Svolgimento del processo

Con ricorso presentato il 6 dicembre 1969 al Pretore di Barcellona, Pozzo di Sotto, Genovese Gaetano, premesso di essere proprietario di alcuni appartamenti siti nello stabile condominiale di via Roma del Comune di Barcellona, dei quali varie vedute si aprivano verso un cortile interno di proprietà esclusiva di Coppolini Carmelo, assunse che in detto cortile era stata installata una impalcatura per l’intera altezza del fabbricato ed era in corso la costruzione di una vaschetta e l’infissione nel muro perimetrale dell’edificio, di due tubazioni di “rilevante diametro”, una delle quali destinata a canna fumaria di un forno ubicato in un locale del piano terreno di proprietà del Coppolino.

Tanto premesso e sostenendo che le opere di cui sopra violavano i diritti di esso istante e di altri condomini, in particolare relativamente alle vedute prospicienti il cortile ed alle distanze legali prescritte dalle leggi antisismiche e dal regolamento edilizio, propose denunzia di nuova opera chiedendo, previa sospensione dei lavori, la rimozione delle opere ed il risarcimento dei danni.

Disposta la sospensione dei lavori, il Coppolino, costituitosi in giudizio, chiese il rigetto della domanda, deducendo che le opere eseguite costituivano utilizzazione della cosa comune nei limiti previsti dall’art. 1102 e che norme sulle distanze legali non erano applicabili ai rapporti condominiali.

Ritenuta dal Pretore l’incompetenza per valore e riassunta la causa dinanzi al Tribunale di Messina, l’adito giudice rigettò la domanda dell’attore con sentenza del 30 giugno 1975. Proposto appello dal soccombente, nel corso del giudizio intervenne Scardino Rita, acquirente di alcuni immobili del Coppolino, aderendo totalmente alle eccezioni e difese, di quest’ultimo.

Disposta ispezione dei luoghi con l’assistenza di consulente tecnico, la Corte di appello di Messina con sentenza del 30 novembre 1981, rigettò l’appello confermando integralmente la sentenza di primo grado.

Dopo aver premesso che, nella specie, il punto controverso riguardava i limiti di utilizzabilità della cosa comune da parte del singolo condomino e l’applicabilità delle norme sulle distanze legali al rapporto tra le parti di proprietà condominiale e quelle di proprietà esclusiva nell’ambito del condominio, e, dato atto dell’esistenza, di una servitù di veduta a favore delle unità immobiliari del Genovese sul cortile del Coppolino (servitù che peraltro non appariva violata) osservò, in relazione ai primi due motivi di appello, che esattamente i primi giudici avevano ritenuto lecito l’appoggio delle canne fumarie al muro comune, e l’insussistenza di violazione della servitù di veduta.

Invero, la diretta osservazione dello stato dei luoghi durante l’ispezione giudiziale, la documentazione fotografica ed il risultato delle indagini del consulente tecnico consentivano di ritenere che le canne fumarie aventi rispettivamente un diametro di centimetri 25 e 20, fossero state collocate nel luogo più idoneo del muro perimetrale, le cui destinazione ed uso da parte degli altri condomini non erano state alterate o menomate e che le vedute laterali dalle finestre del Genovese, non avessero subite limitazioni, “essendo rimasto invariato l’angolo ottico”. Doveva altresì escludersi la dedotta violazione degli artt. 45 e 54 del Regolamento edilizio. Osservò, infine, in ordine al terzo motivo di appello – con il quale il Genovese aveva lamentato che l’apposizione delle canne fumarie aveva reso più difficoltoso la manutenzione o l’eventuale riparazione della tubazione condominiale di scarico delle acque piovane – che effettivamente la sostituzione totale o parziale di detta conduttura, era stata resa più difficile e costosa, sicché ove tale ipotesi dovesse verificarsi “il maggior aggravio di spese” dovrebbe essere posto a carico dell’appellato.

Avverso questa sentenza il Genovese ricorre per cassazione sulla base di tre motivi. Gli intimati, resistono con controricorso, illustrato da memoria.

Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente denunzia “violazione e falsa applicazione degli artt. 906, 907 e 1102 C.C. in relazione all’art. 360 n. 3 e 5 C.P.C.” e deduce che la corte di appello, nel confermare il rigetto della domanda in base al rilievo “che le norme sulle distanze erano nella specie incompatibili col particolare bene condominiale sul quale sono state infisse le tubazioni e che l’appoggio di canne fumarie sul muro comune ad opera di un condomino è lecito in quanto non costituisce innovazione ma semplice modalità d’uso” – ha errato sotto un duplice profilo.

Non ha considerato infatti, sotto il primo profilo che, a favore delle frazioni dell’edificio di proprietà esclusiva di esso Genovese ed a carico del cortile o pozzo di luce di proprietà esclusiva del Coppolino (trasferito in corso di causa alla Scardino) esisteva una servitù di veduta a sensi dell’art. 907 C.C. (della quale la sentenza denunziata aveva pur dato atto senza trarne le ovvie conseguenze) indubbiamente violata come veduta laterale (le tubazioni distavano 41 centimetri da una finestra e poco più da altra finestra e dal balcone) e che pertanto non era invocabile la pretesa incompatibilità delle norme sulle distanze legali col particolare bene condominiale.

Non ha considerato poi che l’apposizione delle tubazioni era illegittima anche in relazione all’art. 1102 C.C.- Se è vero infatti che tale norma prevede espressamente che unico limite all’uso della cosa comune da parte del condomino soltanto il divieto di alterarne la destinazione e d’impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso non vi è dubbio che la stessa vieta anche implicitamente di violare “i diritti subiettivi esclusivi degli altri proprietari”. In definitiva “l’uso concesso al condomino dall’art. 1102 non può essere in spregio a quanto appartiene all’altro condomino, proprietario singolo, il quale evidentemente deve essere salvaguardato per quanto riguarda distanza, salubrità, sicurezza …… etc.”. L’art. 1102 “deve pertanto essere integrato con gli artt. 906, 907 e 890 C.C.”.

Le censure sopra riassunte sono infondate, salvo per la parte con la quale è stata criticata l’affermazione relativa “alla inapplicabilità delle norme sulle distanze legali”. Tuttavia, poiché il dispositivo di rigetto dell’appello è conforme a diritto, questa Corte deve limitarsi a correggere parzialmente la motivazione.

Come accennato in narrativa, la sentenza impugnata è fondata su due argomenti: il primo consistito nell’apprezzamento “di esattezza dell’applicazione da parte del tribunale dei principi che regolano la fattispecie o segnatamente la liceità dell’appoggio di canne fumarie sul muro comune ad opera di un condomino, in quanto non costituisce innovazione, ma semplice modalità di uso, come pure la inapplicabilità dei rapporti legali ai rapporti condominiali”; il secondo consistito nell’apprezzamento di fatto, espresso in esito a valutazione dei risultati dell’ispezione dei luoghi eseguita con l’assistenza del consulente tecnico, di “inesistenza di limitazione delle vedute laterali dalle finestre del Genovese, dalle quali niente è variato in termini di angolo ottico”.

Orbene il primo argomento è giuridicamente errato, in quanto nella specie era stata dedotta la violazione di una servitù di veduta costituita mediante convenzione (come dato atto dagli stessi giudici di merito) rispettivamente a favore e a carico di porzioni di proprietà esclusiva, e cioé dell’appartamento del Genovese e del cortile del Coppolino, e non soltanto l’uso illecito (appoggio delle canne fumarie) del muro perimetrale dell’edificio condominiale.

La Corte di appello non ha considerato cioé che, essendo il rapporto tra le due unità immobiliari regolato dal titolo, non sarebbe stato applicabile il principio della incompatibilità relativa delle norme sulle distanze legali tra porzioni di proprietà esclusiva e parti comuni dell’edificio condominiale.

L’errore di diritto, in cui è incorsa la corte di merito non ha però influito sulla esattezza della decisione, in quanto la stessa corte ha accertato con apprezzamento insindacabile (e comunque non investito da specifica censura) che l’apposizione delle due tubazioni, stante il punto in cui erano state collocate e le modalità di collocazione, non aveva in alcun modo pregiudicato la veduta laterale dalle finestre del Genovese, “essendo rimasto invariato l’angolo ottico”.

In sostanza essendo stata accertata l’insussistenza di violazione della servitù di veduta, si appalesa esatto il rigetto della domanda proposta sulla premessa della violazione stessa.

Sono infondate le censure riguardanti la ritenuta liceità, sotto il profilo del rispetto dei limiti previsti dall’art. 1102 C.C., per l’uso della cosa comune, dell’appoggio delle tubazioni al muro perimetrale dell’edificio.

Escluso infatti – alla stregua di quanto in precedenza osservato in relazione dell’insussistenza di menomazione delle vedute esercitate dal ricorrente – che l’apposizione delle tubazioni abbia pregiudicato il diritto del ricorrente stesso sulla porzione dell’immobile di sua esclusiva proprietà, si osserva che non è stata formulata alcuna censura specifica (non potendo esser presa in considerazione in sede di legittimità la mera deduzione “di apoditticità delle affermazioni della corte di appello”) avverso l’apprezzamento dei giudici di appello (confermativo di quello espresso dai giudici di primo grado) secondo cui “le tubazioni stesse, – essendo state collocate nel punto più idoneo consentito dallo stato dei luoghi – non avevano comportato alcuna alterazione della destinazione del muro comune né pregiudicato la possibilità di utilizzazione da parte degli altri condomini, ivi compreso il Genovese”.

Con il secondo motivo il ricorrente denunzia “violazione e falsa applicazione dell’art. 889 C.P.C. in relazione all’art. 360 n. 3 e 5 C.P.C.” e deduce che “i giudici di merito hanno completamente obliterato e trascurato di esaminare quanto emerso dagli accertamenti del consulente tecnico d’ufficio e cioé che una delle tubazioni era destinata a canna fumaria della combustione di un forno e l’altra a tubo per la estrazione dei fumi e degli odori di una friggitoria” e che “in casi del genere i tubi sono equiparati, come ritenuto dalla giurisprudenza, a quelli di gas, ai fini dell’applicabilità della distanza di un metro prevista dall’art. 889 2° comma”.

Il motivo sopra riassunto – a parte la considerazione che l’art. 889 disciplina esclusivamente la distanza dei tubi dal confine del fondo contiguo e non già delle vedute – è inammissibile, in quanto introduce (come si evince dalla parte narrativa della sentenza denunziata, la cui esattezza nella esposizione delle istanze e deduzioni delle parti nel corso del giudizio non è stata contestata dal ricorrente) in questa sede di legittimità una questione mai prospettata nel giudizio di merito.

Con il terzo motivo il ricorrente denunzia la “violazione e falsa applicazione degli artt. 1064 e 1067 C.C. in relazione all’art. 360 n. 3 e 5 C.P.C.” e deduce che la corte di appello – poiché esso Genovese aveva dedotto che le due tubazioni “ricoprivano il canale di scarico delle acque piovane provenienti dal lastrico solare dell’edificio condominiale nonché il montante di scarico, cosiddetto buttaio, dei singoli appartamenti, entrambi scaricantisi nel cortile del Coppolino” – non avrebbe dovuto limitarsi ad affermare che la sovrapposizione dei tubi avrebbe comportato soltanto un aggravio di spese (da porre a carico del Coppolino) nell’ipotesi di riparazione o sostituzione delle citate condotte pluviali e buttaio.

Non ha considerato infatti e che il manufatto del Coppolino aveva “reso più incomodo l’esercizio della servitù di scarico gravante sul proprio cortile ed a favore dell’edificio condominiale e dei singoli appartamenti” tanto più che l’esercizio della servitù comprendeva anche, a sensi dell’art. 1064 “il diritto del condominio o del condomino, di controllare l’efficienza delle tubazioni, di mantenere le stesse e, se del caso, sostituirle in tutto o in parte”.

Il motivo è infondato.

Va premesso che spetta al giudice di merito stabilire se una determinata opera posta in essere dal titolare del fondo servente sia o meno atta a diminuire l’esercizio della servitù o a renderlo più scomodo, a sensi dell’art. 1067 2° comma, sicché il relativo apprezzamento, se congruamente e logicamente motivato, è insindacabile in sede di legittimità. Or nella specie, i giudici di appello, richiamando le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio (la cui esattezza sotto il profilo tecnico non è stata contestata nel giudizio di merito e nemmeno in questa sede dall’odierno ricorrente) hanno rilevato che “l’impianto delle due canne fumarie non ha menomato la condotta pluviale comune” ma “rendendo più ardua tecnicamente (sotto il profilo della accessibilità) l’eventuale riparazione della condotta stessa, comporta soltanto un aggravio della spesa di separazione, da porsi a carico della titolare del fondo servente”.

Esclusa quindi (data l’insindacabilità del giudizio di fatto) una menomazione dell’esercizio della servitù (riferito al suo contenuto principale, cioé allo scarico delle acque pluviali e del buttaio), non può essere configurabile una maggiore “scomodità dell’esercizio con riferimento all’adminiculum (vale a dire alla possibilità di riparazione o sostituzione delle opere (cosiddette pluviali e di buttaio) poste sul fondo dominante e attraverso le quali si esercita la servitù.

Deve ritenersi infatti che la “scomodità dell’esercizio” – specialmente se riferita all’adminiculum e quando quest’ultimo non risulti dal titolo ma sia desumibile dalla modalità di esercizio della servitù – debba essere, ai fini della operatività del divieto posto dal 2° comma dell’art. 1067, apprezzabile e permanente. Or siffatte caratteristiche non sono configurabili, allorché – come nella specie – la scomodità si verifichi eventualmente e saltuariamente e si risolva sostanzialmente in aggravio di spesa, tanto più quando l’aggravio stesso possa essere posto a carico del titolare del fondo servente.

Rigettato il ricorso alla stregua delle suesposte considerazioni si reputa che sussistano giusti motivi per la totale compensazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso proposto da Genovese Gaetano avverso la sentenza della Corte di Appello di Messina del 30 novembre 1981, nei confronti di Coppolino Carmelo e Scardino Rita.
Compensa totalmente tra le parti costituite le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, l’8 febbraio 1985.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 5 MARZO 1986