Svolgimento del processo

Con citazione del 26 luglio 1976 l’impresa Mario Gianolio conveniva dinanzi al Tribunale di Torino il Comune di Santena, esponendo che con contratto dell’11 agosto 1972 quel Comune le aveva affidato la costruzione di un edificio scolastico, finanziato dallo Stato a norma della l. 28 Luglio 1967 n. 641. Nel corso dell’opera, con deliberazione del 25 febbraio 1974 era stata redatta una perizia di variante e suppletiva, comportante una maggiore spesa di Lire 112.044.514. Sorta divergenza fra le parti, si era addivenuti ad un accordo, giusta deliberazione del 17 marzo 1975 , in virtù del quale il Comune di Santena doveva provvedere, tramite il direttore dei lavori, a chiudere la contabilità, ivi compresa la revisione dei prezzi, nonché a pagare l’importo di avanzamento dei lavori e della revisione in lire 75 milioni circa, ed infine a provvedere al pagamento dell’importo dello stato di avanzamento dei lavori afferenti alla perizia suppletiva, nonché la relativa revisione prezzi; dal canto suo l’impresa si impegnava a consegnare al Comune la scuola entro il 30 marzo 1975. Il 29 marzo 1975 l’appaltatore aveva consegnato le chiavi della Scuola ed il 18 aprile successivo il Comune aveva versato la somma di Lire 74.660.000, oltre I.V.A. Peraltro, il Direttore dei lavori non aveva provveduto nei termini pattuiti alla presentazione dei conti ed il Comune di Santena non aveva adempiuto agli ulteriori pagamenti; in data 24 aprile la impresa aveva diffidato il Direttore dei lavori ed il Comune, e quest’ultimo il 10 novembre 1975 aveva sollecitato, ma invano, il Direttore dei lavori. L’appaltatore chiedeva la condanna del Comune al pagamento del residuo importo dei lavori contrattuali ed extra-contrattuali che, tenuto conto degli acconti percepiti in lire 202.423.770, ammontava a lire 99.700.017; nonché al pagamento della revisione prezzi che, tenuto conto degli acconti percepiti in lire 104.983.500, residuava in lire 120.338.327, oltre agli interessi ed ai danni per il ritardato adempimento. Chiedeva altresì la corresponsione dei danni a norma dell’art. 1224 secondo comma c.c. e produceva estratto-conto bancario dal quale risultava che su uno scoperto di lire 150.000.000 le fossero stati addebitati oltre 16 milioni di interessi.

Il Comune di Santena, autorizzato al giudizio con deliberazione della Giunta Municipale ratificata dal Consiglio Comunale, si costituiva con comparsa in cui contestava l’esistenza di un accordo fra le parti ed osservava che l’appaltante non poteva eseguire i collaudi prima dell’ultimazione dei lavori, a norma del Capitolato Generale del Ministero dei lavori pubblici (applicabile obbligatoriamente); che, di conseguenza, non poteva essere corrisposta la revisione prezzi, tanto più che anche la perizia suppletiva era assistita dal contributo statale. Rilevava, infine, che le somme richieste erano sfornite di ogni motivazione.

In via riconvenzionale, il Comune deduceva che l’impresa aveva abbandonato i lavori, con danni per l’Amministrazione, per il cui ristoro chiedeva l’applicazione della penale contrattuale ed il risarcimento del pregiudizio ulteriore.

Le parti si scambiavano poi successive contestazioni, puntualizzando le rispettive richieste ed eccezioni. Il Tribunale di Torino, con sentenza 16 giugno 1982 (dopo aver dato implicitamente atto che nel frattempo il Comune di Santena aveva corrisposto l’importo capitale e la revisione del prezzo, trattenendo soltanto alcune cauzioni) accordava gli interessi e la rivalutazione monetaria alla stregua dei seguenti criteri: nei primi novanta giorni di ritardo erano da corrispondersi gli interessi legali sulle somme dovute; inoltre erano dovuti gli interessi di mora, nella misura prevista dal Capitolato Generale del Ministero dei Lavori pubblici, a decorrere dal ventesimo giorno di ritardo successivo e fino alla data di pagamento della somma capitale, conteggiandosi l’anatocismo dalla data della domanda giudiziale (27 luglio 1976) in ogni caso; tali interessi di mora, poi, dovevano essere rivalutati a partire dal momento del pagamento della quota capitale, in quanto da quella data doveva considerarsi esaurita l’operatività dell’art. 35 del Capitolato Generale, la cui validità era limitata al periodo di mora.

Sulla base dei calcoli effettuati dai consulenti tecnici d’ufficio il Tribunale – computando altresì la svalutazione monetaria sul capitale – determinava il credito complessivo dell’impresa Gianolio in lire 271.386.853, al cui pagamento condannava il Comune di Santena, oltre le spese di lire e quelle di consulenze. Proposto appello principale da parte del Comune di Santena ed appello incidentale da parte dell’impresa Gianolio, la Corte d’appello di Torino con sentenza 21 giugno 1984, in accoglimento dello appello principale e respinto quello incidentale, in riforma della sentenza impugnata dichiarava inammissibile la domanda del Gianolio per lo svincolo delle somme corrispondenti alla cauzione definitiva ed alla rata finale di saldo sul contratto d’appalto; condannava il Comune a pagare all’attore, a titolo di interessi di mora, la somma complessiva di lire 56.703.813, oltre all’anatocismo nel tasso legale a decorrere dal 25 marzo 1982; condannava il Comune a rimborsare alla controparte la metà delle spese del giudizio di primo grado, della consulenza d’ufficio e del giudizio d’appello, dichiarando compensata fra le parti la restante metà.

La Corte d’appello osservava che la materia era regolata dall’art. 35 del Capitolato Generale del 1962 che gradua gli interessi di mora da ritardo a seconda dei giorni del ritardo medesimo e rappresenta una valutazione in termini monetari della colpa dell’amministrazione; per il terzo comma dell’art. 35, tutti gli interessi da ritardo sono interessi di mora comprensivi del risarcimento del maggior danno previsto dal secondo comma dello art. 1224, per cui è chiusa la problematica della risarcibilità dell’ulteriore pregiudizio, in quanto la previsione normativa è completa, per i casi di ritardo nel pagamento delle rate di acconto. Alla stregua di tale premessa, la Corte d’appello rilevava che i primi giudici avevano compiuto non pochi errori e che anche i Consulenti tecnici avevano compiuto errori d’impostazione, in quanto avevano preso per base iniziale non già la singola quota di capitale in acconto e del cui ritardo nel pagamento si trattava, bensì la quota stessa aumentata degli interessi legali dovuti per il primo ritardo fino a novanta giorni, e poi avevano calcolato gli interessi di mora, nel tasso stabilito con decreto interministeriale, capitalizzando anno per anno quanto maturato per l’anno precedente; modo di procedere che è estraneo al sistema civilistico ed ai criteri che regolano le opere pubbliche. La correzione del duplice errore conduceva a ridurre le somme dovute a titolo di interessi a lire 56.703.813 (in luogo di lire 67.151.641 fissate dal Tribunale).

La Corte d’appello osservava – poi – che la suddetta somma era stata dal Tribunale dapprima sottoposta a rivalutazione per il periodo intercorrente dal pagamento delle singole quote capitali e fino al 31 dicembre 1981 e quindi completata dall’anatocismo della data della citazione e fino al 31 dicembre 1981; mentre sul capitale, dalla data del certificato di pagamento e fino a quella del relativo mandato era stata nuovamente computata la rivalutazione alla stregua degli indici ufficiali; ciò era in contrasto con l’art. 35 del Capitolato generale, perché – al di là dell’interesse legale per i ritardi fino a novanta giorni – il diverso e maggiore tasso per gli interessi moratori (ragguagliato per decreto interministeriale a quanto praticato sul mercato nazionale del denaro in ragione d’anno) copriva ed escludeva la risarcibilità di ogni ulteriore pregiudizio sofferto dall’appaltatore, per cui non poteva riconoscersi alcuna rivalutazione monetaria e le relative voci andavano escluse dal computo.

Per quanto riguardava l’anatocismo, secondo la Corte d’appello, questo era da riconoscere al tasso legale (senza alcuna rivalutazione a titolo di danni), per gli interessi dovuti per almeno un semestre e solo dal giorno della domanda giudiziale, non avente per oggetto una generica pretesa di interessi, ma una richiesta specifica, che rappresenta anche il dies a quo di maturazione degli interessi in questione; e poiché il Gianolio aveva formulato la specifica domanda in proposito solo all’udienza di precisazione delle conclusioni in primo grado del 25 marzo 1982, l’anatocismo decorreva da tale data, al tasso legale, sull’ammontare degli interessi di mora rettificati nella somma supra indicata.

In ordine alle domande riguardanti lo svincolo della cauzione definitiva ed il pagamento della rata finale dei lavori, la Corte d’appello riteneva che le domande stesse fossero inammissibili, a norma dell’art. 44 del Capitolato, per mancanza del certificato di collaudo, così testualmente motivando: “Di tutto ciò il Gianolio, quale diretto interessato, doveva fornire idonea prova, specie di fronte alla costante e reiterata negativa dell’Amministrazione, la quale ha sempre sostenuto di essere pronta ad adempiere, ma di non poterlo fare per l’ostacolo formale a lei non imputabile. Di fronte a questo atteggiamento l’attore si è limitato ad affermare, nella seconda domanda conclusionale, come in data 15 dicembre 1983 avrebbe ricevuto dal Comune la somma di lire 16.224.525 oltre IVA e che nel medesimo periodo l’ente locale avrebbe svincolato le due fideiussioni bancarie. Tali circostanze sono peraltro rimaste allo stato di mere affermazioni, non sostenute dal benché minimo supporto documentale, di talché, di fronte alla negativa dell’avversario, non possono essere date per dimostrate; e di conseguenza rimane in essere la preclusione di legge, che impone l’inammissibilità allo stato di tale domanda”.

Avverso la suddetta sentenza, notificata il 17 settembre 1984, il Gianolio ha proposto ricorso per cassazione; il Comune di Santena, regolarmente autorizzato al giudizio di cassazione, ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, il Gianolio lamenta l’omessa declaratoria di inammissibilità dell’appello della città di Santena per difetto di legittimazione processuale del Sindaco, con violazione e falsa applicazione degli artt. 131 r.d. 4 febbraio 1915 n. 148; 75, 112 e ss. c.p.c.; 279, 342 e ss. c.p.c., in relazione all’art. 2697 c.c.; nonché omessa, insufficiente e comunque contraddittoria motivazione (art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c.), osservando che la sentenza appellata non afferma che la delega (in forza della quale il Sindaco ha proposto l’appello) fosse sostenuta da una delibera di Giunta ratificata dal Consiglio, debitamente approvata dall’autorità tutoria; anzi lo esclude allorché ha precisato che la città di Santena ha proposto appello in base a mandato in atti, sic et simpliciter. L’errore in judicando et in procedendo non potrebbe essere più grave, in quanto il Sindaco è legittimato a stare in giudizio soltanto su conforme delibera di Giunta ratificata dal Consiglio, ovvero su delibera diretta del Consiglio, approvata in ogni caso dal CO.RE.CO. La Corte Torinese, secondo il ricorrente, infrangendo l’obbligo di rilevare ex officio la pregiudiziale di rito concernente l’inammissibilità dell’appello, è incorsa in ogni caso in difetto di motivazione.

Il motivo è infondato. Si deve premettere che, trattandosi di censura attinente ad un preteso “error in procedendo”, è inammissibile il rilievo concernente il difetto di motivazione (art. 360 n. 5 c.p.c.), che può riguardare soltanto le questioni di merito e non quelle processuali, in ordine alle quali la Corte di Cassazione può giudicare con esame diretto degli atti del processo, correggendo od eventualmente anche supplendo la motivazione mancante della sentenza impugnata (giurisprudenza costante: da ultimo, cfr. Cass. marzo 1984 n. 2287; Cass. 3 giugno 1983 n. 3800; Cass. 11 aprile 1983 n. 2543; Cass. 14 gennaio 1982 n. 229).

Dall’esame del fascicolo dell’appellante Comune risulta che esso ha prodotto prima dell’udienza collegiale in appello e regolarmente (come risulta dal timbro circolare della Corte d’appello, in annullamento della marca apposta sul frontespizio) la copia del verbale della deliberazione del Consiglio Comunale di Santena in data 7 ottobre 1982 n. 129, con le annotazioni relative alla trasmissione al CO.RE.CO. ed alla intervenuta esecutorietà per decorrenza del termine di legge. Non ha rilievo la circostanza che il giudice d’appello non abbia espressamente dato atto di tale regolare produzione, dal momento che nessuna contestazione era stata sollevata in proposito durante il giudizio di secondo grado e che la regolarità della produzione non è efficacemente contestata in questa sede (si fa questione, nella memoria, soltanto della pretesa irregolarità della produzione in cassazione di un’ulteriore copia della deliberazione del Consiglio comunale; produzione che però è inutile, dal momento che già il documento era stato prodotto in appello). Neppure ha rilievo l’altra censura (accennata nel ricorso e sviluppata nella memoria) secondo cui il difetto di jus postulandi e della capacità di stare in giudizio del Sindaco è concretato dall’assenza della spendita del necessario provvedimento autorizzativo, e cioé dall’omessa sua menzione nella procura e nel contesto dell’atto. La Corte osserva, in contrario, che né l’art. 342, né l’art. 366 c.p.c. (per quest’ultima ipotesi, vedi Sez. un.

n. 4784 del 1985) prevedono che le deliberazioni degli enti pubblici inerenti all’autorizzazione data all’organo che li rappresenta all’esterno da parte dell’organo competente (Consiglio Comunale, nella specie) debbano essere indicate nell’atto di impugnazione, ovvero nella procura che il Sindaco conferisce al difensore, in virtù dell’autorizzazione medesima.

Infatti, è vero che esiste un collegamento fra l’autorizzazione (al giudizio o all’impugnazione) e la procura, in quanto la mancanza della prima comporta la irregolarità della costituzione dell’Ente pubblico (art. 182 secondo comma c.p.c.); irregolarità che si trasforma in definitiva inefficacia, in difetto di regolarizzazione tempestiva, ovvero nei casi in cui – come nel giudizio di cassazione

– non può avvenire la regolarizzazione di cui all’art. 182, ma soltanto la produzione del documento comprovante l’avvenuta autorizzazione, ai sensi dell’art. 372 c.p.c. (cfr. Cass. 30 marzo 1979 n. 1842). Tuttavia, i requisiti dell’autorizzazione al giudizio e della procura devono essere determinati separatamente, in quanto l’autorizzazione attiene alla legittimazione processuale del legale rappresentante dell’ente pubblico e la sua mancanza si risolve nel difetto di un presupposto necessario per la regolare costituzione del rapporto processuale (vedi Cass. 20 maggio 1977 n. 2079; Cass. 23 gennaio 1977 n. 5715; Cass. 5 gennaio 1979 n. 31, fra le altre conformi), mentre la procura attiene allo jus postulandi (vedi Cass. 20 gennaio 1982 n. 347); in altri termini, nel primo caso viene in rilievo l’art. 75 c.p.c.; nel secondo, l’art. 83 c.p.c. Soltanto il Sindaco può rilasciare la procura (salvo il caso di delega ad un assessore; cfr. Cass. n. 7299 del 1983; Cass. n. 7300 del 1983), perché quell’organo ha la rappresentanza in giudizio (art. 151 n. 9 del t.u. numero 148 del 1915) e tale potere rappresentativo postula l’esercizio del corrispondente potere deliberativo, con rilevanza esterna, del Consiglio (o della Giunta comunale, nei casi previsti dalla legge). Ma nessuna norma impone che, nell’esercitare la rappresentanza in giudizio, il Sindaco debba menzionare (nella procura) l’atto autorizzativo dell’organo collegiale in quanto l’imputabilità dell’azione esperita in giudizio all’ente attiene al requisito della legittimazione processuale propria dello stesso ente ed è sufficiente che vi sia corrispondenza fra la delibera collegiale e l’atto esecutivo del Sindaco; corrispondenza obiettiva che può dimostrarsi in qualsiasi momento del processo. Invece, il patrocinio obbligatorio (art. 82-83 c.p.c.) attiene ad un momento distinto, regolato – quanto al tempo della sua inserzione negli atti del processo – dall’art. 125 c.p.c. Con il secondo motivo, il Gianolio deduce l’erronea applicazione della limitazione di responsabilità prevista dall’art. 35 Capitolato Generale approvato con d.p.r. 16 luglio 1962 n. 1063, nonostante che il danno subito fosse imputabile a dolo o comunque a colpa grave della città di Santena, e la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 1224, 1225, 1228, 2043, 2056 c.c., nonché 3 e 24 Cost., ed omessa, insufficiente e comunque contraddittoria motivazione su tale punto decisivo, osservando che, alla stregua della decisione impugnata, la P.A. che ritardi ad adempiere non avrebbe alcuna sanzione e speculerebbe sulla differenza tra il tasso medio bancario e quello fissato annualmente con decreto ministeriale; conclusione assurda ed immorale in uno stato di diritto che non voglia proteggere la prevaricazione del cittadino ad opera della P.A. e fare salvo il principio costituzionalmente garantito dagli artt. 3 e 24 Cost., alla cui stregua l’Ente pubblico non può esimersi dal rispondere illimitatamente dei danni che, sul piano contrattuale ed extracontrattuale, abbia arrecato col proprio illecito comportamento, consistito nell’inadempimento volontario o gravemente colposo delle proprie obbligazioni.

Secondo il ricorrente, le limitazioni di responsabilità derivanti dall’art. 35 del Capitolato Generale non sono applicabili nel caso di ritardi dovuti non già a tempi tecnici burocratici del complesso iter amministrativo, ma ad inadempimenti sostanziali veri e propri ad obblighi assunti da parte dell’Amministrazione appaltante; ne consegue che, una volta accertata la colpa (sul punto la sentenza di primo grado è stata lapidaria e non è intervenuta riforma da parte del giudice di secondo grado) riprendono vigore i principi generali sul risarcimento dei danni, comprensivi di quelli da svalutazione monetaria. In altri termini, secondo il ricorrente, le deroghe di cui all’art. 35 citato valgono soltanto quando si tratta di ristorare la stazione appaltante (sic) del ritardo dovuto alla durata dei normali tempi tecnici richiesti dal procedimento deliberativo e di controllo, non quando la P.A. versi in una situazione di dolo o colpa grave. In un contesto di grave e volontario inadempimento o ritardato adempimento della città di Santena, il risarcimento dei danni dovuti all’impresa Gianolio secondo le regole ordinarie, compresi quelli dipendenti da svalutazione monetaria ed interessi bancari devono essere fatti decorrere dal dì dell’inadempimento sostanziale e non già dal novantesimo giorno previsto dall’art. 35 del Capitolato Generale di appalto (ridotto a sessanta giorni dalla legge 10 dicembre 1981 n. 741).

Il Gianolio sostiene che, poiché gli istituti di credito ai quali aveva dovuto rivolgersi per far fronte alle inadempienze pecuniarie della città di Santena avevano capitalizzato anno per anno quanto maturato per l’anno precedente, era legittimo che quel criterio di capitalizzazione, anno per anno, di quanto maturato l’anno precedente, fosse valutato in sede di risarcimento della ditta Gianolio; e che lo stesso ragionamento vale a confutazione del mancato accoglimento della domanda di risarcimento nella misura della svalutazione monetaria, giacché l’inadempimento del Comune ne comporta la responsabilità contrattuale ex extracontrattuale ed il conseguente adeguamento nummario al mutato valore della lira mira allo scopo di rendere effettiva la reintegrazione patrimoniale del danneggiato e non è altro se non una diversa espressione monetaria del danno medesimo, non ristorata dalla produttività di interessi con decorrenza dall’epoca in cui il pregiudizio economico è stato arrecato.

Il motivo è infondato.

In primo luogo, si deve delimitare l’ambito della sua rilevanza in quanto sono del tutto estranee alla ratio della sentenza impugnata sia l’affermazione di una responsabilità extracontrattuale del Comune di Santena (artt. 2043 e ss. c.c.), sia, nell’ambito della responsabilità contrattuale ritenuta dal giudice d’appello, l’affermazione di una responsabilità per dolo, là dove invece il giudice del merito ha affermato, in più punti, che si trattava di stabilire le conseguenze della colpa della Amministrazione nei casi di ritardo nell’emissione dei certificati di pagamento delle rate di acconto del corrispettivo dell’appalto (artt. 33 e ss. D.P.R. 16 luglio 1962 n. 1063) e nel pagamento dei predetti acconti e cioé di una tipica responsabilità “contrattuale” dipendente da colpa del Comune. Le contrarie affermazioni del ricorrente non solo suffragate da alcuna pertinente censura, se non tramite il generico richiamo a quanto sarebbe stato affermato dalla sentenza di primo grado. A parte il fatto che detta sentenza è stata interamente sostituita da quella d’appello, si osserva che quel richiamo consiste nell’avvenuto accertamento di una colpa nell’inadempimento di obblighi assunti da parte dell’Amministrazione appaltante (cfr. pag. 20 del ricorso) e cioé attiene sempre all’affermazione di una colpa contrattuale.

Il problema della graduazione della colpa (e cioé della sua gravità o meno) è del tutto irrilevante, con riguardo alle norme che il giudice di appello ha esattamente applicato al caso. Come ha ricordato quel giudice, al criterio della colpa grave aveva fatto ricorso la più antica giurisprudenza, in sede di interpretazione dell’art. 40 del precedente capitolato (d.m. 28 maggio 1895) che escludeva qualsiasi diritto dell’appaltatore a pretendere indennità per i ritardi nei pagamenti e prevedeva, in taluni casi, soltanto la corresponsione dell’interesse del 5 per cento all’anno per la durata del ritardo (cfr. Cass. 13 maggio 1971 n. 1384; 19 novembre 1973 n. 3089: Sez. un. 23 novembre 1974 n. 3800 che hanno considerato l’art. 40 cit. come una deroga alla disciplina generale dell’inadempimento che esclude soltanto quella responsabilità dell’ente pubblico che possa ricollegarsi alla sua ratio consistente nella necessità di tener salva l’Amministrazione pubblica da pretese risarcitorie derivanti da ritardi dovuti alle caratteristiche proprie dell’organizzazione, al modo di funzionamento dell’apparato della P.A. ed alla complessità dei procedimenti attraverso i quali si realizza la sua attività giuridica, mentre se il ritardo è ascrivibile a dolo o colpa grave dell’Amministrazione, è giustificata l’applicazione della disciplina contrattuale comune, anche se con l’esclusione della presunzione di responsabilità di cui all’art. 1218 c.c.). Questo indirizzo giurisprudenziale non ha più ragione d’essere, nel mutato quadro legislativo (art. 35 del Capitolato generale del 1962, anche prima delle modifiche apportate dall’art. 4 della legge 10 dicembre 1981 n. 741, articolo quest’ultimo inapplicabile al caso ratione temporis perché dalla sentenza impugnata risulta che il termine originario di 90 giorni, ridotto a 60 dalla nuova norma, era già trascorso prima dell’entrata in vigore della legge del 1981). Invero, dopo aver stabilito in quali casi e da quali decorrenze spetta all’appaltatore (per i ritardi nei pagamenti degli acconti) l’interesse di mora pari all’interesse praticato dagli Istituti di credito di diritto pubblico o dalle banche di interesse nazionale, nella misura accertata annualmente con decreto interministeriale, il comma terzo dispone: “Tutti gli interessi da ritardo sono interessi di mora comprensivi del risarcimento del danno à sensi dell’art. 1224, 2. comma, del codice civile”. La suddetta disciplina non può, a stretto rigore, considerarsi derogatoria rispetto a quella dell’art. 1224, secondo comma, codice civile, perché per quanto attiene alla fissazione dei termini, contenuta nel primo comma (con riguardo al precedente art. 33) e nel secondo comma, non tanto si ha una deroga all’art. 1224, quanto una disciplina speciale del presupposto di esso e cioé della fissazione del “giorno della mora”, a sua volta con una disciplina differenziata a seconda che tale giorno faccia sorgere l’obbligo di corresponsione degli interessi legali (corrispondenti a quelli previsti dall’art. 1224 primo comma) o del maggior danno (ex art. 1224 secondo comma). Tale peculiarità di disciplina corrisponde all’esigenza di qualificare il ritardo colpevole dell’Amministrazione, in relazione alla complessità dei procedimenti amministrativi che prevedono l’intervento di più organi o uffici, in funzione attiva e di controllo, nell’ambito della procedura formale di erogazione della spesa pubblica, tipizzando detto ritardo colpevole con riguardo ad un tempo ritenuto in astratto sufficiente a svolgere tutti gli accertamenti, i controlli e le formalità necessarie (sconosciute nell’ambito di un’attività di mero diritto privato).

In sostanza, si ha una disciplina che si sostituisce a quella dell’art. 1219 c.c., ed in particolare (poiché i pagamenti della P.A. di norma si eseguono presso di essa, debitrice, di modo che il n. 3 del secondo comma dell’art. 1219 non potrebbe essere invocato) non è neppure possibile affermare che la disciplina sia più sfavorevole per il privato appaltatore, dal momento che egli è esonerato dall’intimazione o richiesta fatta per iscritto di cui all’art. 1219 primo comma.

Per quel che riguarda le conseguenze della mora, non sarebbe invece corretto ritenere l’art. 35 del Capitolato come “derogatorio” rispetto all’art. 1223 (che si occupa non della fissazione del giorno della mora, ma delle conseguenze di essa nelle obbligazioni pecuniarie, quali sono quelle di cui è causa). Invero, nell’interpretazione giurisprudenziale, il secondo comma citato non consente affatto un automatico adeguamento dell’ammontare del debito di somma di denaro per effetto della svalutazione monetaria, la quale non costituisce di per sé un danno risarcibile, ma può implicare soltanto il riconoscimento del maggior danno (oltre gli interessi legali) che sia derivato dall’impossibilità di disporre della somma durante il periodo della mora, nei limiti in cui il creditore deduca e dimostri che un pagamento tempestivo lo avrebbe messo in grado di evitare o ridurre quegli effetti economici depauperativi che l’inflazione produce. Al fine della quantificazione di tale danno il ricorso ad elementi presuntivi ed a fatti di comune esperienza non può tradursi nell’applicazione, in via generale, di parametri fissi, quali quelli evincibili dagli indici ISTAT o dal tasso corrente di interessi bancari, né può implicare l’esonero dall’onere di allegazione e di prova del danno, ma è consentito in correlazione con le qualità e condizioni della categoria a cui appartiene il creditore, atteso che esclusivamente alla luce di tali dati personalizzati sussistono i presupposti per una valutazione delle modalità di utilizzazione del denaro e, quindi, degli effetti della sua ritardata disponibilità nel caso concreto (Sez. un. 5 aprile 1986 n. 2368, che elenca alcune categorie “tipizzate” di creditori al fine dell’applicazione in concreto dei criteri generali enunciati).

In sostanza, ad una “tipizzazione” dei danni risarcibili ex art. 1224 secondo comma affidata alla giurisprudenza, la norma dell’art. 35 del Capitolato Generale OO.PP. sostituisce una tipizzazione “normativa” da valere ogni volta che si verifichino le condizioni ivi previste.

Anche nell’ambito del rapporto di appalto di opere pubbliche la giurisprudenza ha continuato ad applicare la normativa generale dell’art. 1224 secondo comma c.c., ma soltanto al di fuori delle ipotesi (che sono le uniche prese in considerazione dalla sentenza impugnata, fatta esclusione del punto che è oggetto del quarto motivo del ricorso, che attiene peraltro ad una disciplina analoga, quella dell’art. 36 del Capitolato Generale, in tema di ritardo nel pagamento della rata di saldo e di ritardo nel collaudo) delle ipotesi – si diceva – di ritardo nei pagamenti degli acconti. Per esempio, il risarcimento del danno secondo le regole ordinarie è stato ritenuto applicabile nel caso di inadempimento ad obblighi assunti dalla stazione appaltante diversi dal pagamento degli acconti (Cass. 6 aprile 1982 n. 2102, nell’ipotesi di ritardi nella rimozione di linee elettriche, telefoniche ed acquedotti che per contratto devono essere rimossi dall’Amministrazione appaltante; Cass. 25 luglio 1986 n. 4756, nel caso di mancato pagamento delle varianti eseguite dall’appaltator ed addebitabili all’Amministrazione; Cass. 4 gennaio 1978 n. 21, in tema di illegittima sospensione dei lavori).

Non contraddice a tale indirizzo, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, Cass. 12 luglio 1983 n. 4729, perché essa ha inteso chiarire che anche gli interessi previsti dagli artt. 35 e 36 del Capitolato Generale possono essere riconosciuti solo se il ritardo nel pagamento delle rate di acconto o di saldo sia in dipendenza causale con un inadempimento dell’appaltante, perché il comma primo dell’art. 35 condiziona tale riconoscimento alla mancata tempestiva contabilizzazione dei lavori ed ai ritardi dipendenti da qualsiasi altro motivo attribuibile all’amministrazione. Anche sotto tale profilo emerge l’inserzione della normativa speciale nel quadro generale della responsabilità del debitore per inadempimento contrattuale (art. 1218 e segg. c.c.), in cui rileva l’imputabilità dell’adempimento (cfr. Cass. 12 giugno 1987 n. 5143) e cioé la colpa del debitore. Sotto tale profilo, come si è già accennato, non ha importanza stabilire il grado della colpa (lieve o grave), dovendosi far ricorso al criterio generale dell’art. 1176 c.c. La graduazione della colpa rileva a determinati scopi (per esempio nell’ambito del concorso del fatto colposo del creditore ex art. 1227; ovvero nei casi in cui si ha una limitazione di responsabilità: art. 1710, 1768, etc. c.c.) e cioé in ipotesi che nella specie non rilevano.

E’ perciò da respingere la tesi fondamentale del ricorrente, secondo cui la pretesa gravità della colpa dell’Amministrazione renderebbe necessario il ricorso all’art. 1224 secondo comma: infatti, come a fondamento di tale norma non sta la colpa grave del debitore, ma il ritardato adempimento a lui imputabile secondo i criteri generali ex artt. 1176 e 1218 c.c., così nell’ambito della disciplina speciale degli appalti pubblici rileva l’inadempimento imputabile e cioé attribuibile all’Amministrazione a qualsiasi titolo di colpa, essendo tale disciplina completa, con riguardo ai casi espressamente previsti dal capitolato. La ratio di tale conclusione deriva proprio dalla già riscontrata non contraddizione fra la disciplina speciale e quella generale: nella prima si ha una tipizzazione normativa del danno risarcibile; nella seconda, il danno deve essere provato in concreto, pur con l’ausilio del ricorso a “tipizzazioni” di elaborazione giurisprudenziale: Sarebbe difficile contestare che il criterio normativo utilizzato dall’art. 35 del Capitolato (interesse praticato dagli istituti di credito o dalle banche d’interesse nazionale in applicazione di disposizioni od accordi disciplinanti il mercato nazionale del denaro) corrisponda ad uno dei criteri giurisprudenziali che potrebbe essere adottato, in applicazione dell’art. 1224 secondo comma c.c., perché anzi esso di armonizza perfettamente con tale norma.

La specificità della disciplina è legittima sotto ogni profilo. In primo luogo, il fondamento legislativo di essa risiede nell’obbligo di applicare il Capitolato Generale OO.PP. stabilito – con riguardo al caso concreto – nell’art. 294 del testo unico della legge comunale e provinciale (r.d. 3 marzo 1934 n. 383) in quanto dalla sentenza impugnata risulta che l’opera pubblica eseguita dal Comune comportava oneri finanziari a carico dello Stato, nell’ambito della legge 28 luglio 1967 n. 641 sull’edilizia scolastica (cfr. Cass. 25 novembre 1977 n. 5138; e, più in generale, sul carattere normativo del Capitolato Generale, Cass. 14 maggio 1981 n. 3167; Cass. 28 gennaio 1980 n. 658, in motivazione). In secondo luogo, l’esame della costituzionalità della normativa predetta (che – trattandosi di normativa regolamentare, deve essere compiuto dal giudice ordinario: vedi Cass. n. 658 del 1980, cit.) non può ovviamente esser compiuto alla stregua dell’art. 24 Cost., come pretende il ricorrente, perché nessun ostacolo all’azione in giudizio del creditore è posto dall’art. 35 più volte citato, che è norma di carattere sostanziale.

Infine, non esiste alcun contrasto con l’art. 3 Cost. perché la specificità della disciplina, rispetto a quella generale, non solo non comporta una deroga profonda alla ratio fondamentale che sta alla base dell’art. 1224 secondo comma, ma è giustificata sotto più profili: a) per quanto riguarda la P.A., esiste l’esigenza di una preventiva determinazione con criteri certi, che la stessa Amministrazione può applicare de plano senza necessità del ricorso al giudice, delle conseguenze economiche del ritardo nei pagamenti;

b) per quel che riguarda l’appaltatore, egli ha la certezza di avere diritto al risarcimento in una misura prestabilita, senza oneri di provare il danno in concreto; c) per quel che attiene alla misura degli interessi, la disciplina di carattere generale può – è vero – prescindere da ipotesi concrete di oneri finanziari maggiori, ma deve rilevarsi che la normativa riguarda una categoria di imprenditori che per legge deve essere dotata (in quanto concorrente a pubblici appalti) di una struttura economica adeguata e di una facilità di accesso a quel “mercato del denaro” a cui ha riguardo l’art. 35, del Capitolato. La tipizzazione del danno in misure standardizzate non è irragionevole.

Quanto alle ultime due considerazioni del motivo, si osserva in contrario quanto segue:

1) la tesi secondo cui avrebbero dovuto essere capitalizzati anno per anno gli interessi contrasta con l’art. 1283 c.c. (sulla applicazione del quale vedi il terzo mezzo del ricorso), in quanto solo nei limiti di tale norma è possibile calcolare gli interessi sugli interessi scaduti;

2) la cumulabilità fra svalutazione monetaria ed interessi riguarda i crediti che fin dall’origine sono di valore (cfr. C. 21 marzo 1980 n. 1916, citata dal ricorrente, e molte altre conformi) ma non può applicarsi ai danni da ritardato adempimento di obbligazione pecuniaria (ex art. 1224 c.c. ovvero ai sensi della normativa speciale applicabile al caso: vedi ampiamente, in motivazione, Cass. 25 settembre 1984 n. 4820), in quanto, se il maggior danno ex art. 1224 secondo comma è determinato in interessi superiori al tasso legale del 5% annuo, questo criterio esclude la contemporanea rivalutazione – per il medesimo periodo di tempo preso in considerazione – del credito da capitale o degli interessi medesimi (che possono produrre soltanto gli interessi ex art. 1283 c.c.). D’altra parte, l’art. 35 del Capitolato OO.PP. esclude la possibilità della rivalutazione del credito pecuniario, a titolo di “maggiore danno” ex art. 1224 secondo comma, come è invece consentito in sede di applicazione giurisprudenziale diretta di quest’ultima norma (con possibilità di riconoscere gli interessi compensativi, ex art. 1284 c.c., sulla somma liquidata giudizialmente, comprensiva della rivalutazione monetaria: vedi Cass. n. 4820 del 1984, cit.).

Con il terzo motivo, il Gianolio lamenta il mancato riconoscimento dell’anatocismo dal giorno della domanda giudiziale (26 luglio 1976 e non, come la Corte d’appello ha ritenuto, dal 25 marzo 1982, giorno della precisazione delle conclusioni e quindi la violazione e falsa applicazione dell’art. 1293 (rectius: 1283) c.c., in relazione all’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c., osservando che la sentenza impugnata ha affermato che qualora l’anatocismo sia chiesto nel corso del giudizio, anziché con l’atto introduttivo, gli effetti operano ex nunc, laddove la chiara e letterale dizione dell’art. 1283 c.c. vuole che gli interessi scaduti siano produttivi di interessi, sempreché l’avente diritto ne faccia richiesta, da dì della domanda giudiziale, quand’anche chiesti in prosieguo.

Il mezzo è infondato, perché la sentenza impugnata si è uniformata alla costante giurisprudenza secondo cui la domanda giudiziale richiesta dall’art. 1283 c.c. va intesa non come semplice domanda degli interessi principali scaduti, ma come domanda specificamente diretta ad ottenere il pagamento degli interessi sugli interessi scaduti (Cass. 16 febbraio 1965 n. 252; Cass. 17 giugno 1974 n. 1778; Cass. 11 dicembre 1974 n. 4222; Cass. 15 dicembre 1982 n. 6913).

La necessità della domanda specifica comporta che anche la decorrenza degli interessi sugli interessi risale alla medesima domanda (Cass. 26 marzo 1949 n. 668; Cass. 16 febbraio 1965 n. 252, che precisa che gli interessi scaduti non sono suscettibili di produrre a loro volta interessi se non dopo la proposizione di specifica domanda giudiziale o dopo una convenzione successiva alla loro scadenza). Una parte della dottrina sostiene, invece, che pur occorrendo una domanda espressa (ancorché proposta nel corso del giudizio) per ottenere gli interessi sugli interessi, per il prodursi dell’anatocismo è sufficiente la domanda dei primi interessi, e ciò perché l’art. 1283 è espressione del principio per cui il tempo della lite non deve andare a danno della parte vittoriosa. In sostanza, si distinguerebbe il problema sostanziale (decorrenza degli interessi, per cui sarebbe sufficiente che quelli “principali” siano dovuti per almeno sei mesi) da quello processuale (necessità della domanda, naturalmente retroattiva). La tesi non può essere seguita, perché contraria alla ratio della norma (tendente ad una rigorosa delimitazione degli interessi sugli interessi) ed alla sua chiara lettera (solo dal giorno della domanda giudiziale si producono gli interessi sugli interessi). La domanda giudiziale che produce i suddetti interessi non può essere quella che ha per oggetto gli interessi principali. Infatti, che gli interessi (nelle obbligazioni pecuniarie, diverso essendo l’orientamento in tema di debiti di valore pr risarcimento del danno) possano essere accordati dal giudice solo su domanda di parte, è principio generale (art. 99 e 112 c.p.c.) e pertanto la norma non intende risolvere soltanto il problema processuale della richiesta, ma quello sostanziale della produzione degli interessi anatocistici. La correlazione fra essi e la domanda non attiene soltanto alla possibilità della pronuncia del giudice, la cui condanna potrebbe risalire ad un tempo anteriore, fissato nella domanda giudiziale avente ad oggetto il credito principale (che nella specie sono gli interessi scaduti), ma attiene proprio al sorgere dell’obbligazione degli interessi sugli interessi.

La legge, nel fissare nel giorno della domanda quello della decorrenza degli interessi non può partire che dal presupposto implicito che tale domanda debba avere per oggetto specifico proprio il credito che la norma intende regolare (e cioé gli interessi sugli interessi), perché il processo civile è imperniato sulla domanda di parte e quindi la domanda di cui parla la legge non può essere quella avente per oggetto un altro credito (gli interessi principali).

Col quarto motivo il Gianolio deduce l’omesso esame di documenti idonei a fornire la prova dell’intervenuto certificato di collaudo 7 dicembre 1982 (All. 10-bis di parte attrice) in violazione dell’art. 115 comma 1 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c., lamentando che la Corte di appello, nel dichiarare inammissibili le domande inerenti allo svincolo della cauzione definitiva ed alla rata di saldo (per l’asserita mancanza del certificato di collaudo) abbia omesso l’esame del documento 10-bis di parte attrice, comprensivo della relazione, del verbale di visita e del certificato di collaudo 2 giugno 1982, trasmesso dal Provveditorato alle OO.PP. al Comune il 7 dicembre 1982, documento che era idoneo a fornire la prova del collaudo che, se preso in esame, avrebbe dovuto necessariamente condurre ad una diversa decisione.

Il motivo è fondato.

Il Comune controricorrente deduce che con deliberazione consiliare del 15 luglio 1983 era stato disposto lo svincolo della cauzione (costituita mediante fideiussione in data 18 luglio 1972); che il CO.RE.CO., con provvedimento del 29 settembre 1983 aveva chiesto chiarimenti, sospendendo i termini dell’esecutorietà della delibera ma che, fornite le precisazioni richieste, la delibera stessa era stata implicitamente approvata per decorrenza dei termini, sicché lo svincolo era divenuto definitivo. Deduce altresì che con mandato n. 364 dell’11 maggio 1984 l’Amministrazione aveva provveduto a pagare la rata finale di saldo e da tali deduzioni conclude che è cessata la materia del contendere.

L’eccezione del Comune è infondata, perché la domanda dell’impresa era rivolta non soltanto allo svincolo della cauzione ed al pagamento della rata di saldo, ma anche al risarcimento dei danni conseguenti ai ritardi di tali atti, su cui è mancata la pronuncia del giudice. D’altra parte, dalle stesse deduzioni di parte risulta che già da prima della decisione d’appello non sussisteva la preclusione processuale della mancata approvazione del collaudo (art. 44 primo comma del Capitolato Generale per le OO.PP.), il che rende priva di oggetto l’eccezione – mossa all’udienza dal resistente – inerente ad una pretesa irregolare produzione da parte dell’impresa del documento 10-bis, da cui risultava l’effettuazione del collaudo.

Ciò senza dire che, già da prima che l’art. 5 della legge n. 741 del 1981 regolasse diversamente la materia, la mancata approvazione del collaudo non precludeva all’appaltatore la possibilità di agire in giudizio, se l’Amministrazione, al riguardo diffidata, avesse omesso di adottare le sue determinazioni in un breve periodo di tempo (Cass. 11 dicembre 1986 n. 7378); diffida che nella specie risulta menzionata nella narrativa della sentenza impugnata.

Pertanto, su questo punto la sentenza impugnata ha illegittimamente omesso l’esame del merito, per una pretesa preclusione processuale che non sussisteva sotto vari profili; e la causa va rimessa, per un nuovo esame dal medesimo punto, ad altra Sezione della Corte d’Appello di Torino, che deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione (oltre che sulle spese dell’intero giudizio, essendo travolta la pronuncia stessa, ex art. 336 primo comma C.P.C.).

P.Q.M.

La Corte di Cassazione rigetta il primo, il secondo ed il terzo motivo del ricorso; accoglie il quarto motivo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia ad altra Sezione della Corte d’appello di Torino, anche per le spese del giudizio di cassazione
Così deciso a Roma il 25 novembre 1987.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 15 GIUGNO 1988