Svolgimento del processo

Con ricorso del 15.3.1988 al Pretore di Città di Castello Amleto Bambini chiedeva la declaratoria del suo diritto all’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale, dovuta per il locale sito alla via Marconi n. 12, concesso in locazione da Flora Bevignani, per cui gli era stata intimata e convalidata licenza per finita locazione al 31.5.1987, indicando che il canone di mercato era di L. 400.000 mensili e l’ammontare dell’indennità di ventuno mensilità.

Lidia Emilia Bevignani, procuratrice generale della nominata proprietaria dell’immobile, mentre aderiva alla entità del canone fissata ex adverso, contestava il numero delle mensilità dovute, sostenendo di doverne solo dodici per essere il locale adibito a mostra e non a punto vendita ex art. 1 legge 6.2.1987 n. 15.

Precisava, altresì, di aver inutilmente offerto l’indennità di L. 3.600.000 in relazione al canone di L. 300.000, chiedendo che fosse negato il diritto del Bambini all’indennità ed in subordine che fosse riconosciuta la congruità della sua offerta. Infine, in via riconvenzionale, la Bevignani richiedeva la declaratoria dell’illegittimità della detenzione del locale da parte del Bambini dal 15.1.1988 o dal 22.2.1988, data dell’ultima offerta, con condanna al pagamento del canone mensile di L. 400.000.

Il Pretore con sentenza del 14.7.1989 condannava la Bevignani al pagamento dell’indennità per L. 4.800.000 ed il Bambini per il canone mensile di L. 400.000 dal 22.2.1988, con compensazione delle spese processuali.

Avverso questa sentenza proponeva appello il Bambini dolendosi per l’errata considerazione della destinazione a mostra del locale nonché per l’errata condanna al pagamento del canone mensile di L. 400.000.

Resisteva al gravame la Bevignani, che formulava appello incidentale per la disposta compensazione delle spese giudiziali.

Il Tribunale di Perugia con sentenza del 13.9.1990 accoglieva l’appello principale del Bambini, condannando la Bevignani al pagamento dell’indennità per L. 8.400.000 con interessi e rivalutazione monetaria, nonché respingendo la domanda riconvenzionale con condanna della Bevignani alla restituzione dei canoni, oltre che alle spese giudiziali.

I giudici di secondo grado ritenevano, diversamente dal tribunale, che il magazzino in locazione al Bambini non fosse adibito soltanto a mostra ai sensi dell’art. 1 della legge n. 15 del 1987 bensì, alla stregua della prova testimoniale, che nel detto locale era esposta la merce più voluminosa e la clientela ne contrattava il prezzo, recandosi nel negozio principale per il pagamento e (successivamente all’introduzione del suo obbligo) il rilascio dello scontrino fiscale, concludendo che non poteva dubitarsi dello svolgimento in esso di un’attività con contratto diretto con il pubblico che di conseguenza era applicabile la normativa dell’art. 68, 9° comma, legge n. 392/78 (mod. dal d.l. 9.12.1986 n. 832) e così dovuta l’indennità per l’avviamento commerciale per ventuno mensilità del canone corrente di mercato e, quindi, la somma di L. 8.400.000 da parte della locatrice.

Inoltre dai detti giudici si deduceva che per la ulteriore permanenza nel magazzino il Bambini non era tenuto alla differenza tra il canone contrattuale e quello corrente di mercato, accertato dalle parti per L. 400.000, bensì a norma del D.L. 30.12.1988 n. 551 (conv. in L. 21.2.1989 n. 61), che ha sospeso l’esecuzione delle condanne al 31.12.1989, aveva l’obbligo del pagamento dell’ultimo canone corrisposto, aumentato del 100%, e così aveva diritto alla restituzione della differenza con il canone corrente di mercato.

Contro questa sentenza Lidia Emilia Bevignani, quale erede di Flora Bevignani, ha proposto ricorso per la sua cassazione con otto motivi di censura.

Il Bambini vi ha resistito con controricorso e memoria.

Motivi della decisione

Con il primo motivo del ricorso la Bevignani denuncia “violazione per falsa, mancata ed errata applicazione degli artt. 34, 35, 69 Legge 392/78, anche come modificato dall’art. 1 della Legge 15/87, in relazione all’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.” con riguardo alla ritenuta utilizzazione del magazzino da parte del Bambini con contatti diretti con il pubblico dei consumatori e degli utenti, sostenendo che per contro – come ritenuto dal pretore a seguito della testimonianza della commessa del Bambini – il locale era un mero magazzino con vetrina senza apposita licenza e così un accessorio dell’esercizio commerciale, ubicato nei paraggi, ove – salvo sporadici episodi – si svolgevano i contatti diretti con i clienti con le contrattazioni ed i pagamenti, tal ché rimaneva soggetto alla disciplina dell’ultimo comma del citato art. 69.

Con il secondo motivo la ricorrente lamenta “Violazione per mancata, falsa ed errata applicazione dell’art. 360 n. 3 c.p.c.” in ordine alla ritenuta attività e presenza dei coniugi Bambini nel locale, che non è affatto provata dalle risultanze testimoniali ed è stata contestata.

Con il quinto motivo la ricorrente deduce che il Pretore aveva riconosciuto la spettanza di 12 e non 21 mensilità data la diversità della situazione tra la mostra di via Marconi ed il negozio di corso V. Emanuele e che sarebbe illegittima e incostituzionale la disposizione se interpretata nel senso dell’equiparazione del locale ove si svolge l’attività commerciale e quello di cui non vi è prova dell’apertura al pubblico e di saltuaria frequentazione.

Gli esposti motivi – che vanno esaminati congiuntamente per la sostanziale connessione – non possono trovare positiva considerazione.

Infatti, i giudici di appello nella decisione impugnata non solo si sono ispirati ad esatti criteri giuridici con riguardo alla definizione di quei locali utilizzati per lo svolgimento di attività comportanti “contatti diretti con il pubblico degli utenti e dei consumatori”, siccome indicata dalla disciplina della legge n. 392 del 1978 (e sue modifiche) per l’attribuzione al conduttore dell’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale, ma altresì hanno corredato quella loro decisione di un motivato apprezzamento della concreta ricorrenza degli estremi all’uopo richiesti.

Invero, va debitamente considerato che questa Corte, dopo aver ormai costantemente ritenuto, per la spettanza dell’anzidetta indennità, nel caso di cessazione del rapporto locativo di immobile adibito alle attività previste dall’art. 27 della legge del 1978, necessario che l’immobile locato fosse adoperato dal conduttore, nell’esercizio dell’impresa, come luogo aperto alla frequentazione diretta (senza intermediazione) e strumentalmente negoziale, della generalità originariamente indifferenziata dei destinatari ultimi dell’offerta dei beni o dei servizi commerciali, tal ché l’immobile stesso – inserito nell’organizzazione aziendale e, pertanto, funzionale alla produttività dell’impresa e suscettibile di influire sul volume degli affari – assumesse anche il valore di un fattore di avviamento, la cui perdita deve essere indennizzata (v. sent.

15.3.1989 n. 1304; sent. 11.8.1988 n. 4926), ha saputo precisare con riguardo la caso che ne occupa che l’indennità compete anche al conduttore di locali adiiti soltanto all’esposizione della merce con possibilità di accesso da parte del pubblico, sebbene le vendite vengano concluse in locali vicini, sempre che risulti accertato il reale ed obiettivo inserimento del locale nell’organizzazione aziendale del conduttore e la sua rispondenza ad esigenze tipiche dell’impresa, essendo così funzionale alla produttività aziendale e suscettibile di influire sul volume degli affari (v. sent. 30.3.1992 n. 3862; sent. 28.1.1987 n. 810).

Orbene, in tale esatta prospettiva i giudici di appello hanno riscontrato a mezzo dell’esperita prova testimoniale che nel magazzino locato dalla Bevignani non soltanto v’era l’esposizione della merce “più voluminosa” dell’esercizio di vendita del conduttore ma che nello stesso il pubblico dei consumatori affluiva e svolgeva le contrattazioni relative al prezzo della merce con la presenza dello stesso conduttore, della sua coniuge e di altro incaricato, recandosi nel vicino negozio del Bambini per il mero pagamento ed il rilascio dello scontrino fiscale, e così hanno legittimamente concluso per la spettanza dell’indennità a termini del nono comma dell’art. 69 della legge n. 392 del 1978 con la individuazione nel locale in esame dello svolgimento della prescritta attività comportante contatto diretto con il pubblico, risultando evidente quell’inserimento del magazzino nell’articolazione essenziale dell’azienda, quale punto di affluenza e contrattazione del pubblico indifferenziato dei clienti, e quella sua resa produttiva in termini di affari incentivati e definiti – salvo la mera esecuzione degli acquisti con il pagamento del prezzo e gli adempimenti fiscali – che, traducendosi in termini di avviamento, non poteva che rimanere negativamente incisa dalla sua dismissione a seguito della cessazione del relativo rapporto locativo e così da debitamente indennizzare.

Né tale conclusione può trovare smentita nelle contestazioni peraltro non specificamente formulate dalla ricorrente con riguardo all’apprezzamento delle riferite risultanze della prova testimoniale, trattandosi dell’esercizio di un potere di valutazione degli elementi di prova che è riservato istituzionalmente al giudice del merito; né tanto meno con il prospettato profilo di incostituzionalità, sol che si tenga presente che la ritenuta equiparazione non si fonda su una rilevata diversità funzionale dei locali bensì proprio in rispondenza ai principi dell’art. 3 Cost. su una accertata identità basata su di una constatata inserzione nell’organizzazione aziendale per l’avvenuto espletamento nell’immobile locato dell’essenziale contatto con il pubblico dei clienti per la definizione di attività commerciali, che restavano comunque consentite al conduttore dal possesso delle prescritte licenze per l’esercizio principale.

Con il terzo motivo la ricorrente si duole per “violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. per omessa o insufficiente motivazione su punto decisivo” con riguardo alla circostanza che il Bambini aveva restituito l’indennità di 21 mensilità versatogli, deducendo che tale fatto rendeva inoperante il D.L. 30.12.1988 n. 551 (conv. in Legge n. 61/89) ed escludeva lo jus retentionis e le agevolazioni riconosciute dalla legge, comportando la mora nella restituzione del locale ed il riconoscimento del canone di mercato a titolo di maggior danno, come esattamente ritenuto dal Pretore.

Inoltre con il quarto motivo la ricorrente sostiene che il contratto era scaduto alla data del 31.5.1987 con dilazione dell’esecuzione sino al 15.1.1988, tal ché il Bambini avrebbe dovuto corrispondere il canone di mercato e non già quello del contratto, ormai inefficace, mentre la legge n. 61/1989 non era applicabile dopo la scadenza del contratto e della sua esecuzione.

Gli esposti motivi, che vanno esaminati congiuntamente per la sostanziale convergenza, non sono fondati.

Invero, va rilevato che l’addotta circostanza della offerta della somma da parte della locatrice a norma dell’ultimo comma dell’art. 34 della legge n. 392 del 1978 che, siccome aggiunto dall’art. 9 del D.L. 30.12.1988 n. 551 così modificato dalla legge di conversione 21.2.1989 n. 61, trova applicazione anche alle locazioni in regime transitorio regolate dall’art. 69 della citata legge sull’equo canone (v. Cass 17.10.1992 n. 11415), se ancorché, rifiutata da parte del conduttore Bambini, poteva avere rilevanza ai fini della decisione in ordine alla sussistenza o meno della perdurante esecutività del provvedimento di rilascio, della cui risoluzione questa Corte non è stata specificamente investita, peraltro non può trovare quella decisiva considerazione, che la ricorrente le annette, sol che si tenga presente che, come risulta, oltre che dallo stesso ricorso (pag. 3) della Bevignani, dalla sentenza di primo grado, senza che sul punto vi sia stata impugnazione, anzi risultando dalla memoria difensiva in appello della odierna ricorrente espressamente la sua acquiescenza al riguardo – come è dato rilevare direttamente da questa Corte denunciandosi nel caso un difetto di attività decisionale e così un “error in procedendo” -, l’anzidetta offerta ebbe ad oggetto la somma di L. 4.800.000 costituita da 12 mensilità e non quella di L. 8.400.000 importata da 21 mensilità, specificamente indicata dal conduttore nel suo ricorso al Pretore, e che di conseguenza, non corrispondendo alla prescrizione dell’art. 34 della legge del 1978, che sancisce la valenza liberatoria della sola offerta del locatore soltanto in caso di difetto di indicazione del conduttore, ma non certo per l’ipotesi di una sua discordanza, non poteva incidere sulla legittimità della ulteriore detenzione dell’immobile da parte del conduttore, né tanto meno in mancanza dell’esecuzione del provvedimento giudiziale di convalida dello sfratto con l’effettivo rilascio dell’immobile locato da parte del conduttore – e non in ragione della mera scadenza del rapporto locativo o della data fissata per l’esecuzione del rilascio – anteriormente all’entrata in vigore del suddetto D.L. n. 551 del 1988 poteva comportarne l’inapplicabilità anche con riguardo ai criteri di indennizzo per i periodi di sospensione dell’esecuzione da esso ulteriormente previsti (v. per riferimenti. Cass. 14.3.1992 n. 3117).

Non senza doversi aggiungere che per il preteso maggior danno della locatrice per l’ulteriore detenzione dell’immobile da parte del conduttore Bambini la ricorrente non allega l’omessa considerazione delle necessarie prove assertive della sua effettuale e concreta ricorrenza ed ammontare (v. Cass. 13.10.1986 n. 5959).

Con il sesto motivo la ricorrente si duole per l’ingiusta condanna al pagamento di interessi e rivalutazione sulla somma cui è stata condannata, mentre risulta dal verbale di udienza essere stata nella disponibilità del conduttore, parzialmente dal novembre 87 al febbraio 88 e quindi totalmente.

Anche questo motivo non è fondato.

Difatti per disattendere l’esposta censura è sufficiente ribadire l’esclusa efficacia dell’offerta dell’indennità effettuata da parte della locatrice in difformità da quella indicata dal conduttore, come si desume dall’ultimo comma dell’art. 34 della legge n. 392 del 1978, che in tal senso costituisce un’applicazione del principio generale dettato dall’art. 1181 cod. civ., con la conseguente inconfigurabilità della pretesa disponibilità da parte del conduttore della somma offerta ex adverso, ostativa al successivo riconoscimento degli accessori dell’obbligazione pecuniaria importata dall’indennità.

Inoltre, con il settimo motivo la ricorrente si lamenta che il non giustificato riconoscimento, oltre la svalutazione monetaria, degli interessi, trattandosi di debito di valuta.

L’esposto motivo è fondato nei limiti che saranno indicati. Invero, non contestandosi dalla ricorrente la spettanza (come la sua entità) della attribuita rivalutazione monetaria del debito per l’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale, fondatamente dalla stessa ci si duole che con riguardo a tale debito – della cui natura di debito di valuta non è dato dubitare atteso che l’oggetto diretto ed originario della prestazione è una somma di denaro determinabile secondo criteri e parametri fissi e predeterminati dalla legge – siano stati riconosciuti al creditore-conduttore, oltre la rivalutazione monetaria, anche gli interessi, dovendosi tenere presente l’indirizzo ormai costante di questa Corte (v. Cass. Sez. Unite 1.12.1989 n. 5294 e n. 5299; Cass. 14.1.1988 n. 260; Cass. 15.10.1982 n. 11275), secondo il quale nel caso di debito pecuniario ove ai sensi dell’art. 1224, secondo comma, cod. civ. venga accordato il risarcimento del maggior danno con il sistema della rivalutazione, il relativo importo, quale espressione del relativo risarcimento in concreto, copre l’intera area del danno fino al momento della sua liquidazione e non può essere cumulato con gli interessi legali, i quali, rappresentando il presunto ristoro in misura forfettaria predeterminata del danno per la mancata disponibilità della somma dovuta, se già attribuiti devono essere eliminati dal risarcimento quantificato con l’anzidetto sistema (salva restando la spettanza di quegli interessi a partire dalla pronuncia giudiziale fino all’effettivo soddisfacimento del creditore), verificandosi altrimenti l’effetto che il creditore verrebbe a ricevere due volte la liquidazione di quel danno ed a conseguire più di quanto avrebbe ottenuto se l’obbligazione fosse stata tempestivamente adempiuta (v. Cass. n. 260/88 cit.). In conseguenza, restando inammissibile la richiesta degli interessi oltre la rivalutazione del debito per l’indennità “de qua”, la relativa pronuncia dei giudici di appello, che hanno riconosciuta la loro spettanza, va per tale capo cassata a norma dell’art. 382 cod. proc. civ..

Infine, con l’ottavo motivo la ricorrente si duole per l’ingiustificata condanna delle spese processuali, sostenendo come più giusta ed equa la loro compensazione attesa la particolare situazione.

Il motivo non può trovare accoglimento.

In proposito va ancora una volta ribadito il principio, che è jus receptum, che, in mancanza di violazione del principio della soccombenza, non può essere denunciato a questa Corte il mancato esercizio, da parte del giudice del merito, del potere di compensazione delle spese processuali, rientrando tale facoltà tra i poteri discrezionali di quel giudice.

In conclusione delle esposte considerazioni va ritenuto che del ricorso proposto da Lidia Emilia Bevignani, mentre va accolto nei limiti indicati il settimo motivo con la conseguente cassazione senza rinvio della sentenza impugnata con riguardo alla pronuncia di condanna al pagamento degli interessi sulla domma di L. 8.400.000, vanno rigettati tutti gli altri motivi e che pertanto alla stregua delle regole legali della soccombenza la detta ricorrente deve essere condannata alla rifusione in favore del resistente Bambini delle spese processuali con il temperamento della loro compensazione per un quarto, reputandosi al riguardo la sussistenza di giusti motivi.

P.Q.M.

La Corte accoglie il settimo motivo del ricorso proposto da Lidia Emilia Bevignani e nei limiti del motivo accolto cassa senza rinvio la sentenza impugnata. Rigetta tutti gli altri motivi dello stesso ricorso.

Compensa per un quarto le spese processuali ed in conseguenza condanna la detta ricorrente al pagamento in favore del resistente Amleto Bambini, in ragione dei tre quarti del loro importo, delle spese processuali di L. 104.500 e di L. 1.500.000 per onorari di avvocato.
Così deciso in Roma nella Camera di Consiglio della III° Sezione Civile il 6 ottobre 1993.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 6 GIUGNO 1994