Svolgimento del processo

Con ricorso 21 giugno 1989 l’Opera Pia Collegio degli Artigianelli chiedeva che il tribunale di Torino, Sezione specializzata agraria, in contraddittorio con FRANCO Mario e Giampiero, dichiarasse cessato, a far tempo al 7 maggio 1989, il contratto di concessione inter partes avente ad oggetto gli immobili civili e rustici di proprietà di essa opera pia compresi nella particella 24, del foglio 7, comune di Rivoli, con condanna dei convenuti all’immediato rilascio degli stessi nonché al risarcimento dei danni tutti derivati dalla mancata disponibilità degli immobili, da liquidarsi in separata sede e declaratoria che i FRANCO erano carenti di titolo, per l’occupazione di altri beni di proprietà di essa ricorrente, con condanna all’immediato rilascio oltre ai risarcimento dei danni.

Esponeva parte istante di essere stata proprietaria, in comune di Rivoli, di un complesso agro immobiliare – composto da un ampio fabbricato di civile abitazione, da un fabbricato rurale con alcune serre contigue nonché di un vasto terreno circostante, della superficie di circa 25 giornate piemontesi – gestito in proprio nel settore floreale e vivaistico a mezzo di salariati, alloggiati nel fabbricato rurale.

In data 9 ottobre 1981, proseguiva l’Ente, era intervenuto un complesso accordo con FRANCO Mario e Giampiero, suoi dipendenti, in forza del quale: l’Opera Pia Collegio degli Artigianelli si impegnava a vendere ai FRANCO terreni per complessivi mq. 26502, al prezzo di Lit. 3.000 al mq.; i FRANCO si impegnavano ad acquistare le piante esistenti sul fondo, da sradicarsi entro 5 anni, a prezzo di perizia; ÌEnte concedeva ai FRANCO di usufruire per un quinquennio degli immobili abitativi e rustici “come da allegata planimetria che faceva parte integrante degli accordi”, mentre i FRANCO, per parte loro si impegnavano ad effettuare lo sfalcio dell’erba, una volta all’anno, nei vivai dell’Ente ovvero, se trasformati in parco, nello stesso.

Data esecuzione alla vendita con atto pubblico, alienate ai FRANCO tutte le piante esistenti sui terreni di proprietà dell’Opera Pia e attuata la concessione per un quinquennio di beni immobili abitativi e rustici, proseguiva parte istante, non veniva redatta la planimetria con l’indicazione degli immobili oggetto della concessione d’uso né stipulato autonomo contratto di concessione ancorché i FRANCO fossero rimasti insediati nel fabbricato rurale, civile e rustico, di via Bruere n. 201, provvedendo al taglio annuale delle erbe nei vivai.

In prossimità della scadenza della concessione – concludeva l’attrice – i FRANCO, dopo aver addotto difficoltà a rilasciare alla scadenza pattuita i beni in concessione avevano invocato che questa integrava un contratto di affitto di fondo rustico, ai sensi degli artt. 13 e 27 della l. 3 maggio 1982, n. 203, avente durata quindicennale, mentre – in realtà – trattavasi di rapporto non agrario.

Costituitisi in giudizio i FRANCO esponevano che era loro intendimento erigere, sui terreni acquistati dalìOpera Pia, nuove costruzioni per ivi trasferire l’attività vivaistica, già gestita dall’Opera e che in previsione di ciò tra essi e l’Ente si era addivenuti all’accordo descritto nel ricorso introduttivo, in forza del quale essi, dietro un corrispettivo, avrebbero occupato per una durata di 5 anni, i fabbricati rustici e civili, nonché le serre ed i semenzai non oggetto di compravendita: poiché non era stato possibile realizzare le previste costruzioni per vincoli urbanistici, era sorta la necessità di opporsi alla richiesta di rilascio, sia invocando la legge 3 maggio 1982, n. 203, che – in subordine – la legge vincolistica urbana.

Tutto ciò premesso – precisato altresì che in effetti la planimetria descrittiva degli immobili abitativi e rustici oggetto del loro godimento, cui faceva riferimento la scrittura 9 ottobre 1981, non era mai stata redatta e che, pertanto, per l’individuazione dei beni concessi in godimento occorreva far riferimento al comportamento tenuto dalle parti anche in epoca successiva alla conclusione del contratto – i FRANCO chiedevano, in via principale, il rigetto della domanda attrice, in via riconvenzionale fosse accertato che la relazione negoziale inter partes doveva ricomprendersi nell’ambito di una affittanza agraria, con scadenza 11 novembre 1999, con declaratoria di nullità del termine quinquennale previsto in contratto.

Svoltasi l’istruttoria del caso il tribunale, con sentenza 14 maggio 1990 rigettava la domanda attrice, dichiarando che l’accordo di cui al punto 4 della scrittura privata 9 ottobre 1981 era contratto di affitto di fondo rustico, comprendente oltre agli immobili ad uso abitativo e rustico, serre, vivai e semenzai, scadente l’11 novembre 1999.

Gravata tale pronuncia dall’Opera Pia Collegio degli Artigianelli la Carte di appello di Torino, Sezione specializzata agraria, con sentenza non definitiva 20 giugno 1991 dichiarava la nullità della convenzione 9 ottobre 1981 e con sentenza 25 maggio 1992, in totale riforma della pronuncia dei primi giudici, ordinava l’immediato rilascio dei beni occupati dagli appellati condannando gli stessi al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede nonché al pagamento delle metà delle spese di entrambi i gradi del giudizio, compensata la restante metà.

Osservava la Corte territoriale, in particolare, pacifico in causa che la planimetria prevista in contratto che doveva identificare i beni oggetto di concessione non era mai stata redatta, che l’oggetto della concessione stessa non appariva individuabile, in base ai criteri oggettivi, non essendo stati specificati i beni oggetto di concessione, né sotto un profilo soggettivo, avendo la stessa previsto un particolare procedimento, per pervenire alla determinazione dell’oggetto.

L’atipicità della convenzione, inserendosi la pattuizione dichiarata nulla in un più ampio regolamento di interessi – ha, ancora, osservato la Corte del merito – non consentiva neppure di riferirsi alle caratteristiche di un particolare contratto di locazione, di affitto urbano o commerciale, assumendo anzi l’oggetto da determinarsi funzione di possibile sussunzione della fattispecie sotto tali forme contrattuali, con conseguente inapplicabilità dell’art. 1374 c.c.

Con la sentenza definitiva 25 maggio 1992 la Corte territoriale precisava – infine – che nel totale dissenso delle parti, sull’oggetto della concessione, la tolleranza poi seguita dagli organi dell’Ente ad un precario possesso dei FRANCO – che si era esteso, nel proprio interesse, a praticamente tutto l’ex complesso vivaistico -, “non sembra possa assurgere a momento giuridicamente rilevante, al fine di qualificare come rapporto di fatto tutelabile ai sensi della legge agraria” il rapporto oggetto di controversia, non potendo trovare applicazione né l’art. 53, l. 3 maggio 1982, n. 203, certo che sino al 31 ottobre 1982 il podere era stato condotto direttamente dall’Opera Pia, né l’art. 27 della stessa legge, atteso che dichiarata la nullità della concessione, per indeterminatezza dell’oggetto (soli fabbricati, o fabbricati e terreni residui dell’Ente), doveva escludersi che vi era stato un “conferimento”, inteso non come atto materiale, ma come atto giuridico riferibile ad una precisa volontà contrattuale, dei beni che di fatto sono poi stati utilizzati dai FRANCO, avendo, in realtà, il possesso come attuato da costoro natura del tutto precaria e pertanto privo di tutela e conversione in rapporto agrario di durata quindicennale, come preteso dai FRANCO.

Per la cassazione di tali pronunce hanno proposto ricorso FRANCO Giampiero e Sergio, affidato a tre motivi. Resiste, con controricorso, l’Opera Pia Artigianelli.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, in riferimento alla sentenza non definitiva 20 giugno 1992, i ricorrenti denunciano violazione dell’art. 1418 c.c., in relazione agli artt. 1346, 1362, 1363, stesso codice, censurabile per i disposti dell’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. (violazione e falsa applicazione di norme di diritto e comunque omessa o contraddittoria motivazione su punto decisivo).

Si addebita – infatti – alla Corte di merito di aver fatto malgoverno delle norme di diritto, che nel caso concreto consentivano, in modo più che sufficiente, o la determinazione dell’oggetto contrattuale o quantomeno la determinabilità dello stesso, alla luce dell’insegnamento contenuto in Cass. 12 dicembre 1988, n. 6744, nonché nelle conformi Cass. 27 ottobre 1984, n. 5517 e Cass. 14 marzo 1987, n. 2665.

Sempre con lo stesso mezzo i ricorrenti denunziano, da una parte, che il godimento, da parte dei FRANCO, era “alla luce del sole e per di più nei pressi della direzione dell’Opera Pia (e, pertanto), la pratica ed il possesso, attuati per anni, con pieno consenso, e senza rilievo, da parte della concedente, suona … come riprova della volontà dei contraenti della loro intenzione di considerare oggetto del contratto quei beni immobili su cui i FRANCO svolgevano la loro attività floro vivaistica” (in precisa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c.), dall’altra, la contraddittorietà, di tutta evidenza, tra la sentenza non definitiva e la coeva ordinanza con la quale la corte del merito ha disposto “prova d’ufficio di indagine testimoniale, per accertare quali beni fossero effettivamente goduti e condotti dai FRANCO” (Atteso che “se nella Corte fosse rimasto un dubbio, sull’estensione del godimento dei FRANCO, essa doveva, prima di sentenziare la nullità della clausola di cui al n. 4, esperire l’indagine in fatto, realizzata attraverso l’assunzione dei testi”).

2. il motivo non può trovare accoglimento, sotto nessun profilo. 2.1. In primis deve escludersi che i giudici del merito abbiano fatto malgoverno delle norme di diritto e, in particolare, che abbiano dato degli artt. 1346 e 1418 c.c. una interpretazione difforme da quella data dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte regolatrice, allorché questa afferma che l’oggetto di un contratto deve ritenersi sufficientemente identificato – o reso identificabile – quando di esso siano indicati gli elementi essenziali, i quali, logicamente coordinati, non lascino dubbi sulla individuazione dello stesso come quello previsto e voluto dai contraenti e poiché manca una norma di legge che stabilisca in che modo debba essere identificato – o reso identificabile – l’oggetto di un contratto, ogni mezzo deve ritenersi idoneo purché siano rispettati i requisiti di forma (Così, ad esempio, Cass. 12 dicembre 1988, n. 6744, ricordata in ricorso, nonché, pur esse ivi richiamate, Cass. 27 ottobre 1984, n. 5517 e Cass. 14 marzo 1987, n. 2665).

La Corte territoriale, infatti, proprio in aderenza ai descritti principi è pervenuta alla conclusione che nella specie – alla luce di tutti i possibili elementi di interpretazione del contratto – Ìaccordo di cui si discute, che rimetteva ad una successiva planimetria, mai redatta, i “beni immobili abitativi e rustici siti in Rivoli” che sarebbero stato oggetto della concessione “manca di un requisito essenziale”, che “é rimasto indeterminato, mentre secondo l’art. 1346 c.c. deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile”.

2.2. In realtà – come in molteplici occasioni affermato da questa Corte regolatrice – l’accertamento della presenza dei requisiti necessari per una sicura identificazione dell’oggetto del contratto è riservato al giudice di merito ed è soggetto al sindacato della Cassazione solo sotto il profilo della logicità e congruità della motivazione (recentemente, in tale senso, ad esempio, Cass. 11 aprile 1992, n. 4474) e sono, pertanto, inammissibili, tutte le censure mosse dai ricorrenti dirette ad ottenere, da parte di questa Corte, una nuova, vietata, valutazione delle risultanze di causa, diversa da quella compiuta in sede di merito, logicamente e congruamente motivata.

2.3. Quanto, in particolare, alla circostanza che “il godimento, da parte dei FRANCO, era … alla luce del sole” e che, pertanto, erroneamente i giudici del merito avrebbero omesso di considerare il comportamento dei contraenti, successivamente alla stipula del contratto del 1981, in violazione dell’art. 1362 c.c., comma 2, c.c., deve evidenziarsi che anche tale aspetto della controversia è stato congruamente e logicamente valutato dalla Corte territoriale, allorché ha precisato che “trattandosi di un rapporto intercorrente tra un Ente morale la cui volontà deve assumere determinate forme, ed un privato, minor peso è possibile dare a comportamenti attuativi del rapporto”.

Ciò in perfetta aderenza con la giurisprudenza di questa Corte secondo cui l’oggetto del contratto per il quale è necessaria la forma scritta può considerarsi determinabile, benché non indicato specificamente, solo se sia con certezza individuabile in base agli elementi prestabiliti dalle parti nello stesso atto scritto, senza necessità di fare ricorso al comportamento successivo delle parti, dovendosi escludere la possibilità di applicazione, per la determinazione dell’oggetto del contratto, della regola ermeneutica dell’art. 1362 comma 2 c.c., che consente di tenere conto, nella ricerca della comune intenzione dei contraenti, del comportamento di questi successivo alla conclusione del contratto (Cass. 11 aprile 1992, n. 4474).

2.4. Irrilevante – ancora – al fine del decidere, è il richiamo (peraltro neppure, in qualche modo, sviluppato) all’art. 1363 c.c., avendo accertato i giudici del merito che l’accordo delle parti non era nel senso di garantire, per un certo tempo, il godimento, da parte dei FRANCO di tutti, indiscriminatamente, i terreni di proprietà dell’Opera Pia in Rivoli, via Bruere n. 201, ma solo quelli che sarebbero stati identificati in un secondo momento, a mezzo di una planimetria, palesemente da redigere con l’accordo di tutti i contraenti, planimetria mai redatta (Analogamente nel senso che è nullo il preliminare di compravendita immobiliare nel quale le parti si siano limitate ad indicare le caratteristiche ed il prezzo, del bene, riservandosi di effettuare la scelta in concreto successivamente e con altra scrittura, Cass. 3 agosto 1992, n. 9232.

V., altresì, Cass. 10 giugno 1991, n. 6570). 2.5. Deve escludersi – infine – che sia ravvisabile alcuna “contraddittorietà”, tra la sentenza non definitiva 20 giugno 1991 (che ha dichiarato la nullità della convenzione 9 ottobre 1981 relativamente al paragrafo 4, cioé nella parte in cui questa prevedeva la concessione in godimento, per cinque anni, ai FRANCO di alcuni immobili da definire in un secondo momento) e l’ordinanza in pari data (con la quale è stata disposta d’ufficio, “prova di indagine testimoniale per accertare quali beni fossero effettivamente goduti e condotti dai FRANCO”).

A prescindere da ogni altra considerazione (sull’ammissibilità della doglianza sotto il profilo di cui all’art. 100 c.p.c., certo che, in concreto, le prove assunte in esecuzione dell’ordinanza 20 giugno 1991 “non hanno aggiunto molto a ciò che era emerso in primo grado” e, quindi, non erano – in ogni modo – idonee a modificare il convincimento già raggiunto dai giudici) esattamente la Corte territoriale ha tenuto nettamente distinto il problema della detenzione degli immobili per cui è controversia da parte dei FRANCO in forza del contratto 9 ottobre 1981 (problema risolto con la sentenza 20 giugno 1991) da quello della eventuale rilevanza, ai sensi della normativa agraria, del rapporto di fatto comunque instauratosi tra le parti.

In altri termini, dichiarata la nullità della convenzione 9 ottobre 1991, nei.limiti indicati sopra, la Corte del merito, indubbio che un rapporto, in linea di fatto, si era comunque svolto, tra le parti, correttamente ha disposto ulteriori accertamenti, al fine di verificare la rilevanza dello stesso ai sensi della normativa agraria.

3. Con il secondo motivo i ricorrenti censurano la sentenza 25 maggio 1992, deducendo la “violazione degli artt. 112, 113, 115, 116 codice di rito in relazione all’art. 27, l. 3 maggio 1282 n. 203, censurabile per i disposti degli artt. 360 n. 3 e 5 c.p.c.” Si osserva, infatti, che essendo “stato dimostrato che la concessione dei fondi rustici trovava il suo corrispettivo nello sfalcio dell’erba, sempre attuato dai FRANCO, su beni residui dell’Opera Pia, trova applicazione la norma dell’art. 27 della legge n. 203 del 1982, che riconduce all’affitto qualsiasi genere di contratto agrario, successivo all’entrata in vigore della legge”.

4. Il motivo è infondato.

Contrariamente a quanto invoca la difesa dei ricorrenti, l’art. 27 della legge 3 maggio 1982, n. 203, lungi dal prevedere l’applicabilità degli artt. 1 e ss. della legge stessa in tutte le fattispecie in cui, comunque, si realizzi, in linea di fatto, il godimento da parte di un soggetto di un fondo rustico di proprietà di altri, dispone – testualmente – che le norme regolatrici dell’affitto di fondi rustici sono applicabili ai “contratti agrari”, “aventi per oggetto la concessione di fondi rustici” o “tra le cui prestazioni vi sia il conferimento di fondi rustici”.

E’ essenziale – in altri termini – perché possa invocarsi la disciplina dell’art. 27 in questione che esista un contratto, ossia “l’accordo di due o più parti per costituire, regolare e estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale” (cfr., art. 1321 c.c.). Accertato – come è stato insindacabilmente accertato in sede di merito – che tra l’Opera Pia resistente e i FRANCO non è mai intervenuto alcun valido contratto avente ad oggetto “la concessione di fondi rustici” o che prevedesse l’obbligo, per l’Opera Pia, del “conferimento di fondi rustici”, esattamente i giudici del merito hanno escluso potesse invocarsi, nel caso di specie, l’art. 27 della legge 3 maggio 1982, n. 203.

Al riguardo deve evidenziarsi:

– la “concessione” di fondo rustico prevista nella scrittura 9 ottobre 1981, integrava – come si è precisato in sede di esame del primo motivo di ricorso – un contratto nullo: è palese che dallo stesso non possono derivare effetti di sorta e – in particolare – che le prestazioni hinc hinde rese in esecuzione dello stesso abbiano fatto sorgere, tra le parti, un diverso rapporto contrattuale tra le parti;

– è rimasto accertato – in sede di merito – che successivamente alla scrittura 9 ottobre 1981 nessun altro accordo è mai intervenuto, tra i FRANCO e l’Opera Pia, atteso che quest’ultima si è limitata a tollerare che i primi – nel totale dissenso tra le parti, circa l’oggetto del contratto del 9 ottobre 1981 – estendessero, nel proprio interesse, il precario possesso dei suoi fondi.

Come accennato il motivo di ricorso in esame deve rigettarsi, dovendosi affermare che non è sufficiente perché possa invocarsi la applicabilità dell’art. 27, legge 3 maggio 1982, n. 203 che un fondo sia stato concesso in godimento a terzi in esecuzione di un contratto nullo o che vi sia stata, da parte del proprietario, la tolleranza ad un precario possesso del fondo stesso da parte dei presunti affittuari.

5. Sempre con il secondo motivo di ricorso (ultima parte) i FRANCO denunciano che “agli atti defensionali, di primo e secondo grado, in via di subordine, i ricorrenti hanno proposto altre domande riconvenzionali, che però non sono state considerate, e dai primi giudici e da quelli di appello, in quanto ritenute assorbite dai motivi che hanno portato alle sentenze successivamente emesse. I ricorrenti confidano nell’accoglimento dei proposti mezzi di impugnativa, ma in ogni caso, per tutiorismo, richiamano tutte le istanze volte in precedenza”.

6. La deduzione è inammissibile.

Deve ribadirsi, infatti, in conformità a più che costante insegnamento di questa Corte regolatrice, che il ricorso per cassazione deve contenere, fra l’altro, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si chiede la cassazione, aventi i caratteri della specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata.

Pertanto non è consentito fare rinvio ad atti difensivi o a risultanze dei gradi di merito, di cui è preclusa la diretta interpretazione alla Corte di legittimità (Cass. 5 marzo 1991, n. 2325. Analogamente, nel senso che poiché la finalità della norma di cui all’art. 366 n. 4 c.p.c. è quella di assicurare che ll ricorso per cassazione presenti l’autonomia necessaria a consentire, senza il sussidio di altre fonti, Ìimmediata e pronta individuazione delle questioni da risolvere, risultano inammissibili quei motivi che, anziché precisare direttamente le ragioni delle censure proposte, esauriscono detta illustrazione in un mero rinvio alle allegazioni difensive contenute negli atti dei giudizio di merito, Cass. 27 aprile 1987, n. 4062. V., altresì, Cass. 11 gennaio 1986, n. 112).

7. Con il terzo, ed ultimo, motivo i ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 278 e 279 c.p.c., in relazione all’art. 2043 c.c., censurabile ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. “La Corte di Torino – si osserva – ha condannato i ricorrenti FRANCO al risarcimento dei danni: la condanna è però ingiusta ed illegittima in quanto l’onere risarcitorio consegue, esclusivamente, ex art. 2043 c.c., per fatto illecito, che non è dato riscontrare nella vicenda per cui è causa”.

“Per intanto – proseguono i ricorrenti – vi è assoluta carenza di motivazione in ordine alla condanna irrogata per danni, condanna che la corte di merito si è limitata ad emettere, senza dar giustificazione del ragionamento, logico e giuridico, per cui ha ritenuto di irrogarla”.

8. Anche tale motivo è infondato.

Accertato che senza alcun titolo valido (dichiarata la nullità del contratto 9 ottobre 1981) i FRANCO erano stati nel godimento dei fondi oggetto di causa correttamente i giudici del merito hanno pronunciato la condanna generica degli stessi al risarcimento dei danni patiti dall’Opera Pia per non aver potuto disporre dei fondi stessi, per tutto il tempo per il quale si è protratta l’arbitraria e ingiustificata detenzione dei FRANCO (analogamente, nel senso che sussiste l’obbligo del conduttore che non rilasci il fondo al termine del rapporto di risarcire i danni arrecati al concedente per il ritardo nel rilascio, tra le tantissime, Cass. 16 dicembre 1988, n. 6852), senza che incombesse all’Opera Pia (ed al giudice che ha reso la relativa pronuncia) dimostrare l’entità e la misura del pregiudizio patito, certo essendo che per la pronuncia di condanna generica al risarcimento è sufficiente l’esistenza potenziale del danno, che dovrà poi essere determinato ed eventualmente anche escluso dal giudice della liquidazione (cfr., tra le tantissime, Cass. 5 luglio 1990, n. 7052; Cass. 24 febbraio 1986, n. 1092). 9. Risultato infondato in ogni sua parte il proposto ricorso deve rigettarsi, con condanna dei ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese del grado, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese, liquidate in Lit. 2.025.600 di cui Lit. 2.000.000 per onorari.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della III sezione civile della Corte di cassazione il giorno 7 febbraio 1995.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 2 GIUGNO 1995