Svolgimento del processo

Con citazione notificata il 30 ottobre 1970 Teresa Chironna convenne in giudizio Carmela Chironna (cugina ex fratre) dinanzi al pretore di Altamura.

Espose che:

con atto notarile del 5 maggio 1903 i germani Giovanni e Lorenzo Chironna avevano acquistato da tale Giovanni Debernardis un pezzo di suolo in Altamura della superficie di mq. 286,30; detto suolo era stato dal venditore diviso in due quote perfettamente uguali, alienate una a Giovanni Chironna e l’altra al fratello Lorenzo; successivamente gli acquirenti avevano costruito il piano terra, e poi, non consentendo la larghezza del fronte sulla pubblica via per ciascuna quota la costruzione di una comoda scala autonoma per il rispettivo piano superiore, avevano costruito un vano di scala comune a cavallo tra le due proprietà, concordando una divisione di fatto dello stesso, ferma restando la condizione di comunione dell’insieme; per acquisto successivo mortis causa la proprietà di Chironna Lorenzo era pervenuta ad essa Chironna Teresa e quella di Chironna Giovanni a Chironna Carmela; avendo indi ella manifestato l’intento di vendere la sua parte del fabbricato, la convenuta aveva opposto di essere proprietaria esclusiva del vano portone.

Ciò premesso, poiché si rendeva necessario accertare la situazione di diritto del locale in questione; aveva adito le vie legali, per sentir dichiarare che esso apparteneva in parti uguali alle due figlie dei fratelli Chironna.

La convenuta dedusse che il locale era stato costruito dal suo dante causa, e per l’eventualità che vi fosse stata occupazione di suolo attiguo (di proprietà del dante causa di Chironna Teresa) spiegò domanda riconvenzionale per la attribuzione o usucapione dello stesso; in via gradata, chiese che fosse dichiarato quanto meno il portoncino di sua proprietà ovvero l’avvenuta usucapione in suo favore.

L’adito pretore, con sentenza del 30 giugno 1973, dichiarò che il vano portone apparteneva in proprietà in parti uguali a Teresa e Carmela Chironna; rigettò le domande riconvenzionali.

Avverso la decisione interpose gravame Carmela Chironna, assumendo che erroneamente il pretore aveva dichiarato la proprietà comune dell’immobile, non ammettendo la prova testimoniale da essa dedotta, per cui si era riservata di indicare i nominativi dei testi.

L’appellata eccepì l’infondatezza dello appello, chiedendone il rigetto.

Il tribunale di Bari, con sentenza del 30 maggio 1975, rigettò il gravame sull’assunto che il vano portone fosse comune alle parti in causa a norma dell’art. 1117 cod. civ.

Su ricorso per cassazione proposto dalla soccombente, questa Suprema Corte, con sentenza del 15 novembre 1977, accolse la sola doglianza relativa all’erroneità del concetto che non si potesse usucapire la cosa comune, ed enunciò invece il principio che il condominio potesse acquisire per usucapione un bene di proprietà comune senza che a tale fine occorresse un atto di inversione del possesso nei termini di cui all’art. 1164 cod. civ. Cassava pertanto sul punto la sentenza impugnata e rinviava la causa al tribunale di Lecce, il quale nel decidere si sarebbe dovuto attendere al principio su enunciato, valutando se, in relazione ad esso, i mezzi di prova dedotti dalla convenuta per dimostrare di avere usucapito l’immobile de quo, fossero pertinenti ed influenti.

Nel riassumere il giudizio dinanzi al tribunale designato, Teresa Chironna chiese che venisse dichiarata inammissibile la prova testimoniale articolata dalla controparte perché ininfluente e priva dell’indicazione dei testi, e nel merito fosse affermato che il vano portone era di proprietà comune alle parti in causa.

La convenuta insistette per l’accoglimento della riconvenzionale con la declaratoria di usucapione di detto locale, reiterando all’uopo la richiesta di ammissione della prova testimoniale già articolata in precedenza, e indicando i testi nella stessa comparsa di costituzione.

Il tribunale, con sentenza in data 8 ottobre 1981, ritenne inammissibile la prova testimoniale della convenuta in quanto priva della indicazione dei testi allorché era stata formulata, e non avendo d’altra parte rilevanza alcuna che a tanto si fosse provveduto all’atto della costituzione nel giudizio di rinvio.

Contro tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione Carmela Chironna, sulla base di un unico motivo di censura.

Resiste, Teresa Chironna, con controricorso.

Motivi della decisione

Con l’unico mezzo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 394 cod. proc. civ., nonché degli artt. 244, 352 – in relazione all’art. 350 – 279 e 356 stesso codice, oltre a vizi della motivazione.

Sostiene che il giudice di merito è incorso nella violazione delle norme suindicate, dichiarando inammissibile sic et simpliciter la prova testimoniale perché sfornita della indicazione dei testi.

Deduce, in proposito, che nelle precedenti fasi del giudizio non era stato adottato alcun provvedimento giudiziale sull’ammissibilità o meno della prova testimoniale, per cui nessuna preclusione poteva scaturire dal fatto di non avere indicato i nominativi dei testi in dette sedi; che, viceversa, davanti al giudice di rinvio, al quale la Corte di Cassazione aveva demandato l’incombente di valutare l’influenza dell’intervenuta usucapione, erano stati tempestivamente indicati i testi con la comparsa di costituzione.

Altro errore di diritto commesso dal Tribunale sarebbe stato, secondo la ricorrente, quello di escludere che il termine perentorio, ex art. 244, ultimo comma, cod. proc. civ., per il completamento dei riferimenti necessari per l’espletamento della prova testimoniale potesse essere concesso dal collegio, oltreché dal giudice istruttore.

Infine, il giudice di rinvio avrebbe errato nell’escludere l’espletamento di altri mezzi istruttori, idonei a provare l’assunto di essa ricorrente: in particolare, la consulenza tecnica ed il giuramento decisorio.

La censura è fondata nei termini e per le ragioni appresso esposte.

Il giudice di rinvio non poteva dichiarare inammissibile la prova per testimoni per mancata indicazione dei testi dopo che questa indicazione era stata fatta dalla parte, sia pure soltanto nella comparsa di costituzione in detta fase, quando cioé venuta meno la ragione di tale inammissibilità, non rilevata nei precedenti gradi di giudizio: rientra, infatti, nel potere discrezionale del giudice istruttore di dichiarare inammissibile una prova irrituale dedotta o di assegnare alle parti un “termine perentorio per formulare o integrare” le indicazioni volute dalla legge (art. 244, ult. comma C.P.C.), ma non può dichiararsi inammissibile una prova dopo che a tali integrazioni la parte ha provveduto già di sua iniziativa (cfr. Cass. 30-10-81, n. 5754). L’affermazione poi del giudice di rinvio, che il potere di concedere alle parti un termine perentorio per formulare o integrare l’indicazione della persone chiamate a deporre come testimoni, spetta solo all’istruttore, e non anche al collegio in sede di provvedimenti ordinatori, è anch’essa errata, come esattamente rilevato dalla ricorrente.

E’ noto, infatti, che il potere suddetto, attribuito all’istruttore dal citato art. 244 ultimo comma C.P.C., spetta anche al collegio, quando questo provveda in sede istruttoria (v. Cass. 18 aprile 1977, n. 1421; 11 marzo 1974, n. 633; 9 giugno 1962, n. 1430).

Ciò in forza del principio generale secondo cui il collegio riunisce in sé tutti i poteri dell’istruttore e può emettere tutti quei provvedimenti ordinatori che questi avrebbero potuto o dovuto adottare, salvo che il contrario sia espressamente disposto a pena di nullità. V’é inoltre da considerare che nei giudizi di appello l’istruttore ha solamente poteri ordinatori in senso stretto e non anche istruttori (a differenza di quanto disposto per il primo grado dall’art. 187 quarto comma c.p.c.) e questo perché l’ammissione di nuove prove in secondo grado, implica una parziale riforma della sentenza impugnata ossia una indagine di competenza del collegio (v. Cass. 26 ottobre 1968, n. 3597; 25 novembre 1955, n. 3.800). Nella specie, quindi, se non fossero stati indicati i nominativi dei testi nella comparsa di costituzione, il tribunale avrebbe potuto

– ove l’avesse ritenuto opportuno – legittimamente esercitare la sua facoltà di assegnare alla parte istante un termine perentorio per tale indicazione.

Ma l’errore in cui è incorso il giudice di rinvio appare ancora più evidente ove si consideri che l’ammissibilità di una prova va stabilita, non in base ad una valutazione retrospettiva – con riferimento, cioé, al momento in cui è stata dedotta -, ma come essa si presenta allorché si decide della sua ammissione. E solo allora può trovare applicazione la disposizione dell’ultimo comma dell’art. 244 citato, secondo cui il G.I. ha facoltà di assegnare, tenuto conto delle circostanze, un termine perentorio alle parti per formulare o integrare l’indicazione dei testi.

Quindi, anche se la formulazione dei capitoli di prova deve, di norma, precedere l’ammissione del mezzo istruttorio, l’indicazione dei testimoni deve, tuttavia, ritenersi possibile anche successivamente, dopo che la prova sia stata ammessa, e al più tardi fino a quando la stessa non abbia avuto inizio (il che accade quando il giudice abbia ammesso la prova proposta dalla parte senza l’indicazione dei testi e fissato l’udienza per la relativa assunzione, senza peraltro stabilire un termine per la sua integrazione), sempre che, naturalmente, il giudice, avvalendosi della detta facoltà, consenta, espressamente o implicitamente l’indicazione tardiva. E questa facoltà del giudice, non essendo subordinata all’istanza della parte interessata, può essere esercitata anche d’ufficio, in base ad un criterio di opportunità che si sottrae, data la sua natura discrezionale, al sindacato di legittimità (v. Cass. 26 aprile 1982, n. 2558; 9 gennaio 1979, n. 138; 20 maggio 1975, n. 1986; 22 febbraio 1974, n. 253; 6 febbraio 1969, n. 356; 12 ottobre 1968, n. 3235).

Nel caso specifico, invece, la disposizione citata non poteva trovare applicazione in quanto, all’atto della valutazione da parte del giudice di rinvio, la prova in questione, integrata con l’indicazione dei testi nella comparsa di costituzione, si presentava completa in tutti i suoi elementi, per cui, non dovendo essere ulteriormente integrata, non v’era da concedere alcun termine alla parte che l’aveva dedotta.

V’é altresì da osservare che nella specie, trattandosi di giudizio di rinvio, il tribunale avrebbe dovuto attenersi a quanto disposto nella sentenza di questa Suprema Corte, la quale non aveva ritenuto inammissibile la prova testimoniale di cui si discute, tanto vero che aveva demandato al giudice di rinvio di valutare soltanto la sua influenza e pertinenza in relazione al principio di diritto cui avrebbe dovuto uniformarsi. Non avendo la Suprema Corte provveduto a rilevare d’ufficio l’eventuale inammissibilità della prova, in mancanza di specifica impugnazione sul punto, su tale questione si era formato il giudicato (c.d. interno), e la questione medesima non era più proponibile nel giudizio di rinvio. Infatti i limiti di questo giudizio non sono soltanto quelli che derivano dal divieto di ampliare il thema decidendum prendendo nuove conclusioni (anche istruttorie), ma altresì quelli inerenti alle preclusioni che discendono dal giudicato implicito formatosi con la sentenza di cassazione, cosicché tutte le questioni, preliminari o istruttorie, deducibili dalle parti o anche rilevabili di ufficio, qualora non siano state dedotte o rilevate in sede di legittimità non possono essere dedotto o rilevate in sede di rinvio, in quanto, diversamente, il loro esame condurrebbe a neutralizzare o limitare gli effetti della pronuncia di cassazione, in contrasto col principio della sua intangibilità (cfr. 22 gennaio 1980, n. 507).

Ne deriva che la questione sull’ammissibilità della prova testimoniale in oggetto, non poteva essere sollevata dal giudice di rinvio, poiché la sentenza di cassazione è vincolante in tale giudizio non solo in relazione al principio di diritto affermato ma anche in rapporto alle questioni che avrebbero potuto essere proposte dalle parti o rilevate di ufficio, ove le affermazioni (esplicite o implicite) in essa contenute, riguardo a tali questioni, costituiscono necessario presupposto logico della sua decisione.

Consegue da quanto sopra che per nessuna ragione detta prova – non integrante la sua deduzione un’attività assertiva o probatoria del tutto nuova rispetto a quella svolta nei precedenti gradi di merito, e resa d’altra parte necessaria dalla nuova impostazione della controversia in dipendenza della pronuncia di questa Corte -, poteva essere dichiarata inammissibile dal giudice di rinvio.

Per quanto concerne, infine, la doglianza della ricorrente circa il mancato espletamento di altri mezzi istruttori, idonei a provare il suo assunto, quali la consulenza tecnica e il giuramento decisorio, è sufficiente il rilievo che in sede di rinvio non è stata chiesta l’ammissione di queste altre prove, e che non è sindacabile in sede di legittimità il mancato esercizio da parte del giudice di merito del potere di disporre di ufficio i mezzi probatori, nelle ipotesi in cui questo gli è conferito dal codice di rito.

Il discorso va pertanto accolto, per quanto di ragione. Conseguentemente la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio della causa ad altro giudice – che si designa nel tribunale di Trani – il quale dovrà procedere a rinnovato esame e nuova decisione, attenendosi agli enunciati principi di diritto, e provvedendo altresì in ordine alle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Suprema Corte di Cassazione accoglie, per quanto di ragione, il motivo del ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa al Tribunale di Trani, che provvederà anche sulle spese di questo giudizio.
Così deciso in Roma, il 7 maggio 1985.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 24 FEBBRAIO 1986