Svolgimento del processo

Con citazione notificata il 25 luglio 1989 il prof. Antonio Greco dichiarò che: a) il 27 ottobre 1984 il procuratore della Repubblica di Melfi, dott. Francesco Lopalco, aveva emesso nei suoi confronti ordine di cattura, eseguito l’8 novembre 1984, col quale gli erano stati contestati i reati di falso in scrittura privata, falso ideologico per induzione e truffa aggravata; b) da tale ultimo reato egli era stato prosciolto, per insussistenza del fatto, dalla Sezione istruttoria della Corte d’Appello di Potenza con sentenza del 29 giugno 1988; c) l’ordine di cattura si era basato su accuse rivelatesi inconsistenti e si spiegava come espressione di acredine e risentimento del dott. Lopalco nei confronti di esso Greco, onde era stato emesso con dolo o quanto meno per colpa grave; d) ad esso Greco erano derivati gravi danni dall’esecuzione del provvedimento, specialmente con riguardo alla diffusione della notizia, ampiamente divulgata dai mezzi di informazione. Ciò premesso, l’istante convenne il Presidente del Consiglio dei Ministri davanti al tribunale di Salerno, chiedendo di essere risarcito per tali danni, ai sensi degli artt. 2 e 14 L. 13 aprile 1988 n. 117.

Il convenuto impugnò la domanda, contestandone l’ammissibilità e il fondamento.

Il Tribunale, con decreto 29 novembre 1989, dichiarò la domanda inammissibile, condannando l’attore al pagamento delle spese giudiziali.

Su impugnazione del Greco la Corte d’Appello di Salerno, con decreto del 18-31 dicembre 1990, confermo la pronuncia del Tribunale, condannando il Greco al pagamento delle ulteriori spese.

La Corte osservò: che l’assunto dell’appellante – secondo cui l’art. 14 della L. n. 117/1988 conterrebbe un’autonoma previsione di tutela risarcitoria per le vittime d’ingiusta detenzione, patita anteriormente all’entrata in vigore della legge in questione e del nuovo codice di procedura penale – non era fondato, perché il detto art. 14 non ha inteso attrarre nell’ambito risarcitorio le ipotesi di riparazione del danno da ingiusta detenzione, ma soltanto rimarcare la differenza tra risarcimento e riparazione e l’assenza di interferenze tra la disciplina del primo e quella della seconda (recata, quest’ultima, dall’art. 571 del precedente codice di rito penale e dagli artt. 314 e 643 del C.P.P. vigente); che la domanda proposta dal Greco andava qualificata come azione risarcitoria spiegata nel quadro della legge 13 aprile 1988 n. 117; che peraltro tale legge non poteva trovare applicazione nella specie, in quanto il fatto dedotto a fondamento della pretesa risarcitoria era avvenuto in epoca anteriore alla sua entrata in vigore ed era espressamente sottratto all’applicazione della legge stessa (art. 19).

Avverso tale provvedimento il Greco, ai sensi dell’art. 5, quarto comma, L. n. 117/1988, ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi. La Presidenza del Consiglio resiste con memoria, nella quale chiede il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione

Il ricorso premette che la Corte d’Appello di Salerno “ha opportunamente corretto la qualificazione data dal Tribunale di Salerno all’azione esperita dall’odierno ricorrente, specificando che tale azione non può correlarsi alla disposizione dell’art. 55 c.p.c. e ricondursi negli schemi di tale previsione di legge, ma è stata diretta a conseguire un risarcimento contemplato dalla legge 13 aprile 1988, n. 117“.

Pertanto la qualificazione della domanda operata dalla Corte territoriale non soltanto non è impugnata, ma è esplicitamente condivisa dal ricorrente, sicché il punto va dato per acquisito e l’indagine deve essere condotta unicamente con riferimento alla citata legge n. 117 del 1988.

Col primo mezzo di cassazione il Greco denunzia violazione della legge ora menzionata, in relazione all’art. 24 Costituzione, e con riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. -.

A suo avviso il fondamento della legge n. 117 del 1988 starebbe nel precetto costituzionale secondo cui la legge determina la condizioni e i modi di riparazione degli errori giudiziari. La riparazione dell’errore giudiziario non potrebbe avvenire se non attraverso il risarcimento dei danni morali e materiali determinati dal medesimo, sicché sarebbe oziosa e sterile la distinzione tra riparazione e risarcimento operata dai giudici salernitani.

Col secondo mezzo, poi, il ricorrente deduce violazione dell’art. 14 della L. n. 117 del 1988, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 -. Sostiene che una corretta interpretazione del detto art. 14 imporrebbe di ritenere estese le previsioni della legge n. 117 del 1988 ai casi di ingiusta detenzione o di errori giudiziari avvenuti anteriormente alla entrata in vigore della legge medesima, che non distingue tra riparazione e risarcimento, onde nel novero degli illeciti che legittimano il risarcimento andrebbero comprese anche le ipotesi di riparazione degli errori giudiziari e della ingiusta detenzione.

Perciò la riserva contenuta nell’art. 14, diversamente da quanto ritenuto dai giudici d’appello, renderebbe evidente l’applicabilità degli artt. 2 e 3 della legge n. 117 del 1988 a fatti verificatisi anteriormente all’entrata in vigore della legge medesima e configurabili come ingiusta detenzione.

I due motivi, che vanno esaminati congiuntamente perché tra loro strettamente connessi, sono privi di fondamento.

Va premesso che, contrariamente a quanto opina il ricorrente, la distinzione tra riparazione e risarcimento, lungi dall’essere oziosa e sterile, è imposta sia dal vigente sistema normativo sia da quello (diverso) in vigore all’epoca del fatto generatore del danno lamentato dal ricorrente. Il sistema attuale, infatti, prevede:

a) un’equa riparazione per l’ingiusta detenzione, attribuita ai soggetti che vengano a trovarsi nelle condizioni di cui all’art. 314 c.p.p., liquidabile con il procedimento ed entro i limiti stabiliti dall’art. 315 c.p.p. e dall’art. 102 disp. att. c.p.p.;

b) la riparazione dell’errore giudiziario (il cui presupposto è il proscioglimento in sede di revisione), disciplinata dagli artt. 643-647 c.p.p.;

c) il risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e conseguenti a responsabilità civile dei magistrati per dolo o colpa grave o per diniego di giustizia, disciplinato dalla legge 13 aprile 1988, n. 117.

Nel sistema precedente, in vigore all’epoca della vicenda per cui è processo, erano previsti la riparazione degli errori giudiziaria (sempre a seguito di revisione), nei modi regolati dall’art. 571 c.p.p. del 1930 e il risarcimento dei danni da responsabilità civile entro i limiti di cui all’art. 5 c.p.c., poi oggetto di abrogazione referendaria (D.P.R. 9 dicembre 1987, n. 497).

Come si vede, dunque, la differenza tra riparazione e risarcimento è consacrata dalla legge. Essa, peraltro, discende da una esigenza non soltanto giuridica ma anche logica. Infatti la riparazione – sia per l’ingiusta detenzione, sia per l’errore giudiziario in senso proprio – prescinde dall’accertamento di eventuali profili dolosi o colposi nella condotta del magistrato e si basa unicamente sui dati obiettivi contemplati dalle rispettive norme; il risarcimento, invece, presuppone una responsabilità del magistrato a titolo di dolo o di colpa grave (o per diniego di giustizia, che pure deve essere colpevole).

Orbene, questo essendo il sistema normativo, è evidente che l’art. 14 della legge n. 117 del 1988 non può in alcun modo avere il significato che pretende di attribuirgli il ricorrente.

Il detto art. 14, infatti, afferma che “le disposizioni della presente legge non pregiudicano il diritto alla riparazione a favore delle vittime di errori giudiziari e di ingiusta detenzione”.

Come il testuale tenore della norma rende palese, essa non intende affatto estendere le previsioni della legge n. 117 del 1988, ai casi di ingiusta detenzione o di errori giudiziari accaduti in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge medesima. Un simile effetto estensivo è escluso, in primo luogo, dalla letterale formulazione dell’articolo il quale, affermando che le disposizioni de quibus non pregiudicano il diritto alla riparazione spettante e chi sia stato vittima di errori giudiziari e di ingiusta detenzione, ribadisce appunto che si tratta di categorie giuridiche diverse, oggetto di distinte previsioni normative. E il dato letterale trova poi riscontro in quello logico-sistematico, desumibile dal rilievo che, nella materia in esame, il risarcimento presuppone una responsabilità del magistrato sostanziata da un necessario elemento soggettivo (a titolo di dolo o di colpa), mentre il diritto alla riparazione prescinde da tale elemento ed è correlato unicamente alla ricorrenza delle situazioni previste dalle norme dianzi richiamate.

Né la distinzione tra riparazione e risarcimento urta contro il disposto dell’art. 24, ultimo comma, Costituzione, secondo cui “la legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari”. Questo è, senza dubbio, un principio di grande valore etico e sociale, costituente sviluppo del più generale principio di tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, riconosciuti e garantiti dall’art. 2 Costituzione (cfr. Corte Costituzionale, 24 gennaio 1969, n. 1). Il che induce a dare una interpretazione lata al dettato normativo, in particolare per quanto riguarda il concetto di errore giudiziario. Ciò, peraltro, non fa venir meno l’esigenza di stabilire per le diverse ipotesi discipline differenziate, a causa della differenza concettuale dianzi sottolineata; e, d’altra parte, tale differenza di disciplina non restringe ma anzi amplia la sfera di tutela riconosciuta al cittadino.

Conclusivamente, la disposizione dell’art. 14 della L. n. 117 del 1988 è una norma di coordinamento diretta a ribadire la non interferenza tra la normativa recata dalla legge medesima sulla responsabilità civile e le distinte regole dettate per sancire il diritto alla riparazione a favore delle vittime di errori giudiziari e d’ingiusta detenzione.

Ne, per contrastare tale conclusione, varrebbe opporre che, quando la legge 13 aprile 1988, n. 117 fu emanata, la normativa sulla riparazione per l’ingiusta detenzione (artt. 314, 315 c.p.p. vigente) era ancora in fieri. A tale obiezione si dovrebbe replicare che era già da tempo in vigore la delega legislativa per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale (L. 16 febbraio 1987, n. 81), la quale, all’art. 2, punto 100, già prevedeva la riparazione dell’ingiusta detenzione, sicché il legislatore del 1988 ha evidentemente inteso effettuare il coordinamento anche con tale previsione normativa (nuova rispetto al precedente modello processuale).

Circoscritta, dunque, l’indagine alla legge n. 117 del 1988, ed escluso che all’art. 14 di questa possa darsi l’interpretazione attribuitagli dal ricorrente, la decisione adottata dalla Corte territoriale si rivela corretta e merita, perciò, di essere confermata. Infatti, il Greco non ha impugnato, ed anzi (come sopra detto) ha espressamente condiviso, l’affermazione della Corte d’Appello secondo cui la domanda del ricorrente, sia per il modo della sua proposizione sia per il suo contenuto sostanziale, risultava esclusivamente diretta a far valere una azione risarcitoria prevista dalla legge del 1988, sicché qualificarla come azione derivante dall’art. 55 c.p.c. significherebbe sostituire di ufficio un’azione diversa da quella proposta, in violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e del divieto di sostituire d’ufficio l’azione formalmente proposta con una diversa. Divenuto ormai inoppugnabile tale punto, si deve soltanto rilevare che, ai sensi dell’art. 19, comma secondo, della L. n. 117 del 1988 (come modificato a seguito della sentenza della Corte Costituzionale, 22 ottobre 1990, n. 468), la legge medesima non si applica ai fatti illeciti posti in essere dal magistrato, nei casi previsti dagli artt. 2 e 3, anteriormente .alla sua entrata in vigore, e quindi ad essa la vicenda de qua è sottratta, in quanto risalente al 1984 (l’ordine di cattura contestato risulta eseguito l’8 novembre di quell’anno).

Con il terzo motivo il Greco denunzia violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, nonché omessa motivazione su punto decisivo, lamentando la mancata ammissione dei mezzi istruttori da lui richiesti. Ma tale motivo de censura è assorbito nel rigetto dei due mezzi precedentemente esaminati.

Il ricorso deve essere quindi respinto.

Nella natura delle questioni trattate si ravvisano tuttavia giusti motivi per dichiarare compensate tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e dichiara compensate tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, il 4 aprile 1995, nella camera di consiglio della prima sezione civile della Corte Suprema di Cassazione.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 15 NOVEMBRE 1995.