Svolgimento del processo

Con ricorso del 29 settembre 1969, al Pretore di Bologna in funzione di giudice del lavoro, Pietro Vigile esponeva quanto segue:

il 27 marzo 1987 egli era stato assunto dall’Ente Ferrovie dello Stato come manovale in prova ed aveva cominciato a lavorare presso lo scalo Merci di Bologna San Donato, dove gli erano state assegnate le mansioni superiori di manovratore; dopo alcuni periodi di malattia, nell’aprile del 1988, i medici dell’ente lo avevano posto d’ufficio in malattia e il 4 maggio 1988, dopo una visita collegiale, era stato giudicato fisicamente inidoneo alle mansioni di manovale e posto in quiescenza ai sensi dell’art. 7 del contratto collettivo nazionale di lavoro;

il 5 maggio 1988 aveva presentato all’Ufficio Organizzazione di Bologna istanza di visita medica superiore di revisione;

con lettera del 14 maggio 1988 il suddetto ufficio gli aveva comunicato il recesso dal rapporto di lavoro in prova, con decorrenza dalla data della visita collegiale del 4 maggio 1988;

il servizio sanitario competente per la visita di revisione lo aveva visitato il 28 novembre 1988, ed il 2 maggio 1989 e all’esito lo aveva dichiarato idoneo alle mansioni di manovale;

egli era stato, quindi, riammesso in servizio ed aveva ripreso a lavorare presso lo Scalo Merci di Bologna S. Donato il 7 luglio 1989, senza che il datore di lavoro provvedesse a corrispondergli le retribuzioni per il periodo di quattordici mesi, durante i quali il rapporto di lavoro era stato illegittimamente sospeso;

il giorno 11 luglio 1989 era stato arrestato in esecuzione di ordine di cattura del Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, in quanto sospettato di aver violato le norme sul divieto di spaccio di sostanze stupefacenti;

il 29 luglio 1989 l’Ente gli aveva fatto notificare la deliberazione del 20 luglio 1989, n. 5, con la quale il Direttore del Compartimento di Bologna aveva esercitato il recesso dal rapporto di lavoro per esito negativo del periodo di prova e per non avere effettuato, nel corso dello stesso, né i trecento né i quarantacinque giorni di servizio effettivi previsti, rispettivamente, dall’art. 17 dello stato giuridico del personale F.S. e dell’art. 7 del C.C.N.L. 1988;

con raccomandata a.r. del 14 settembre 1989 aveva impugnato il licenziamento;

la mancata erogazione della retribuzione per il periodo 5 maggio 1988-6 luglio 1989 era illegittima, in quanto l’interruzione del rapporto di lavoro a seguito di giudizio di inidoneità era imputabile a fatto dell’Ente;

il licenziamento del 20 luglio 1989 era illegittimo, in quanto nel computo del periodo di prova non si era tenuto conto del fatto che i vari periodi di malattia avevano comportato la sospensione del termine di decorrenza del periodo stesso;

se poi l’Ente aveva considerato concluso il periodo di prova dopo tre mesi consecutivi a decorrere dal 5 febbraio 1988, il provvedimento avrebbe dovuto ritenersi del tutto inefficace, in quanto intimato ben oltre il termine perentorio coincidente con la fine del periodo di prova, decorso il quale egli, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 7 del C.C.N.L., avrebbe dovuto essere confermato in servizio;

la custodia cautelare subita da esso Vigile non avrebbe potuto costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento in forza del disposto dell’art. 68 del C.C.N.L.

Tanto premesso, il ricorrente chiedeva che si dichiarasse la nullità o l’annullamento del licenziamento del 20 luglio 1989; che si ordinasse la reintegra nel posto di lavoro; e, infine, che si condannasse l’ente a pagargli le retribuzioni perdute, con interessi e rivalutazione, o, in subordine, l’indennità di malattia per il periodo 5 maggio 1988-6 luglio 1989.

Il Pretore, con sentenza dell’8 febbraio 1990, accoglieva tutte le domande principali e per l’effetto condannava l’Ente convenuto a risarcirgli il danno in misura pari a cinque mensilità della retribuzione.

Avverso tale sentenza l’Ente Ferrovie dello Stato proponeva appello al Tribunale, Sez. Lavoro di Bologna; l’appellato Vigile resisteva all’impugnazione.

Il Tribunale, con sentenza in data 10 dicembre 1992, in parziale riforma della sentenza impugnata, rigettava le domande di declaratoria d’illegittimità del licenziamento intimato il 20-29 luglio 1989, di reintegra nel posto di lavoro e di risarcimento del danno; confermava nel resto tale sentenza.

Per quanto ancora interessa nel presente giudizio di legittimità, le pronuncia del Giudice d’appello è fondata sulle seguenti considerazioni.

Con riferimento all’art. 17 della legge 26 marzo 1958, n. 425 (stato giuridico del personale delle F.S.), all’art. 7 del contratto collettivo entrato in vigore il 5 febbraio 1988 e alla circolare emanata dall’Ente il 24 maggio 1988 per regolare la situazione di coloro i quali, alla data di entrata in vigore del suddetto contratto collettivo, non avevano ancora terminato il periodo di prova secondo le regole dettate dall’art. 17 dello stato giuridico, osserva il Tribunale che con la comunicazione di recesso del 14 maggio 1988 l’Ente Ferrovie dello Stato fece riferimento all’inidoneità fisica alle mansioni di manovale, accertata dall’Ufficio Sanitario Compartimentale di Bologna il 4 maggio 1988 a carico del Vigile, e prevista dall’art. 7 del C.C.N.L., che tale recesso sembrava legittimare.

L’accertamento dell’inidoneità, tuttavia, non poteva considerarsi definitivo, tenuto conto del disposto dell’art. 73 del C.C.N.L., che subordina il recesso all’esito di una visita di revisione e stabilisce che durante gli accertamenti sanitari il dipendente è considerato assente per malattia; art. 73 applicabile alla fattispecie in esame.

Infatti, l’applicabilità dell’art. 21, limitatamente all’ipotesi dell’inabilità fisica derivante da causa di servizio, legittima la risoluzione del rapporto nel caso d’inabilità derivante da altra causa (come, ad esempio, la malattia comune), ma non esclude l’obbligo dell’espletamento dell’intera procedura prevista dall’art. 73.

Il licenziamento intimato il 14 maggio 1988 era, dunque, illegittimo, ma non avrebbe potuto determinare la conversione del rapporto in prova in rapporto stabile, come erroneamente ritenuto dal Pretore.

Le uniche conseguenze, infatti, ricollegabili all’illegittimità del recesso dal rapporto in prova sono l’obbligo, a carico del datore, del risarcimento del danno, per equivalente, o di far proseguire al dipendente la prova.

Poiché, inoltre, l’Ente riammise il Vigile al lavoro, dopo l’esito della visita di revisione, lo stesso, a tale data, 7 luglio 1989, doveva considerarsi ancora in prova, ed il periodo di assenza dal lavoro, dal 4 maggio 1988 al 6 luglio 1989, doveva considerarsi trascorso in malattia, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 73 del C.C.N.L.

Tale malattia sospendeva la prova in forza del disposto dell’art. 7, comma 2, del C.C.N.L., il quale dispone che il periodo di prova resta sospeso nell’ipotesi ivi specificamente individuata e “…in ogni altro caso stabilito per legge”: in tale locuzione deve comprendersi anche la malattia comune, secondo l’insegnamento della Suprema Corte.

A tale conclusione non era di ostacolo il disposto dell’art. 10 della legge n. 604 del 1966, il quale stabilisce che, decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto, trovano applicazione le norme limitative dei licenziamenti.

Tale norma, infatti, data la perdurante vigenza delle disposizioni di legge e di regolamento esistenti al momento dell’entrata in vigore della legge n. 210 del 1985 ed applicabili all’Azienda autonoma delle F.S., sempre che non espressamente o tacitamente abrogate, sino alla stipulazione dei previsti contratti collettivi, non avrebbe potuto aver vigore se non dal 5 febbraio 1988, data, appunto, dell’entrata in vigore del primo contratto collettivo per il personale dell’Ente, cosicché da tale data devono essere calcolati i sei mesi di cui all’art. 10: tale periodo, peraltro, deve essere computato tenendo conto delle sospensioni dovute alla malattia, per cui esso non era ancora decorso quando, il 29 luglio 1989, l’Ente deliberò il recesso per esito negativo del periodo di prova.

Ne consegue l’applicabilità del principio della libera recedibilità dal rapporto.

Quanto all’asserita illegittimità del licenziamento per non essere stato consentito al Vigile di maturare i 45 giorni di servizio effettivo previsti dal C.C.N.L., va rilevato che essa, anche a volerla ritenere sussistente, sarebbe irrilevante, atteso che l’appellato, rientrato in servizio il 7 luglio 1989, fu colpito, il giorno 11 luglio 1989, da provvedimento restrittivo della libertà personale emesso dal Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria per spaccio di stupefacenti e ne fu disposta la rimessione in libertà il 16 dicembre 1989.

Ma a quella data, essendo scaduto il termine di tre mesi previsto per la prova, non prorogabile per cause di sospensione diverse da quelle previste dalla legge (e tra queste certamente non rientra lo stato di detenzione), egli non avrebbe potuto comunque maturare il prescritto periodo di lavoro effettivo.

Ma anche ammesso che il licenziamento deliberato il 29 luglio 1989 fosse illegittimo, per essere stato il Vigile adibito a svolgere mansioni superiori di manovratore, e per non avere quindi la prova riguardato le mansioni per le quali era stato assunto, ciò non avrebbe potuto comportare l’accoglimento delle domande di reintegra e di risarcimento del danno, posto che, come già osservato, l’illegittimità del licenziamento del lavoratore in prova comporta soltanto il diritto dello stesso di terminare la prova o di ottenere il pagamento della retribuzione per i giorni residui, domande che non sono state proposte.

Avverso tale sentenza ricorre per Cassazione Pietro Vigile, deducendo cinque motivi. Resiste con controricorso la S.p.A. Ferrovie dello Stato.

Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione

1 – Con il primo motivo di ricorso il Vigile, denunciando violazione dell’art. 112 c.p.c. per pronunzia ultrapetitum, oltre che insufficienza di motivazione, deduce che: il Pretore aveva adottato la sua decisione richiamandosi al principio in base al quale il mancato esperimento della prova, se determinato da fatto del datore di lavoro, non può impedire il “consolidamento” del rapporto; l’Avvocatura dello Stato non mosse nessuna censura a tale parte della sentenza appellata (v. secondo motivo), che basta da sola a sorreggere la decisione di primo grado e che è totalmente ignorata dall’atto d’appello.

2 – Con il secondo motivo, denunziando falsa applicazione dell’art. 2096 c.c., nonché violazione degli artt. 1 e 10 della legge 15 luglio 1966, n. 604, assume che: l’assenza forzata del ricorrente, dipendente dal rifiuto dell’ente di accettare la sua prestazione, si protrasse dal 5 maggio 1988 al 7 luglio 1989, e cioè per ben più di sei mesi; com’è stato accertato dal Tribunale, tale periodo era tutto successivo al 5 febbraio 1988, cioè, alla data in cui entro in vigore il primo contratto collettivo stipulato per i dipendenti dell’Ente, che riduceva il periodo di prova a tre mesi, con almeno quarantacinque giorni di servizio effettivo e rendeva operante l’art. 10 della legge n. 604 del 1966; di conseguenza, il rapporto si era consolidato, come se la prestazione fosse stata resa, non essendo possibile attribuire giuridica rilevanza al rifiuto del datore di lavoro di ricevere la prestazione.

3 – Con il terzo motivo denunzia violazione dell’art. 2110 c.c., in relazione all’art. 2096 c.c. ed all’art. 10 della legge 15 luglio 1966, n. 604.

Deduce al riguardo che la tutela prevista dall’art. 2110 c.c. fa sì che la malattia non sospenda la decorrenza del periodo di sei mesi al quale fa riferimento l’art. 10 della legge 15 luglio 1966, n. 604, con la conseguenza che tutto il lasso di tempo intercorso tra il 5 maggio 1988 ed il 7 luglio 1989 avrebbe dovuto essere ritenuto utile ai fini del consolidamento del rapporto.

4 – Con il quarto motivo, denunziando violazione dell’art. 1256 c.c. in relazione all’art. 2096 c.c., deduce che altra statuizione profondamente ingiusta è contenuta in quella parte della sentenza impugnata nella quale si afferma che il termine di tre mesi previsto per la prova non può essere prorogato per cause diverse da quelle previste dalla legge, tra le quali non sarebbe compreso lo stato di detenzione; il giudice d’appello ignora, in tal modo, due norme di legge fondamentali: la prima è costituita dall’art. 27, comma 2, Cost., che va correlato con l’art. 4 Cost.; la seconda è costituita dall’art. 1256 c.c.; la detenzione priva di giustificazione determina un’impossibilità temporanea di adempiere la prestazione, indipendentemente dalla volontà dell’obbligato, ed ha quindi la conseguenza prevista dalla prima parte del secondo comma dell’art. 1256 c.c.

5 – Con il quinto motivo, denunziando violazione dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori in relazione all’art. 2096 c.c., deduce che: il Tribunale ha ritenuto che il citato art. 18 non sia applicabile nel caso in cui il rapporto di lavoro si sia consolidato come rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ma non potrebbe venire in considerazione per consentire al lavoratore di completare la prova; la questione ha scarsa influenza ai fini della presente causa, perché il periodo di prova del Vigile era già decorso al momento del licenziamento, come già detto in precedenza.

1 a) Il ricorso non è fondato per le ragioni che seguono.

Quanto al primo motivo, il ricorrente puntualizza nella memoria ex art. 378 c.p.c. e nelle brevi osservazioni alle conclusioni del Procuratore generale (art. 379, comma 4, c.p.c.):

che l’ente F.S., con il secondo motivo dell’atto d’appello, non censurò i alcun modo quella parte della sentenza di primo grado, riportata alle pagine 7-9 dell’odierno ricorso, nella quale il Pretore aveva applicato il principio secondo cui il mancato esperimento che formava oggetto del patto di prova non poteva impedire il consolidamento del rapporto;

che tale atto di appello è, invece, interamente dedicato ad analizzare l’assetto in atto nel periodo transitorio di passaggio dalla disciplina legale a quella contrattuale: aspetto della causa del tutto irrilevante a seguito del “consolidamento” della statuizione di primo grado sul punto di cui sopra, di per sé sufficiente a sorreggere il dispositivo della sentenza del Pretore;

cosicché sussiste la denunciata violazione dell’art. 112 c.p.c.

È opportuno qui trascrivere la parte della sentenza di primo grado già richiamata dal ricorrente, del seguente tenore: “a questo punto basta sottolineare il semplice fatto per cui i competenti organi del convenuto, reiteratamente rivisitando il Vigile nella procedura da questi instaurata in via d’impugnazione dell’originario accertamento d’inidoneità, valutarono la totale infondatezza di quel primo giudizio (tanto che l’Ente lo riammise in servizio), basta sottolineare questo – si diceva – per dover necessariamente concludere che il recesso avvenne in carenza assoluta (documentata e riconosciuta dal suo autore) del presupposto (il solo) addotto; che l’esercizio del diritto protestativo fu viziato da elementi di totale illiceità esclusivamente riferibili alla sfera comportamentale del titolare; che il gravissimo inadempimento contrattuale, se pur impedì, all’altra parte, il concreto svolgimento della prestazione sì da portare a termine l’esperimento oggetto della prova, rese la circostanza giuridicamente insignificante, ai fini poi pretesi, nell’indiscutibile logica della violazione negoziale posta in essere dal creditore della prestazione stessa; che le conseguenze non possono che ricadere in capo a quest’ultimo, con l’automatico effetto del giuridico esaurimento (in fatto, colpevolmente impedito dal creditore) del pattuito esperimento”. In sostanza, il Pretore ritenne che il mancato esperimento de quo, in quanto determinato da fatto imputabile al datore di lavoro, non avrebbe potuto impedire il consolidamento del rapporto.

L’ente F.S., con il secondo motivo dell’atto d’appello, dedusse:

che non si poteva, comunque, “sostenere che il rapporto fosse ormai definitivo;

che la definitività del rapporto era affermazione contenuta in sentenza, ma era priva di fondamento, atteso che le risultanze istruttorie avevano dimostrato il contratio”.

Infatti, sempre secondo lo stesso atto, dalla consulenza tecnica d’ufficio espletata in primo grado risultava che il ricorrente aveva espletato dal 5 febbraio 1988 n. 34 giorni di servizio effettivo, di gran lunga inferiori a quelli previsti dall’art. 7 del contratto collettivo nazionale di lavoro (periodo di prova di tre mesi con almeno 45 giorni di effettivo servizio); né avrebbe potuto eccepirsi che il periodo utile al fine della prova doveva essere computato sommando le giornate di servizio effettuate antecedentemente all’entrata in vigore del contratto collettivo.

Osserva il Collegio che l’Ente appellante, contrariamente a quanto assume il Vigile, censurò la parte della sentenza di primo grado già trascritta, sostenendo l’infondatezza della statuizione, secondo cui il rapporto doveva reputarsi definitivo per fatto imputabile al datore di lavoro, deducendo a sostegno della doglianza specifiche ragioni, sia pure diverse da quelle esposte nella sentenza di secondo grado per giustificare l’accoglimento del secondo motivo del gravame in questione.

Va ricordato che l’atto d’appello, tanto nel rito ordinario, quanto nel rito del lavoro, introduce un procedimento d’impugnazione, nel quale i poteri cognitori del giudice, all’infuori delle questioni rilevabili d’ufficio, sono circoscritti dall’iniziativa della parte istante, spettando ad essa di attivarsi per la riforma delle decisioni sfavorevoli contenute nella sentenza di primo grado.

Pertanto, l’onere della specificazione dei motivi d’appello esige che la manifestazione volitiva dell’appellante, indirizzata ad ottenere la suddetta riforma, trovi un supporto argomentativo idoneo a contrastare la motivazione in proposito della sentenza impugnata, con la conseguenza che i motivi stessi devono essere più o meno articolati a secondo della maggiore o minore specificità, nel caso concreto, di quella motivazione (Sezione Unite 6 giugno 1987, n. 4991).

Alla stregua del principio così enunciato, si ritiene che il secondo motivo dell’appello dell’Ente non dovesse contenere una maggiore articolazione, considerato altresì che il Pretore (vedasi il passo riportato), reiterando alcune espressioni, non aveva detto più di quanto sintetizzato nella sentenza di secondo grado e dall’odierno ricorrente, e cioè che, per fatto imputabile al datore di lavoro, non si era compiuto il periodo di prova.

In particolare, nella motivazione della citata sentenza della Sezioni Unite si afferma che “è necessario però sottolineare che non possono essere poste sullo stesso piano, al fine di delimitare l’onere della specificità, le questioni inerenti all’accertamento del fatto, relativamente al quale opera il principio del giudicare iuxta alligata et probata, e quelle di mera interpretazione della norma giuridica, alla cui soluzione presiede il principio iura novit curia”.

Anche alla stregua di siffatta puntualizzazione, deve ritenersi che il Tribunale non incorse nell’errore di ultrapetizione, sovrapponendo la propria attività a quella di allegazione incombente alla parte, laddove, dopo avere affermato (pag. 9 e segg. della sentenza impugnata) che con il secondo motivo di gravame l’appellante sostenne che il Pretore aveva errato nell’affermare che il rapporto era ormai divenuto definitivo, premesse alcune considerazioni giuridiche sulla natura e lo scopo del patto di prova, sui criteri con i quali esso deve essere calcolato, sulla configurabilità dell’illegittimà del recesso nel periodo di prova e sulle sue conseguenze, pervenne alla conclusione, sul piano squisitamente giuridico, che non avrebbe potuto trovare applicazione alla fattispecie in esame l’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, comma primo, quanto alla reintegrazione specifica nel posto di lavoro, riferita a un contratto di lavoro definitivo.

In tal modo il Giudice d’appello, lungi dal violare l’art. 112 c.p.c., applicò rettamente il principio “iura novit curia” (art. 113 c.p.c.), disattendendo per implicito le argomentazioni di fatto addotte dall’appellante a sostegno del secondo motivo (periodo di prova di tre mesi con almeno 45 giorni di effettivo servizio, ecc., di cui si è fatto cenno).

Ciò con motivazione congrua e convincente, in quanto scevra da errori logici e giuridici.

Va pertanto, disattesa la censura fin qui esaminata.

2 b) Il secondo ed il terzo motivo del ricorso, in quanto intimamente connessi tra loro, vanno congiuntamente esaminati.

Il Tribunale, con apprezzamento di fatto neppure censurato in questa sede sotto il profilo del difetto di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.), afferma (pag. 18 e segg. della sentenza) che: l’Ente riammise il Vigile al lavoro dopo l’esito della visita di revisione, cosicché il medesimo, a tale data (7 luglio 1989), doveva considerarsi ancora in prova, e ritenersi trascorso in malattia, ai sensi dell’art. 73, ultimo comma, del contratto collettivo, il periodo di assenza dal lavoro dal 4 maggio 1988 al 6 luglio 1989; ad avviso del Collegio la malattia sospendeva la prova in forza del disposto dell’art. 7, comma 2, dello stesso contratto, il quale dispone che il periodo di prova resta sospeso nell’ipotesi ivi specificamente individuata e “…in ogni altro caso stabilito per legge”; in tale locuzione – argomenta altresì in diritto il Tribunale – deve comprendersi anche la malattia comune, secondo l’insegnamento che si trae da alcune decisioni di questa Corte Suprema, citate nella sentenza impugnata.

In particolare, quest’ultima statuizione non è certo erronea, atteso che a la malattia costituisce uno degli eventi previsti dall’art. 2110 c.c. come determinanti la sospensione della prestazione di lavoro, e non v’è alcuna ragione atta a giustificare l’inapplicabilità di essa anche al rapporto di lavoro (sotto il profilo giuridico, naturalmente, perché di fatto tale sospensione inevitabile) con assunzione in prova, considerato altresì che durante il relativo periodo il lavoratore non ha avuto la possibilità di dimostrare le sue capacità, e il datore di lavoro, dal suo canto, non è stato in grado di accertarle, in relazione alle finalità dello stesso; comunque, le parti non hanno potuto valutare, proprio a causa di tali eventi, la reciproca convenienza del nuovo rapporto di lavoro.

Infatti, si è deciso che in considerazione della funzione strumentale del periodo di prova, la durata di questo non può essere alterata comprendendovi anche le pause (per festività, permessi, malattie, ecc.), durante le quali, di fatto, il lavoratore non ha avuto modo di dare conto delle sue capacità (Cass. 20 agosto 1987, n. 6982).

La decorrenza del periodo di prova computato a mesi è sospeso in presenza di una malattia del lavoratore dipendente sopravvenuta nel corso della prova stessa (Cass. 1 dicembre 1992, n. 12814).

Superflua la citazione di altri precedenti conformi.

Non risulta peraltro censurata la statuizione della sentenza impugnata, secondo cui il disposto dell’art. 10 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (le norme della presente legge, fra cui quelle limitative dei licenziamenti, si applicano ai prestatori di lavoro assunti in prova dal momento in cui l’assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, quando sono decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro), data la perdurante vigenza delle disposizioni di legge e di regolamento esistenti al momento dell’entrata in vigore della legge 17 maggio 1985, n. 210 (istituzione dell’ente “Ferrovie dello Stato”), applicabili all’Azienda autonoma delle F.S., sino alla stipulazione dei previsti contratti collettivi, non avrebbe potuto aver vigore se non del 5 febbraio 1988, data, appunto, dell’entrata in vigore del primo contratto collettivo per il personale dell’Ente suddetto.

3 c) Passando all’esame del quarto motivo, il Collegio osserva che non è censurabile la sentenza impugnata laddove afferma che il termine di tre mesi previsto per la prova non può essere prorogato per cause diverse da quelle previste dalla legge, tra le quali non è compreso lo stato di carcerazione preventiva (pag. 20-21 della sentenza).

Non serve, a tal fine, ricordare l’art. 27, comma 2, della Costituzione, il quale stabilisce che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva, né l’art. 1256 c.c. relativo all’impossibilità sopravvenuta della prestazione (definitiva e temporanea) per una causa non imputabile al debitore né sembra necessario indagare, secondo quanto assume il ricorrente, se lo stato di detenzione fosse o no privo di giustificazione.

Infatti, deve considerarsi di natura eccezionale la disposizione di cui al comma primo dell’art. 2110 c.c., già citato, il quale statuisce che “in caso d’infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio, se la legge o le norme corporative non stabiliscono forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuto al prestatore di lavoro la retribuzione o una indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, dagli usi o secondo equità”.

Al riguardo la relazione al Re (n. 49) così, testualmente, si esprimeva: “Se poi dai casi previsti dell’infermità e del richiamo alle armi sia possibile risalire a un principio più generale, per cui, almeno negli stessi limiti di cui sopra, il rischio di sospensione, sempre che sia indipendente dalla volontà del prestatore di lavoro ed anche se derivi da forza maggiore, che paralizzi temporaneamente in tutto o in parte l’attività dell’impresa, debba essere sopportato, anche ai fini della decorrenza dei salari, dell’imprenditore, è questione che, sulla scorta dei principi desumibili dagli artt. 2110 e 2111 c.c., può essere opportunamente risoluta dalle norme corporative, con quella maggiore elasticità e adattabilità alle esigenze di ogni ramo di produzione, che sono ad esse caratteristiche”.

Tra l’altro, dell’articolato motivazione della sentenza impugnata non è dato cogliere l’indicazione di alcuna norma collettiva che possa far pensare, nella concreta fattispecie, ad una equiparazione, “quoad effectim”, della carcerazione preventiva agli altri eventi previsti dall’art. 2110 c.c.

In tempi recenti si è deciso che tale articolo regola detti eventi come cause impeditive della prestazione di lavoro, sottraendole alla disciplina generale in materia di contratti (artt. 1256 e 1464 c.c.) ed a quella limitativo della facoltà di recesso del datore di lavoro (legge 15 luglio 1966, n. 604 e art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300), con la conseguenza che il datore di lavoro non può recedere dal rapporto, anche se non ha più interesse alla prestazione del dipendente e anche se ricorrono le condizioni previste dalla legge per il licenziamento per giustificato motivo, fino a quando l’assenza del lavoratore per una delle cause suddette non si protragga oltre il termine stabilito dalla legge, dai contratti collettivi, dagli usi o secondo equità e che, una volta scaduto tale termine, il datore di lavoro può recedere dal rapporto senza dover osservare i limiti posti alla sua facoltà dalla legislazione vincolistica in materia di licenziamento (cfr. Cass. 20 novembre 1985, n. 5741; 28 novembre 1984, n. 6210; 7 giugno 1984, n. 3437; 3 agosto 1983, n. 5505).

Gli eventi tipici in discussione sono considerati “tassativi” anche da Cass. 23 febbraio 1977, n. 822.

Si è già detto (sub n. 2b), dell’applicabilità dell’art. 2110 c.c. al contratto di lavoro con assunzione in prova, opportunamente correlato con l’art. 2096 c.c.

4 d) Infine, non può ritenersi fondato il quinto motivo, con il quale si è denunciata la violazione dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori, pur riconoscendosi che “la questione ha scarsa influenza ai fini della presente causa, perché il periodo di prova del sig. Vigile era già decorso al momento del licenziamento, come risulta, sotto diversi profili, da quanto abbiamo detto in precedenza.”

Invero, con riferimento al primo atto di recesso esercitato il 14 maggio 1988, considerato illegittimo, e non al secondo in data 20 luglio 1989, in relazione al quale il Tribunale ritenne che il Vigile dovesse considerarsi ancora in prova (pag. 18 della sentenza), con conseguente esercizio del diritto dell’Ente di recedere liberamente, si osserva che in ipotesi di recesso del datore di lavoro, prima del compimento del periodo di prova del lavoratore, la declaratoria della sua illegittimità non comporta che il contratto di lavoro debba essere considerato ormai stabilmente costituito (cfr. Cass. 21 gennaio 1985, n. 233), atteso che il datore di lavoro, nel lasso di tempo tra l’interruzione del periodo di prova e il giorno della prefissata sua scadenza, ove il primo non fosse stato interrotto illegittimamente, avrebbe potuto esercitare la facoltà di recesso senza limiti e condizioni (art. 2096, comma 3, c.c.).

Ne deriva che le conseguenze dell’illegittimità di quest’ultimo possono concretarsi, esclusivamente, nel riconoscimento del diritto al lavoratore di terminare la prova e di ottenere il pagamento delle retribuzioni per i giorni residui (domande non proposte nel caso di specie), non potendo trovare applicazione l’invocato art. 18 della legge n. 300 del 1970, quanto alla reintegrazione nel posto di lavoro, che presuppone la costituzione di un rapporto definitivo, come esattamente ritenuto dalla sentenza impugnata.

Per le ragioni esposte il ricorso va rigettato, con totale compensazione tra le parti delle spese di questo giudizio di Cassazione, attesa la complessità della fattispecie decisa (art. 92, comma 2, c.p.c.).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa in toto tra le parti le spese del presente giudizio di Cassazione.
Così deciso in Roma l’8 marzo 1995.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 18 NOVEMBRE 1995.