Svolgimento del processo

L’ANAS – Azienda autonoma delle strade dello Stato – a seguito di licitazione privata e conseguente aggiudicazione, con contratto del 1.3.67, affidò alla S.p.A. Ing. G. Manfredi – società per costruzioni ed esercizi industriali – la costruzione del terzo lotto del tronco 3° dell’autostrada Salerno Reggio Calabria fra ponte Pantano e ponte Calanchi, per un importo al netto del ribasso d’asta di L.240.199.000, aumentato, in forza di perizie suppletive e di tre atti aggiuntivi, a lire 7.880.847.655.

I lavori avrebbero dovuto essere ultimati entro il 20.1.68 ma per le proroghe convenute e per le varie sospensioni erano durati sino al 23.7.74. Il ritardo, secondo la spa Manfredi, era solo in minima parte giustificato dall’incremento dei lavori di cui agli atti aggiuntivi o da altre cause; in realtà, si erano verificati gravi, ripetuti e diffusi impedimenti che ne avevano ostacolato la normale prosecuzione. Tra essi, secondo la spa Manfredi, la ritardata eliminazione di un gran numero di tralicci di elettrodotti ad alta tensione e telegrafici (due anni dopo l’inizio dei lavori); la presenza di case non sgombrate in prossimità degli scavi; il ritardo con cui l’Amministrazione militare aveva autorizzato la bonifica dei terreni disseminati da mine nel corso dell’ultimo conflitto bellico; la difficoltà nella individuazione e nell’accesso ai terreni interessati dal tracciato nonché omissioni della direzione dei lavori, fra cui ritardi, rifiuti,errori nella contabilizzazione e nei conteggi.

Vi erano stati, poi, secondo l’esposizione della S.p.A. Manfredi, eventi meteorologici eccezionali che avevano danneggiato attrezzature; imprevisti geologici rilevantissimi con effetti sulla durata dei lavori oltre che sui costi.

Per queste ed altre cause, la S.p.A. Manfredi aveva iscritto, nel tempo, trentuno riserve per un importo di 4.507.706.672.

Secondo l’appaltatore, inoltre, il collaudo, anziché essere completato entro un anno e mezzo dalla fine dei lavori, lo era stato quasi tre anni più tardi, il 15.12.78 a causa del ritardo dell’ANAS nella trasmissione della contabilità, mentre l’approvazione non era stata ancora effettuata all’inizio del 1980 con il danno conseguente

– tra l’altro – alla ritardata liberazione dalla soggezione al rapporto, al ritardato svincolo delle “trattenute” ed al “saldo” di remissione. Essendo stata disattesa ogni domanda in ordine alle riserve, la spa Manfredi significò all’A.N.A.S., la intenzione di adire il collegio arbitrale previsto dal DPR 1063-62 per conseguire le prestazioni non ottenute, i risarcimenti, i compensi e gli indennizzi dovuti.

Costituitosi il Collegio arbitrale, la Manfredi spa propose vari quesiti concernenti il suo diritto a percepire, in relazione ai titoli e con riferimento alle rispettive riserve, lire 4.570.660.714; il suo diritto alla “revisione” per tutte le differenze di prezzi, compensi ed indennizzi di cui al primo quesito e, se spettanti, al secondo; il diritto agli interessi al tasso minimo del 18% sui “saldi”, su ritenute di garanzia e su altre spese; il diritto alla rivalutazione dalle date di produzione dei crediti; il diritto al rimborso delle spese legali.

L’A.N.A.S. si costituì ed offerte somme per circa 82.250.000, in relazione alle riserve 3-7b-15-18-27-28-31, contestò la fondatezza delle altre domande, alcune nel merito, altre per intempestività delle riserve.

Con lodo del maggio 1983, reso esecutivo dal Pretore di Roma il 22.7.83, il Collegio arbitrale accolse le richieste concernenti alcune “riserve” per un’ammontare di lire 261.592.290, con gli interessi del 18% dal 24.4.80; le richieste n. 5 e 10 del secondo quesito per un ammontare di 175.000.000, riconoscendo su questa somma “rivalutazione” ed interessi legali.

Con atto di citazione notificato il 22.9.83, la spa Manfredi impugnò il lodo innanzi alla Corte d’appello deducendo cinque motivi di nullità con i quali sostenne, in via rescindente, l’annullamento del lodo e, in via rescissoria, l’integrale accoglimento delle richieste fatte agli arbitri.

L’ANAS contestò,sotto ogni profilo le domande. Con sentenza del 4.6.85, la Corte d’appello romana dichiarò la nullità del lodo di cui in narrativa, rimettendo la causa, con ordinanza, innanzi all’istruttore perché, in sede rescissoria, quantificasse le pretese, mediante consulenza tecnica e “salva nei singoli casi, ogni questione sull’an debeatur”.

La Corte romana rilevò che gli arbitri avevano respinto la maggior parte delle pretese per intempestività delle riserve considerando che esse avrebbero potuto essere formulate sin dal momento della consegna dei lavori mentre non figuravano nei relativi verbali dell’11.7 e del 21.11.66 (attestanti, quindi, la regolarità della consegna); che, secondo l’impresa Manfredi, invece, l’onere della “riserva” era sorto solo allorché la pretesa dell’appaltatore aveva assunto contenuto concreto ed attuale – non, quindi, meramente eventuale – in relazione ad oneri o maggiori danni non ancora verificatisi; che i ritardi e le cause che li avevano determinati potevano, infatti, essere valutati solo nel loro insieme; che ogni singolo inconveniente non legittimava alcuna pretesa potendo, nel tempo per la ultimazione dei lavori, verificarsi un naturale recupero; che solo con lo stato di avanzamento del marzo 1968, constatato che alla ripresa postinvernale gli ostacoli non erano stati rimossi, i maggiori oneri erano apparsi evidenti e logica la formulazione della “riserva”; che la prova del contrario – ossia che ciascun inconveniente non aveva prodotto il danno presupposto della “riserva” – gravava, secondo l’impresa Manfredi, sull’ANAS. E sul punto, sottolineava l’appellante, il difetto di motivazione era assoluto. Inoltre, il Collegio arbitrale era incorso in errore allorché aveva pronunziato la decadenza non solo in relazione ai danni verificatisi prima del momento in cui avrebbe potuto proporsi la “riserva” ma anche per quelli successivi, così violando il principio base secondo cui nei fatti continuativi le “riserve” formulate – come nella specie – giovano per gli oneri emersi durante i lavori nel cui stato di avanzamento sono iscritte e per il futuro.

Aveva rilevato, ancora, la spa Manfredi che nel verbale di consegna “fatta per ragioni di urgenza in condizioni di non immediata e totale disponibilità delle aree” sussiste l’obbligo dell’Amministrazione di liberarle man mano che lo sviluppo lo esiga, il che confermava la irrilevanza di un’apposita “riserva”.

La Corte, nell’individuare il momento in cui sorge l’obbligo dell’iscrizione e della indicazione dei valori richiesti, fece riferimento, in aderenza alla più recente giurisprudenza di legittimità, alla data dell’aggravio economico per l’appaltatore (Cass. 19.1.79 n. 394) rilevando che la quantificazione può essere rimandata alla cessazione del fatto continuativo. Affermò che i fatti lamentati erano sicuramente “continuativi” e rilevabili sin dal momento della consegna dei lavori e concluse che mentre la spa Manfredi aveva l’obbligo di formulare le sue riserve già nel verbale di consegna per quanto atteneva alla non identificabilità del tracciato, sicché la successiva “riserva” era intempestiva, tale preclusione non sussisteva per gli altri impedimenti per cui si sarebbe dovuto accertare quando l’appaltatore avrebbe potuto rendersi conto della loro irreversibile incidenza economica a causa dell’impossibilità di recuperare i ritardi. In ogni caso, i singoli impedimenti (tralicci; indisponibilità di aree) dovevano considerarsi, ai fini dell’onere della “riserva”, nel loro insieme e non singolarmente come avevano fatto gli arbitri, fermo restando che non potevano essere negate le pretese relative al tempo successivo a quello in cui la “riserva” avrebbe dovuto essere fatta restando esclusa una definitiva preclusione dalla ratio della norma e dall’art. 14 delle preleggi. E dunque, anche se si ritenevano intempestive le riserve nn. 5 e 10, si sarebbe dovuto accertare quali maggiori oneri l’appaltatore aveva subito fino al precedente S.A.L. e quali successivamente, la cui indennizzabilità non era preclusa. Per questi profili, la sentenza arbitrale doveva essere annullata nel suo complesso, in conseguenza della indivisibilità del lodo, rivelandosi superfluo l’esame degli altri motivi di nullità. La Corte demandò ogni altra questione al giudizio rescissorio.

Con sentenza del 22.5.89, la Corte romana, accogliendo la domanda dell’impresa Manfredi nei limiti di cui in motivazione, condannò l’ANAS a pagare lire 219.391.449 con gli interessi legali dalla domanda introduttiva del giudizio arbitrale; lire 335.668.910, a titolo di maggior danno da svalutazione monetaria, con gli interessi legali dal 1.7.67, per rivalutazione degli iniziali cinquanta milioni; lire 9.367.000.000, con gli interessi legali dal 23.7.74, per rivalutazione di 1.615.000.000 riconosciute complessivamente a titolo di risarcimento del danno e di indennizzi; dichiarò il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in relazione alla domanda concernente il riconoscimento dei compensi revisionali eventualmente spettanti.

La Corte sottolineò che la pronuncia di nullità della sentenza arbitrale ha natura di pronuncia non definitiva e che il riesame del merito è limitato dalle decisione già adottate a conclusione della fase rescindente. In ordine alle “riserve” denunziate, rilevò la sicura intempestività della richiesta concernente la non identificabilità del tracciato dell’opera appaltata; mentre considerò che per gli altri impedimenti, da valutarsi unitariamente, la mancata apposizione di “riserve” doveva considerarsi limitata alle sole pretese relative agli oneri verificatisi prima della iscrizione (della riserva).

In definitiva, i poteri del giudice nella fase rescissoria incontravano limiti solo in riferimento alle riserve nn. 5 e 10. La Corte escluse qualsiasi credito dell’impresa per il mancato utile derivante dalla ineseguita costruzione delle cinque gallerie a foro cieco previste in contratto e per la differenza tra prezzi previsti e costi effettivi rispetto alle gallerie a cielo aperte eseguite a modifica delle previsioni contrattuali ed in esecuzione di varianti accettate. Rigettò la domanda in ragione della disciplina dell’art. 14 del capitolato gen. OO. PP. 1063-62, essendo stata la diminuzione contenuta nel limite di un quinto dell’importo del contratto per l’appaltatore che non aveva inteso recedere dai patti.

In riferimento ai lavori sostitutivi, concernenti la costruzione delle medesime gallerie a foro aperto si rilevò che i lavori non erano stati ordinati unilateralmente dall’ANAS entro il sesto quinto (o oltre) e che essendo intervenuti accordi tra le parti, non erano fondate le istanze dell’appellante. Anche la richiesta di un indennizzo per ristabilire l’equilibrio economico dell’appalto, alterato dai maggiori costi dei muri a gravità dopo l’approvazione delle perizie di varianti tecniche e suppletive, fu rigettata in conseguenza delle rinunzie agli equi compensi per le variazioni ordinate entro il sesto quinto mentre l’impresa si era impegnata a realizzare le nuove opere eccedenti il sesto quinto alle stesse condizioni ed agli stessi prezzi del contratto originario. In definitiva, il credito per le domande relative al primo quesito ammontava a lire 219.391.449.

La Corte di merito considerò molto gravi le violazioni del dovere di collaborazione da parte dell’Amministrazione committente, violazioni che avevano prodotto ingenti ritardi e concluse, in sintonia con il C.T.U., che gli impedimenti causati dai movimenti franosi e quelli dovuti alle ritardate rimozioni avevano indotto a formulare richieste di proroga che, in quanto accolte dall’ANAS, giustificavano le motivazioni dell’appaltatore. Determinato in cinquanta milioni, equitativamente, il costo delle strade di servizio non previste in contratto, la sentenza impugnata affermò che, in ordine all’indennizzo per le maggiori spese generali, dovevano calcolarsi i costi totali e non solo i quattro quinti come in occasione del recesso anticipato dell’Amministrazione. Indicò il danno per il ritardo corrispondente alla maggior durata delle opere per 32 mesi, in lire 671.000.000; in lire 416.000.000 quello per le spese del personale di cantiere; in lire 424.000.000 l’indennizzo per il fermo del macchinario e delle attrezzature. Fu escluso il danno per il minor rendimento della mano d’opera per difetto di prova; quello determinato da interessi passivi per il maggior vincolo delle cauzioni, trattandosi di spese generali già valutate; quello per i mancati utili aziendali nel tempo contrattuale atteso che gli stessi prezzi, che comprendono la percentuale corrispondente all’utile dell’appaltatore, continuavano ad essere applicati nel pagamento dei lavori pur se eseguiti dopo il termine contrattuale.

La Corte d’appello, inoltre, negò fondamento alla richiesta di rimborso delle somme corrispondenti all’alea del 5% gravante sull’appaltatore, in sede di revisione prezzi, per gli aumenti dei costi dei materiali e della mano d’opera seguiti al ritardo, per carenza di prova in ordine alla esistenza di rincari non coperti da revisione.

Non ritenendo che si fosse configurata “sorpresa geologica”, o caso di forza maggiore, la Corte respinse la richiesta di risarcimento del danno causato dagli eccezionali eventi meteorologici dell’anno 69-70 in difetto delle condizioni di operatività della prima e per la esclusione prevista dall’art. 17 del capitolato speciale. Né la domanda di risarcimento poteva essere accolta, secondo la sentenza impugnata, considerando che gli eccezionali eventi meteorologici si erano verificati durante il periodo di proroga dei lavori richiesto dall’ANAS e, quindi, come illecito aquiliano, perché quegli eventi non erano conseguenza immediata e diretta della mora del creditore ma solo in rapporto di mera occasionalità con la predetta mora. Ed analoga considerazione determinò il rigetto della richiesta di danni seguiti agli aventi meteorologici verificatisi nella notte tra il 10 e l’11 settembre 1969. All’impresa Manfredi la Corte attribuì, dunque, complessivamente lire 1.665.000.000. In ordine alla richiesta di revisione prezzi, la Corte osservò che il potere di concederla era attribuito alla P.A., che esercita una vera e propria facoltà pubblica la cui fonte è esterna al contratto d’appalto ed opera dall’esterno in via autoritativa, come limite allo svolgimento della vicenda negoziale, e, quindi, dichiarò il difetto di giurisdizione, essendo altri i capi in cui si profilava, al riguardo, il diritto soggettivo dell’appaltatore.

La Corte di merito escluse, poi, il diritto dell’appaltatore ad ottenere gli interessi di mora, anche ai tassi stabiliti dai decreti ministeriali, per le ritenute di garanzia, per i contributi per infortuni e per tutti gli oneri finanziari corrispondenti al periodo di maggior durata dei lavori. Al riguardo, non si profilava la mora del concedente in forza dell’accettazione dell’appaltatore. Escluse anche il diritto al risarcimento del danno subito dall’impresa per il ritardato compimento delle operazioni di collaudo (avvenuto tre anni oltre il previsto), in forza dell’art. 96 del R.D. 25.5.1895 n. 350.

Nella specie, inoltre, non v’erano state “riserve” dell’appaltatore che avrebbe potuto, con la ordinaria diligenza, riottenere le somme corrisposte. Sulla richiesta di rivalutazione e di interessi sui crediti riconosciuti (nella misura minima del 18%), la Corte di merito osservò che le somme dovute per mancata o inesatta contabilizzazione erano crediti di valuta il cui importo doveva essere integrato da interessi moratori, salvo il maggior danno da svalutazione. Per la decorrenza degli interessi, la Corte fece riferimento alla data della domanda introduttiva del giudizio arbitrale, non avendo rilevanza le riserve scritte ai fini della costituzione in mora dell’ANAS. Per la svalutazione ritenne provato, alla stregua delle produzioni documentali, un danno ulteriore nella misura media del 18% annuo. E determinò le somme relative con le diverse date di decorrenza degli interessi.

Ricorre per cassazione l’A.N.A.S. sulla base di cinque motivi. Resistono con controricorso la Iniziative costruzioni Agro Romano srl e la S.p.A. “Ing. G. Manfredi per costruzioni ed Esercizi industriali” che propongono ricorso incidentale sorretto da sei motivi. Vi sono memorie.

Motivi della decisione

Preliminarmente, va disposta, a termini dell’art. 335 c.p.c., la riunione dell’impugnazione principale e di quella incidentale, proposta separatamente contro la stessa sentenza.

Con il 1° motivo del ricorso principale si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 53 e 54 del R.D. 25 maggio 1895, n. 350, e degli artt. 830 e 112 c.p.c.; omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su punto decisivo.

La ricorrente sottolinea che il motivo concerne la domanda di maggior rilievo economico in quanto attiene alla richiesta di risarcimento dei danni sopportati in seguito allo sconvolgimento del piano di lavoro dovuto a cause di vario genere, Il “lodo” ne aveva dichiarato la inammissibilità per essere stata – la riserva – iscritta tardivamente nonostante essa si riferisse a situazioni ben rilevabili ab inizio dall’impresa. Proprio la dichiarazione di inammissibilità aveva determinato la sentenza rescindente che aveva dato atto della tardività dell’azione ma escluso l’automatico, totale effetto preclusivo affermato dal “lodo”. Secondo la ricorrente, mentre si sarebbe dovuto accertare fino a che limite l’impresa era stata in condizione di valutare le conseguenze dannose dei fatti ostativi sicché i maggiori oneri potessero essere ristorati a partire dalla “riserva”, in quanto fatti valere tempestivamente, la sentenza aveva ritenuto di non doversi occupare di tale questione riconoscendo dovuto il risarcimento per “tutto” il ritardo nella esecuzione.

La censura è infondata.

È agevole constatare che la sentenza n. 1612 del 15 luglio 1985 ha additato per la valutazione delle “riserve” precise regole cui la sentenza definitiva n. 1125 del 22 maggio 1989 si è attenuta. E, quindi, la esclusione della eccepita “tardività ” si è posta, in relazione di causa ed effetto, rispetto ai criteri enunciati dalla sentenza “rescindente”.

Il non avere impugnato la decisione che rinviava alla fase rescissoria la quantificazione delle pretese mediante consulenza tecnica, “fatta salva nei singoli casi ogni questione sull’an debeatur”, ha precluso il riesame dei criteri stabiliti ed ha, in concreto, condizionato l’accoglimento delle singole domande alla specifica, relativa valutazione di merito non già alla valutazione della loro ammissibilità. In definitiva, i criteri secondo cui bisognava considerare che v’erano materie non soggette a “riserva” nel verbale di consegna; che i fatti impeditivi ed i danni addotti a riserva dovevano essere valutati come un “unicum” in rapporto al quale tener conto dell’oggetto, della rilevanza economica e della tempestività delle “riserve”; che queste concernevano fatti continuativi o permanenti; che non era concepibile la tardività per fatti contestuali o posteriori alla riserva scritta, questi criteri, dunque, hanno costituito – in quanto non impugnati – i punti di riferimento della sentenza rescissoria. E giova ribadire che le statuizioni contenute nella sentenza rescindente – che è sentenza non definitiva – non possono essere modificate o revocate dalla sentenza definitiva atteso che i singoli punti della prima sono riesaminabili solo con le impugnazioni mentre la non definitività concerne la non integralità della decisione della controversia ma non la mutabilità da parte dello stesso giudice di ciò che è stato deciso (Cass. 19 gennaio 1981 n. 451; 28 aprile 1981 n. 2570).

Va, poi, rilevato che la decisione scaturita dall’applicazione concreta dei criteri della unitarietà e della continuatività di certi fenomeni, involgendo valutazioni di mero fatto, si sottrae all’esame del giudice di legittimità che non può formulare giudizi – e riconsiderare quanto è stato affermato in riferimento alla continuità, attesa la incontestabile logicità delle affermazioni effettuate.

Il motivo è, per tanto, infondato, anche in relazione al dedotto vizio di motivazione.

Con il secondo motivo, si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 1206, 1218 c.c.; omessa, insufficiente contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, in relazione all’ art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. Secondo la ricorrente, l’affermazione di un preteso onere di collaborazione tra committente ed appaltatore al fine della rimozione degli impedimenti non ha riscontro nell’ordinamento e la Corte di merito avrebbe errato limitandosi a considerare il tempo trascorso e non l’impegno profuso per eliminare gli impedimenti.

Il motivo è privo di fondamento.

In realtà, la sentenza impugnata ha legittimamente considerato che ai fini della valutazione dei “ritardi” – e, quindi, del riconoscimento del nesso di causalità tra le dedotte omissioni ed il danno lamentato – la mancata tempestiva collaborazione dell’A.N.A.S. costituiva l’elemento generatore del pregiudizio. L’onere di collaborazione, invero, discende dal principio generale enunciato dal libro quarto del codice civile secondo cui il creditore è in mora se non compie quanto è necessario affinché il debitore possa adempiere l’obbligazione. Né sono prospettabili distinzioni temporali al riguardo dal momento che, come si evince dalla sentenza impugnata che, anche su tale punto, non è né carente di motivazione né contraddittoria, il cosiddetto obbligo di collaborazione si riferisce all’intera durata dell’esecuzione del contratto. Alla valutazione di ogni altro aspetto della censura si oppongono i limiti del giudizio di legittimità “.

Con il terzo motivo, si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 1218 c.c.; omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione. Si sostiene in particolare, che la imputabilità all’A.N.A.S. dei movimenti franosi durante i lavori non è adeguatamente motivata essendo stato ritenuto sufficiente, al riguardo, la considerazione che “i lavori, secondo la conclusione del consulente tecnico di ufficio, vennero affidati senza un’approfondita indagine geologica del terreno”. Ma la ricorrente trascura che la riferibilità all’A.N.A.S. dell’inconveniente che aveva ostacolato la normale realizzazione del piano di lavoro è stata ritenuta dal giudice del merito alla stregua degli accertamenti tecnici acquisiti, la cui valutazione compete esclusivamente al giudice del merito. La motivazione destinata a sorreggere quelle valutazioni deve considerarsi esatta, oltre che congrua, perché fondandosi sulla riferibilità del progetto all’Azienda autonoma, ha rettamente ascritto al medesimo soggetto la responsabilità per le carenze progettuali; tra cui vanno ricondotte le non previste “frane” in galleria.

Con il quarto motivo, si denunzia, anche per altro profilo, violazione degli artt. 2697 e 1218 c.c. ed omessa, insufficiente motivazione su punto decisivo.

La censura si risolve nella denunzia del vizio logico in cui sarebbe incorso la sentenza impugnata nella quantificazione del danno sia per avere indebitamente imputato all’A.N.A.S. l’intera eccedenza temporale rispetto alle previsioni di contratto sia per aver tenuto conto anche del “fermo” del cantiere dovuto alle avverse condizioni meteorologiche sia per avere calcolato un danno da “fermo” con riferimento ad un cantiere permanente al massimo delle disponibilità operative in uomini e mezzi. Anche questo motivo va respinto perché – come ha pertinentemente sottolineato il controricorrente – da un lato tende a rimettere in discussione un punto accertato della sentenza rescindente non impugnata (la responsabilità dell’A.N.A.S. per mancata collaborazione) e, dall’altro, trascura che il “fermo” calcolato dalla consulenza e dalla sentenza in trentadue mesi si inseriva nel generale prolungamento di 68 mesi, periodo nel quale si erano inframmezzati i lavori aggiuntivi sicché non potendosi far riferimento a specifici, e perciò determinati, periodi di “fermo” assoluto e di attività normale, non era logicamente proponibile un diverso calcolo per le spese generali e per i tempi di utilizzazione dei macchinari. In ordine alle spese generali, in particolare, attenendo esse alla esecuzione del contratto nel suo complesso, legittimamente sono state imputate al debitore inadempiente per l’intera durata del contratto, anche laddove esse riguardavano periodi di “fermo” dell’attività lavorativa in senso stretto; quanto alle osservazioni circa l’utilizzo dei materiali, questa Corte non ravvisa il dedotto vizio logico atteso che le conclusioni cui è pervenuta la sentenza impugnata sono strettamente dipendenti dalla obiettiva incertezza “dell’iter” lavorativo. Esse sono da considerare, oltre che logiche, dettate da accertamenti e valutazioni non sindacabili in sede di legittimità.

Con il quinto motivo, infine, si denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 1224 c.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., per avere la sentenza impugnata attribuito all’impresa, a titolo di maggior danno, un tasso di interesse pari al 18% annuo decorrente dalla domanda e per avere riconosciuto sulla somma complessiva gli interessi legali con la stessa decorrenza. Il che, secondo la ricorrente, avrebbe concretato un inammissibile anatocismo. Inoltre, nel quantificare il maggior danno, la sentenza impugnata avrebbe assunto a parametro i saggi di interesse determinati dai D.M. previsti dagli artt. 35 e 36 del Capitolato gen. O.P. senza considerare che la misura di quegli interessi include anche la svalutazione monetaria. In definitiva, il calcolo effettuato dalla sentenza impugnata avrebbe, secondo la ricorrente, gratificato ingiustificatamente l’appaltatrice, atteso che in ragione del riferimento agli interessi di cui ai decreti ministeriali ex art. 36 del Cap. gen. O.P., la sentenza avrebbe dovuto detrarre, non aggiungere, il 5% degli interessi legali: solo la differenza poteva concretare l’ulteriore maggior danno.

Anche questa censura va respinta.

In realtà, la sentenza impugnata ha, tra l’altro, condannato l’A.N.A.S. al risarcimento del danno derivante dalla svalutazione monetaria, in relazione all’importo di lire 219.391.449 nella misura di ulteriori lire 335.668.910, sulla base del 18% annuo per 8,5 anni; solo su tale somma ha riconosciuto gli interessi legali dalla data di pubblicazione della sentenza al soddisfo.

La pronuncia è corretta in quanto: ha determinato il risarcimento del maggior danno per svalutazione monetaria dal luglio 1980 alla data della sentenza di merito sulla base delle prove documentali acquisite ed ha indicato, al riguardo, il tasso annuo del 18% specificando che la decisione era correlata ai tassi passivi corrisposti dall’impresa secondo una misura media che “corrisponde”, in linea di massima, all’importo dei tassi degli speciali interessi di mora determinati, nello stesso periodo, dai decreti ministeriali ex artt. 35 e 36 del citato capitolato; non ha cumulato, come sostiene la ricorrente, gli interessi, configurando il dedotto anatocismo, ma su un preciso e definitivo dato economico, solo “comparabile” agli interessi riconosciuti dai menzionati D.M., ma non identificabili con essi, ha attribuito, a titolo di risarcimento del danno da svalutazione monetaria, gli interessi legali dalla data di pubblicazione della sentenza. Il che, finalizzato alla ricostituzione della consistenza patrimoniale propria del creditore, è pienamente conforme a legge.

Con il primo motivo del ricorso incidentale, i controricorrenti denunziano la falsa applicazione degli artt. 13 e 14 del D.P.R. n. 1063 del 1962; illogicità di motivazione con violazione dell’art. 132, n. 4, c.p.c.; dell’art. 118 disp. att. c.p.c.; dell’art. 111 Cost., in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c.

Secondo i ricorrenti incidentali, infatti, la Corte di merito avrebbe erroneamente applicato l’art. 14 del citato D.P.R. n. 1063 del 1962, in luogo dell’art. 13 e dell’art. 1661 c.c. atteso che si sarebbe dovuto far riferimento non già al quinto dell’importo globale dell’appalto bensì al quinto specifico del valore delle categorie variate. Sulla eccedenza sarebbero spettati all’appaltatore gli indennizzi corrispondenti alla diversa remuneratività tra le categorie previste e quelle eseguite; categorie da regolare l’una rispetto all’altra e non separatamente.

Al pagamento del prezzo di tariffa di cui agli atti aggiuntivi, poi, non potrebbero ricollegarsi le conseguenze ritenute dalla Corte di merito atteso che alla preclusione della “riserva” sarebbe occorso la “rinuncia” – mai intervenuta – agli indennizzi dell’art. 13; né la “riserva” era vanificata dall’accettazione di lavori e di condizioni di cui agli atti aggiuntivi. Analoghi rilievi, infine, i ricorrenti incidentali hanno formulato per la richiesta di lire 165.842.696 per mutata corrispettività determinata dal notevole aumento di muri a gravità ed in cemento armato; per lire 379.679.831 chieste in conseguenza della perdita di corrispettività determinata dai maggiori scavi in roccia da mina; mentre il rigetto della riserva n. 25 è stato domandato in ragione della inammissibile motivazione “per relationem”.

La censura va respinta.

In realtà, le deduzioni dei ricorrenti incidentali sembrano fondarsi sull’erroneo presupposto che ogni variazione dei lavori debba essere regolata dall’art. 13 del D.P.R. n. 1063 del 1962. Poiché così non è, fondatamente la sentenza impugnata ha fatto riferimento ed ha applicato l’art. 14 del D.P.R. n. 1063 del 1962, che specificamente, regola gli aumenti e le diminuzioni dei lavori, sottolineando che, nella specie, all’impresa non poteva essere riconosciuto il credito di lire 212.880.155 a titolo di indennità per il mancato utile determinato dalla omessa costruzione delle cinque gallerie a foro cieco posto che l’A.N.A.S. aveva ordinato una diminuzione delle opere nella misura corrispondente all’importo previsto in contratto per la esecuzione di quelle gallerie. E poiché la diminuzione era stata contenuta nei limiti di un quinto in meno dell’importo del contratto, all’appaltatore non competeva indennità alcuna; né l’impresa si era avvalsa del diritto di recedere dal contratto.

Il citato art. 13, in sostanza, dopo aver vietato all’appaltatore di compiere di sua iniziativa variazioni o addizioni a lavori assunti contrattualmente, disciplina le “variazioni” che non si concretano nella diminuzione o nell’aumento di lavori perché queste ipotesi trovano specifica regolamentazione nel successivo articolo. E mentre l’appaltatore non ha diritto ad alcuna indennità se l’aumento o la diminuzione dei lavori non supera il quinto in più o in meno “dell’importo del contratto”, per le variazioni (art. 13), il diritto all’equo compenso è condizionato alla circostanza che le quantità delle varie specie di opere superino il quinto in più o in meno delle corrispondenti “quantità originarie”. Correttamente, per tanto, la sentenza impugnata ha ritenuto applicabile il citato art. 14. Si era, infatti, in presenza non già di una variazione bensì di una “diminuzione” delle opere nella misura corrispondente all’importo previsto in contratto per la esecuzione delle cinque gallerie a foro cieco; e poiché la diminuzione restava nei limiti di un quinto in meno dell’importo del contratto, ha escluso l’attribuzione di qualsiasi indennità per l’appaltatore. E, conseguentemente, vanno respinti i rilievi proposti con riferimento al rigetto delle altre richieste formulate per mutata corrispettività discendente dall’aumento dei muri a gravità e di quelli di cemento armato nonché per il notevole aumento degli scavi di roccia.

È infondata anche la censura relativa al rigetto della riserva n. 25 perché è consentito il richiamo della motivazione non già di altro provvedimento bensì di specifico punto della stessa sentenza purché, come nella specie, non sussistano dubbi sulle “ragioni” della decisione.

Con il secondo motivo del ricorso incidentale, si denunzia la violazione dell’art. 20 del reg. n. 350 del 1895 nonché degli artt. 91 e 103 dello stesso regolamento perché i lavori eseguiti erroneamente sono stati ritenuti “migliorie” o addizioni non autorizzate dal direttore dei lavori.

Con il terzo, si censura la violazione e la mancata applicazione degli artt. 118, 210, 213 c.p.c., dell’art. 116, secondo comma, dell’art. 38, lett. d), e dell’art. 51 del reg. n. 350 del 1995; degli artt. 2727 e 2729 c.c., dell’art. 61 c.p.c., atteso che, sussistendo l’obbligo di tenere i cosiddetti “rapportini” per tutta la durata del lavoro ed essendone stata ordinata la esibizione per la totalità, l’inadempimento dell’A.N.A.S. (concretandosi nella loro parziale esibizione) ha, illegittimamente, danneggiato l’appaltatore, in relazione alle richieste di pagamento per l’attività collegata agli smottamenti negati dalla sentenza impugnata. Che, erroneamente, avrebbe trascurato di attingere nella consulenza gli elementi probatori necessari.

Con il quarto motivo, si censura la violazione dell’art. 2697, secondo comma, c.c. e dell’art. 115 c.p.c.; dell’art. 132, n. 4, c.p.c., dell’ art. 118 disp. att. c.p.c. e dell’art. 360, n. 5, c.p.c.; degli artt. 1226 e 2729 c.c.; degli artt. 1218 e 1223 c.c. Si sostiene la illegittimità della riduzione del rimborso dei costi sostenuti per la costruzione di strade di servizio, riduzione operata con riferimento alla equità ed a presunzioni; del limitato computo delle spese generali e del rigetto sia della domanda concernente la perdita degli utili sia della domanda di rimborso degli interessi passivi per il prolungamento della cauzione; del rigetto della domanda di risarcimento del danno sofferto per i rincari dei costi di produzione ascrivibile, comunque, al committente: al riguardo, si assume la illegittimità della decurtazione della revisione per effetto della cosiddetta “alea revisionale”, malamente calcolata.

Con il quinto motivo, infine, si denunzia la violazione degli artt. 1218 c.c. e, in subordine, degli artt. 1206 e 1207 c.c. perché l’operato dell’appaltatore nel disporre il collaudo e nell’esaurirlo celermente costituisce adempimento e/o collaborazione dovuta. E, sul punto, assumono le ricorrenti incidentali, è sempre stato riconosciuto il sindacato del giudice; erroneamente, inoltre, è stato affermato che gli immobilizzi, fino all’esaurimento del collaudo, sono una conseguenza connaturale ad esso e che è legittima la dichiarazione di decadenza per mancata iscrizione a “riserva” del ritardo nel compimento del collaudo e dei danni relativi. Sul punto, i ricorrenti incidentali rilevano che con il collaudo l’onere delle riserve ordinarie è cessato; che le “riserve” specifiche apponibili al certificato di collaudo sono limitate alle operazioni di collaudo ed ai relativi risultati; che alla mancata apposizione della “riserva” consegue la sola accettazione del certificato e delle risultanze del collaudo. Infine, gli interessi ex art. 36 del capitolato generale non devono essere oggetto di riserva.

Il secondo, terzo, quarto e quinto motivo che, per essere sostanzialmente connessi, possono essere esaminati congiuntamente, vanno respinti.

Essi involgono interpretazioni proprie del giudice del merito (2° motivo) laddove concernono sia la individuazione della natura dei lavori eseguiti; sia l’apprezzamento delle prove acquisite e la loro congruità (3° motivo); sia, infine, la valutazione delle utilità prodotte da specifiche opere (4° motivo).

Va, comunque, rilevato che: la riduzione della entità del rimborso delle spese generali (4° motivo) in quanto determinata da obiettive difficoltà di imputazione; il rigetto della domanda relativa alla perdita degli utili; quello della domanda di rimborso degli interessi passivi nonché quello della richiesta di danni determinati dai rincari dei costi di produzione (per i quali la Corte di merito ha sottolineato carenze probatorie afferenti all’esistenza dei rincari non coperti dalla revisione dei prezzi) finiscono per involgere valutazioni ed interpretazioni sottratte al giudice di legittimità; e la medesima considerazione deve formulare questa Corte in riferimento all’esame dell’operato dell’appaltatore in tutte le attività di attuazione del collaudo (5° motivo). Al riguardo, la sentenza impugnata ha legittimamente sottolineato che la posizione dell’appaltatore è tutelata in via giudiziale senza necessità di messe in mora (Cass. n. 6559/1988) e, dunque, la ritardata approvazione del collaudo non genera alcun diritto al risarcimento, in favore dell’appaltatore che, con l’ordinaria diligenza, ben può evitare ogni pregiudizio. In definitiva, la Corte di merito, ascrivendo all’appaltatore il danno di cui è stato chiesto il risarcimento, ha prospettato in termini diversi la questione sollevata dai ricorrenti incidentali.

Sull’affermata necessità della “riserva” all’atto del collaudo, esclusa dall’impresa – secondo cui le “riserve” specifiche opponibili nel certificato di collaudo concernono le relative operazioni ed i risultati connessi – deve rilevarsi che la sentenza impugnata ritenendo, in mancanza di ulteriori specificazioni, che l’onere della “riserva” investe tutte le domande di ulteriori compensi, indennizzi, risarcimenti richiesti in dipendenza dello svolgimento del collaudo, compie affermazione legittima. Il certificato di collaudo, in quanto formato al momento della verifica dell’opera dell’appaltatore, segna il momento più idoneo per la registrazione delle sue pretese e, tra esse, quelle fondate sui ritardi del committente in relazione al termine entro cui le operazioni di collaudo hanno avuto inizio o conclusione.

Con il sesto motivo, si lamenta violazione dell’art. 23 del reg. e dell’art. 42 del capitolato generale delle O.P., in relazione all’art. 54, ultimo comma, degli artt. 64 e 109 del reg. citato; omesso esame della formale richiesta dell’impresa in tema di rivalutazione ed interessi con errori di decorrenze e di valori.

Per i debiti pecuniari, illegittimamente la sentenza avrebbe escluso ogni decorrenza anteriore alla domanda d’arbitrato e negato alla richiesta di immediata soluzione delle riserve il significato di costituzione in mora. Assumono i ricorrenti incidentali che i crediti pecuniari dell’impresa concretano una obbligazione “portable” e non sono soggetti a costituzione in mora; in subordine, avrebbe dovuto tenersi conto del fatto che la dipendenza del pagamento delle “riserve” da certe attività dell’Amministrazione, non comportava affatto l’esonero dalla mora ma solo che la costituzione – se necessaria – avrebbe dovuto essere compiuta in conformità di quella disciplina. Sicché la richiesta di soddisfazione del credito – come nella specie – esonerava l’appaltatore da ogni altra attività per la messa in mora.

Quanto al debito di valore, la sentenza avrebbe errato nel determinare il tempo del danno e violato il concetto e le regole in tema di danno continuato; e l’art. 1223 c.c.

Ed invero, mentre il danno da prolungamento colpevole si sarebbe prodotto sin dall’inizio di quel prolungamento, la sentenza impugnata avrebbe fatto riferimento al 23 luglio 1974, momento finale, trascurando tutte le frazioni di danno prodotte nell’intero periodo di illecito. E, tuttavia, anche nella costruzione effettuata dalla sentenza, i ricorrenti incidentali hanno individuato – denunziandoli – errori decisivi. Quanto ai coefficienti di svalutazione, dopo aver dichiarato di voler applicare quelli Istat, la sentenza impugnata se ne sarebbe, in pratica, discostata, in difetto.

Il che evidenzierebbe, secondo i ricorrenti incidentali, una grave contraddizione censurabile sotto il profilo della violazione di legge oltre che, subordinatamente, della omessa, insufficiente motivazione, atteso che se un parametro è assunto come regola per il computo del tempo, esso si integra con la norma ( art. 1223 c.c.).

Il motivo non può essere accolto.

In ordine agli interessi relativi ai debiti pecuniari, legittimamente, la Corte di merito ne ha fissato la decorrenza con riferimento alla data della domanda introduttiva del giudizio arbitrale non essendo identificabile alcun altro momento idoneo, tenuto conto che la formulazione delle “riserve” – destinate ad evitare la decadenza dell’appaltatore in riferimento a domande di ulteriori compensi o indennizzi nel tempo relativo alle partite annotate nel registro di contabilità – non costituiscono intimazioni di pagamento all’Amministrazione committente. E poiché proprio la formulazione della “riserva” evidenzia la necessità della risoluzione della specifica controversia, la data della domanda introduttiva del giudizio arbitrale – che l’appaltatore ben può proporre rappresenta il momento idoneo (e logico) da cui far decorrere gli interessi.

In sostanza, la proposizione della “riserva” non consente all’Amministrazione il pagamento del debito ma impone il procedimento ex art. 23 del R.D. n. 350 del 1895, finalizzato alla risoluzione di contrasti irrisolti in corso d’opera e, successivamente, il giudizio arbitrale. Di conseguenza, non è fondato il riferimento alla costituzione in mora ed alla relativa disciplina.

Quanto ai debiti di valore, la sentenza ha legittimamente stabilito l’entità della rivalutazione annua, in rapporto all’aumento del costo della vita, e la determinazione della data di riferimento che è stata indicata in quella di ultimazione dei lavori, in carenza di altri elementi obiettivi di decorrenza. Del che, i ricorrenti incidentali non possono dolersi con fondamento, avuto riguardo ai reali dati utilizzabili dalla Corte d’Appello.

La genericità della censura formulata a proposito dei coefficienti di svalutazione applicati nella sentenza impugnata – coefficienti di cui si assume ma non si indica la erroneità – esime questa Corte da ogni altro esame sul punto.

Ricorrono, per la complessità delle questioni trattate, giusti motivi per la compensazione delle spese.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi.
Compensa le spese.
Camera di Consiglio della prima sezione civile della Corte Suprema di Cassazione.
Così deciso in Roma il 28 settembre 1990.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 20 NOVEMBRE 1990.