patita dall’11 dicembre 1992 al 22 marzo 1994 per effetto dell’erronea applicazione delle norme sul cumulo delle pene fatta dai sostituti procuratori generali presso la Corte di appello di Napoli dott. Claudio Coassin e Salvatore Iovene. Con decreto motivato del 4 ottobre 1995 il Tribunale di Salerno dichiarava l’inammissibilità della domanda, ai sensi dell’art. 5 della legge 13 aprile 1988 n. 117, dopo aver rilevato che la legge non prevede l’azione congiunta nei confronti di più magistrati, a meno che non si tratti di organi collegiali e che l’azione doveva ritenersi validamente instaurata nei confronti del dott. Iovene, per il quale sussisteva la competenza dell’ufficio, ai sensi dell’art. 4 della medesima legge, ed il quale, comunque, appariva il sostanziale destinatario del ricorso, come firmatario dell’atto finale cui il ricorso si riferiva.

Con decreto motivato del 24 luglio 1996, la Corte di appello di Salerno rigettava il reclamo proposto dal Pezone, osservando:

a) che in ordine alla prospettata responsabilità alternativa o concorrente di altri organi (addetti al C.E.D. presso la Direzione centrale degli Istituti di Prevenzione e Pena ed alle direzioni delle case circondariali, responsabili di non aver fornito al sostituto P.G. Iovene le notizie richieste ai fini dell’accertamento della carcerazione presofferta), a prescindere dal fatto che l’eventuale azione risarcitoria nei loro confronti avrebbe dovuto essere proposta dinanzi al magistrato territorialmente competente, appariva assorbente il rilievo che “gli estranei che partecipano all’esercizio della funzione giudiziaria”, menzionati nell’art. 1 della legge n. 117 del 1988, dovevano essere identificati negli appartenenti alla magistratura ordinaria e nei componenti laici degli organi collegiali;

b) che correttamente il primo giudice aveva escluso la riconducibilità del provvedimento in esame, caratterizzato solo dall’erroneo calcolo della detenzione presofferta, nell’ipotesi prevista dall’art. 2, comma 3, lett. d) della legge n. 117 del 1988 (“emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge…”), non riguardando tale formula tutte le ipotesi in cui il provvedimento è errato, ma solo quelle in cui esso è adottato in difetto del presupposto normativo che ne legittimi l’emissione;

c) che tale interpretazione restrittiva si giustificava anche con la considerazione che la disposizione in esame non riproduceva, a differenza che per i casi di cui alle lettera a), b) e c), l’espressione “determinata da negligenza inescusabile”;

d) che correttamente il tribunale aveva ritenuto inammissibile l’azione risarcitoria per non avere il Pezone esperito tutti i mezzi di impugnazione ed i rimedi previsti, atteso che sia avverso l’ordine di esecuzione adottato dal pubblico ministero competente ai sensi dell’art. 656 c.p.p. sia avverso il provvedimento di determinazione delle pene concorrenti dallo stesso adottato ai sensi dell’art. 663 – provvedimenti da notificare al condannato e al suo difensore (art. 665, 3 e 4 comma, ed art. 663, ultimo comma) – era dato il rimedio, di natura sostanziale giurisdizionale, del ricorso al giudice dell’esecuzione, da individuare a termini dell’art. 665, 4 comma;

e) che dovendo intendersi per “negligenza inescusabile”, ai fini di cui all’art. 2 della legge n. 117 del 1988, un “quid pluris”, rispetto alla negligenza – in quanto essa deve presentarsi come non spiegabile, senza agganci con la particolarità del caso atti a rendere comprensibile, anche se non giustificato, l’errore – essa doveva essere esclusa nella fattispecie, avendo il magistrato compiuto tutti gli accertamenti necessari, anche presso l’Istituto di pena di Sulmona, dal quale era poi emersa successivamente la detenzione non calcolata inizialmente al momento dell’emissione dell’ordine di carcerazione, di guisa che l’errore era stato commesso per l’incompletezza della risposta data alle richieste del P.M.;

f) che il condannato era rimasto all’epoca inerte e solo a distanza di due anni con l’istanza del 28 febbraio 1994 rivolta dal suo difensore al sostituto P.G. Iovene era stato dedotto che il Pezone sarebbe stato associato alle carceri nel periodo tra il 22 agosto 1992 ed il maggio 1985, senza che fosse fornita alcuna indicazione più precisa al riguardo (se in esecuzione di un mandato di cattura ovvero di un ordine di carcerazione ovvero quale autorità giudiziaria avrebbe emesso il provvedimento);

g) che in presenza di tale deduzione il P.G. aveva tempestivamente eseguito tutti gli ulteriori accertamenti e, verificata la veridicità delle circostanze, aveva rideterminato il cumulo delle pene concorrenti pervenendo alla conclusione che la pena unica come determinata doveva considerarsi anteriormente espiata in eccedenza;

h) che esulava da quella sede l’indagine sulla individuazione della persona, diversa dal P.G. dott. Iovene, dovesse essere individuato come responsabile dell’ingiusta detenzione patita dal Pezone e su quale azione riparatoria e/o risarcitoria competesse a quest’ultimo.

Avverso tale decisione Luigi Pezone ha proposto ricorso per cassazione sulla base di sette motivi.

La Presidenza del Consiglio dei Ministri ha resistito con memoria.

Motivi della decisione

Va in primo luogo rilevato che il ricorso è tempestivo, essendo stato notificato all’altra parte nel termine di trenta giorni dalla notificazione del decreto della corte di appello, effettuata dalla cancelleria il 5 novembre 1996.

La notificazione al Pezone del decreto della corte di appello in data 17 settembre 1996, ad istanza dell’amministrazione, non assume rilievo ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione – contrariamente a quanto sostenuto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – in quanto l’art. 5, comma 4, della legge 13 aprile 1988 n. 117, nel fissare il termine di trenta giorni per la proponibilità del ricorso per cassazione collega tale termine alla notifica del decreto da effettuarsi da parte della cancelleria. E’ vero che, secondo la medesima norma, la notificazione della cancelleria dovrebbe essere effettuata senza indugio, e comunque non oltre dieci giorni, e che nella specie tale termine è stato ampiamente superato, ma si tratta evidentemente di un termine ordinatorio, la cui inosservanza non produce decadenza. Ne consegue che la notificazione del decreto da parte della cancelleria successivamente alla scadenza del termine ha mantenuto tutti i suoi effetti, tra cui quello di far decorrere il termine per la proposizione del ricorso per cassazione.

L’esame del secondo motivo di ricorso ha carattere pregiudiziale. Con tale motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 4 n. 2 e 2 n. 3 lett. d) della legge 13 aprile 1988 n. 117, in relazione agli artt. 360 n. 3 e 5 c.p.c.

La Corte di appello di Salerno aveva condizionato il ricorso ex art. 2 legge citata al previo esperimento dell’impugnazione male invocando, secondo il Pezone, una sentenza della Corte di Cassazione (26 luglio 1994 n. 26), la quale aveva invece escluso che, rispetti ai fatti inclusi fra quelli integranti la responsabilità civile dei magistrati, ai sensi dell’art. 2, l’art. 4 della stessa legge introducesse, quale ulteriore requisito per la loro rilevanza, l’onere della preventiva denuncia davanti al giudice dell’impugnazione.

Il motivo non è fondato.

Sul punto dell’inammissibilità dell’azione risarcitoria per non avere il Pezone esperito tutti i mezzi di impugnazione ed i rimedi previsti dall’ordinamento, la Corte di appello ha rilevato in primo luogo che avverso l’ordine di esecuzione adottato dal pubblico ministero competente ai sensi dell’art. 656 c.p.p. sia avverso il provvedimento di determinazione delle pene concorrenti dallo stesso adottato ai sensi dell’art. 663 – provvedimenti da notificare al condannato e al suo difensore (art. 665, 3 e 4 comma, ed art. 663, ultimo comma) – era dato il rimedio, di natura sostanzialmente giurisdizionale, del ricorso al giudice dell’esecuzione, da individuare a termini dell’art. 665, 4 comma. Ha, quindi, osservato che è indubbio che tale ricorso – alternativo, peraltro, alla sollecitazione alla modifica o revoca da parte dello stesso pubblico ministero – configura un rimedio di natura sostanzialmente giurisdizionale ed impugnatorio avverso gli indicati provvedimenti, sostanzialmente riconducibile alla categoria dei rimedi il cui previo esperimento condiziona, a termini dell’art. 2, 2 comma, legge 117 del 1988, l’esperibilità dell’azione di responsabilità dalla stessa legge prevista.

Ora, va sottolineato che il ricorrente non censura la decisione impugnata nella parte in cui essa ha considerato il ricorso al giudice dell’esecuzione come rientrante nella categoria dei rimedi previsti dalla disposizione da ultimo citata – punto sul quale, quindi, questo giudice non è chiamato a pronunciarsi – ma contesta che il mancato esperimento di tali rimedi precluda la proponibilità dell’azione di responsabilità.

Il Collegio condivide l’opinione espressa dalla Corte di appello, ritenendo che, ai fini dell’esercizio dell’azione di risarcimento del danno, il principio del necessario esperimento dei mezzi di impugnazione e dei rimedi previsti dall’ordinamento trova fondamento nella disciplina normativa della materia.

Invero, ai sensi dell’art. 4, comma secondo, della legge 13 aprile 1988 n. 117, “L’azione di risarcimento del danno contro lo Stato può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell’ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno”.

La disposizione distingue due ipotesi, a seconda che siano o meno previsti rimedi: nel primo caso – che corrisponde a quello in esame – prevede espressamente che l’azione di risarcimento può essere esercitata solo quando il rimedio sia stato esperito, il che comporta che nel caso contrario, e cioé in cui il rimedio non sia stato esperito, l’azione di risarcimento è preclusa. A tale interpretazione non sembra ostare l’espressione “e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento”, la quale è riferibile alle ipotesi in cui il rimedio sia stato esperito, ma il provvedimento sia ancora modificabile o revocabile (per esempio, nel caso in cui esperito il rimedio senza esito positivo per il reclamante, il giudice abbia ancora il potere di modificare o revocare il provvedimento). In tale ipotesi, dovrà ancora attendersi per l’esercizio dell’azione di responsabilità, ma essa non sarà preclusa, mentre lo sarebbe stata se il rimedio non fosse stato esperito.

La norma, per come è formulata, appare diretta a privilegiare i rimedi endoprocessuali rispetto all’azione risarcitoria, subordinando quest’ultima alla circostanza che il danneggiato abbia messo in funzione i meccanismi predisposti dall’ordinamento per eliminare, o almeno ridurre, il danno.

Che tale fosse l’intenzione del legislatore è confermato anche dai lavori parlamentari, nel corso dei quali sono stati respinti emendamenti volti a subordinare l’azione risarcitoria alla sola scadenza dei termini di impugnazione. In particolare, risulta dagli atti del Senato (78a seduta pubblica, resoconto sommario, venerdì 12 febbraio 1988) che erano stati presentati due emendamenti (n. 4.19, sen. Corleone ed altri, e n. 4.7, sen. Filetti ed altri), diretti a sostituire il secondo comma dell’art. 4 con un testo che prevedeva che “la domanda non può essere proposta prima che siano scaduti i termini per i mezzi di impugnazione ordinari…”. Il relatore Gallo in data 17 febbraio 1988 (vedi 79 e 80 resoconto sommario) esprimeva parere contrario su tali emendamenti perché “sostanzialmente volti ad escludere la subordinazione, operata dal testo proposto dalla 2a Commissione permanente, della proposizione dell’azione di risarcimento all’effettivo esperimento dei mezzi ordinari di impugnazione. Tali emendamenti sono volti allo scopo di evitare di configurare a carico del cittadino danneggiato un onere di proposizione, ai fini dell’esercizio dell’azione di risarcimento, dei mezzi di impugnazione previsti dall’ordinamento. Di contro, la necessità di impedire che l’azione di risarcimento diventi un surrogato dei mezzi ordinari di impugnazione induce a ritenere necessaria la configurazione dell’esperimento di tali mezzi come condizione per la proposizione della domanda di risarcimento”.

In senso conforme all’interpretazione qui sostenuta, vedi Cass. 13 dicembre 1996 n. 2186 (in motivazione), secondo cui l’intento primario del legislatore, nel subordinare l’esperibilità dell’azione risarcitoria ex legge n. 117 del 1988 all’esaurimento dei possibili rimedi, è stato quello di dare la prevalenza alla rimozione (la più immediata possibile) del provvedimento dannoso mediante gli strumenti processuali che normalmente l’ordinamento appresta. Conformemente si è pure pronunciata questa Corte con la sentenza n. 1884 del 24 febbraio 1994, che ha ritenuto inammissibile l’azione proposta contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni derivanti da un’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione aveva rigettato un’istanza di assegnazione di un credito pignorato, in quanto contro tale provvedimento sarebbe stata esperibile l’opposizione agli atti esecutivi a norma dell’art. 617 c.p.c..

Per quanto riguarda, invece, la sentenza n. 6950 del 26 luglio 1994, cui si è richiamato il ricorrente, va osservato che il caso esaminato in quella sede era diverso dal presente, in quanto l’impugnazione era allora stata proposta. Il danneggiato si lamentava infatti di una sentenza di dichiarazione di fallimento contro cui il medesimo aveva proposto opposizione, la quale era stata accolta per difetto di insolvenza. La Corte di Cassazione era stata investita esclusivamente della questione se potesse farsi valere con l’azione risarcitoria un vizio non denunciato in sede di opposizione al fallimento, avendo la Corte di appello ritenuto che l’art. 4, secondo comma, della legge n. 117 del 1988, nell’esigere il preventivo esperimento dei mezzi ordinari di impugnazione, non consentiva di fondare l’azione risarcitoria su fatti non denunciati con i mezzi stessi, mentre la ricorrente sosteneva che l’onere del preventivo esperimento degli ordinari mezzi di impugnazione (non messo quindi in discussione nemmeno della stessa parte), di cui all’art. 4, secondo comma, della legge n. 117 del 1988, non implicava il divieto di addurre, con la domanda di responsabilità, violazioni non denunciate con detti mezzi. La Corte di Cassazione con la sentenza da ultimo citata non si pronunciata sulla questione se sia proponibile l’azione di responsabilità in mancanza di impugnazione contro il provvedimento produttivo di danno, ma ha solamente escluso che per la rilevanza dei fatti integranti responsabilità del magistrato sussista l’onere della preventiva denuncia davanti al giudice dell’impugnazione.

Il secondo motivo di ricorso va, pertanto, rigettato. Non essendo l’azione risarcitoria esercitabile, ne consegue l’assorbimento di tutti gli altri motivi di ricorso.

Sussistono giusti motivi per la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il secondo motivo di ricorso, assorbiti gli altri; spese compensate.
Così deciso in Roma il 7 luglio 1997.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 23 DICEMBRE 1997