Svolgimento del processo

Giuseppe Cocozza, – premesso che con decreto del 28 dicembre 1963 il Prefetto di Napoli aveva autorizzato l’E.N.E.L. all’occupazione temporanea in via di urgenza di parte di un fondo di sua proprietà sito in Ponticelli da attraversare con una linea elettrica per una percorrenza di mt. 360 (con una fascia asservita larga 35 metri e con l’infissione di un sostegno a traliccio occupante una superficie di mq. 36) e che l’occupazione, avvenuta fin dal gennaio 63, si era protratta oltre il biennio ed era quindi divenuta illegittima -, conveniva l’E.N.E.L. nel 1967 avanti al Tribunale di Napoli per sentirlo condannare alla rimozione dell’elettrodotto dal fondo e, in mancanza, al pagamento dell’indennità per il periodo di temporanea occupazione oltre il risarcimento dei danni. Con decreto in data 30 aprile 69 il Prefetto di Napoli imponeva a favore dell’ENEL la servitù inamovibile relative all’elettrodotto premenzionato, ma su una striscia di terreno meno larga di quella occupata, stabilendo l’indennità di L. 3.725.800 per l’asservimento e in L. 907.200 per l’occupazione temporanea, ai sensi del t.u. 11 dicembre 1933 n. 1775 e della l. 25 giugno 1865 n. 2359 sull’espropriazione per pubblica utilità.

Il Cocozza istituiva allora altro giudizio contro l’ENEL per opporsi alla stima, deducendo l’inadeguatezza dell’indennità liquidata nel decreto prefettizio e insistendo per il risarcimento dei danni relativi al periodo di occupazione illegittima.

Riuniti i processi il Tribunale, per quanto qui ancora interessa, così provvedeva:

1) rigettava la domanda del Cocozza tendente alla rivalutazione dell’indennità liquidata nel decreto prefettizio di imposizione della servitù;

2) determinava in L. 939.075 l’indennità di occupazione legittima del fondo predetto, con una differenza in più di L. 31.875 per la maggiore estensione della superficie occupata rispetto a quella poi asservita;

3) condannava l’ENEL al risarcimento dei danni da occupazione illegittima, che liquidava in ragione degli interessi legali dal 17.1.1966 (scadenza del biennio di occupazione legittima) al 30.4.1969 (data del decreto di asservimento) per un totale di L. 605.825.

Contro la sentenza del Tribunale il Cocozza proponeva gravame in base a sei motivi, dei quali il quinto concerneva il risarcimento dei danni.

Con esso l’appellante lamentava che fosse stata rigettata la sua domanda per il risarcimento dei danni per non aver potuto realizzare, mediante vendita, il valore del fondo nel 1966 (quando cioé finì l’occupazione legittima) in quanto:

a) l’elettrodo, così come era stato collocato fin dalla sua installazione, aveva completamente distrutto il fondo, per cui il proprietario non poteva più dare la prova della “mancata realizzazione del corrispettivo valore”;

b) se era vero che per effetto del piano regolatore di zona il proprietario non avrebbe potuto vendere il fondo “de quo” come edificatorio, era pur vero che, fin dal 1970 la normativa urbanistica nella zona non era stata osservata.

La Corte di Appello, con sentenza depositata il 7 aprile 1981, in parziale riforma di quella di 1° grado, così provvedeva:

1) elevata da L. 3.725.000 a L. 3.881.055 la indennità di asservimento (ferma rimanendo la considerazione del terreno “de quo” come agricolo) riconoscendola dovuta per il degrado subito dal fondo, stimato pari al 20% del suo valore nel 1969;

2) determinava in L. 1.833.000 il risarcimento dei danni per la occupazione ultrabiennale ricorrendo, in difetto di dimostrazione dell’effettivo pregiudizio derivatone, al criterio degli interessi legali sull’indennità di asservimento, calcolata, però, in proporzione alla maggior larghezza (mt. 35) dell’area di cui fu disposta l’occupazione rispetto a quella poi asservita, senza poter distinguere tra biennio iniziale e periodo successivo, non conoscendosi quando effettivamente l’occupazione si restrinse alla area poi indicata nel decreto di asservimento. In proposito la Corte di merito effettuava il seguente calcolo:

– interessi dovuti a titolo di indennità per il biennio: lire 570.600

– interessi dovuti a titolo di risarcimento danni per l’occupazione ultra biennale dal 66 al 69: lire 770.460.

Detta somma di lire 770.460 si riduceva però a lire 433.860 perché da essa andava detratto quanto il Cocozza s’era visto liquidare in più del dovuto nel decreto prefettizio di asservimento a titolo di indennità per l’occupazione biennale (lire 907.200 – 570.600 = lire 770.460 – 336.600 = 433.860).

La predetta somma di lire 433.860, rappresentando il risarcimento per l’occupazione ultrabiennale, costituiva un debito di valore (a differenza dell’indennità per l’occupazione biennale che costituiva, invece, debito di valuta) e andava, quindi, rivalutata al 1981 in lire 1.883.000;

3) determinava in lire 14.954.000 il risarcimento dovuto al Cocozza per i danni arrecati alle colture), che riteneva documentalmente provati, in quanto un consulente dell’E.N.E.L. stesso, nelle deduzioni in data 14 dicembre 68, aveva riconosciuto quei danni e li aveva quantificati in lire 3.445.928 in riferimento al 1966 (- che, rivalutati al 1981, assommavano appunto in lire 14.954.000) sulla base del “piano particolareggiato” redatto dal Genio Civile, nel quale si elencavano per specie ed età le piante abbattute.

Avverso la summenzionata sentenza della Corte d’Appello di Napoli ricorre per cassazione l’E.N.E.L. in base a due motivi.

Resiste con controricorso il Cocozza eccependo preliminarmente l’inammissibilità del ricorso.

Motivi della decisione

I motivi per i quali il Cocozza eccepisce l’inammissibilità del ricorso per cassazione proposto dall’E.N.E.L. sono i seguenti: a-) ai sensi dell’art. 330, 3° co. c.p.c., dopo l’anno di pubblicazione della sentenza l’impugnazione, se ancora ammesso dalla legge, si notifica personalmente a norma degli art.li 137 e segg.

c.p.c. e non più presso il procuratore costituito in giudizio. Nella specie, invece, il ricorso per cassazione era stato notificato mediante consegna al domicilio elettivo del Cocozza presso l’avv. Aldo Lombardi che lo aveva difeso nel giudizio di appello; b-) il ricorso è stato proposto dall’E.N.E.L. – Compartimento di Napoli – in persona del direttore ing. Armando Rosati, mentre avrebbe dovuto essere proposto dal rappresentante legale dell’E.N.E.L., che è il suo Presidente in virtù dell’art. 7 del D.P.R. 15 febbraio 1963 n. 1670. Il Direttore di Compartimento, invero, avrebbe la sola rappresentanza attiva e passiva dell’ente in relazione agli affari di sua competenza e nell’ambito della circoscrizione territoriale in cui opera (art. 14, lett. f D.P.R: 21.12.1965 n. 1720); c-) il mandato, nella copia del ricorso per cassazione notificato al Cocozza, risulta firmato da persona diversa dall’ing. Armando Rosati e, quindi, neppure dal Direttore del Compartimento di Napoli; d-) l’E.N.E.L. avrebbe fatto acquiescenza alla impugnata sentenza, compiendo atti incompatibili con la volontà di avvalersi della impugnazione per cassazione (al controricorso è allegata una dichiarazione dell’E.N.E.L. diretta all’avv. Aldo Lombardi, difensore del Cocozza, del seguente tenore: “A sua richiesta del 27.2.1982 Le comunichiamo che in data 16.9.81, in esecuzione della sentenza della Corte d’Appello di Napoli, resa nel giudizio indicato in oggetto, è stata corrisposta al sig. Cocozza Giuseppe … la somma in contanti di lire 31.774.000 oltre la quietanza della Tesoreria Provinciale dello Stato … dell’importo di lire 4.633.000 … La suddetta quietanza rappresenta il deposito da noi effettuato per l’imposizione in via amm.va della servitù sul fondo in agro di Napoli sez. Ponticelli … Poiché, all’epoca dell’iter espropriativo, nei registri catastali figurava ancora proprietaria la ditta Cocozza Raffaele fu Giuseppe (deceduto nel 65), nei confronti dello stesso procedemmo ad effettuare il menzionato deposito … Rimane ovvio, pertanto, che il sig. Cocozza Giuseppe, quale avente diritto dal padre Raffaele, sia legittimato alla riscossione dell’indennità e pertanto si consente il pagamento”).

I suesposti motivi di inammissibilità sono tutti infondati. Ed, invero,:

Sub a)

Dato lo stretto collegamento esistente tra la norma dell’art. 327 c.p.c. e quella dell’art. 330 dello stesso codice, qualora, la parte si avvalga, per la proposizione dell’impugnazione, della sospensione del termine annuale prevista durante il periodo feriale dalla legge n. 742 del 1969, l’atto di impugnazione deve essere notificato in uno dei luoghi indicati dal 1° comma del citato art. 330 e non già personalmente alla parte, come previsto nel caso di notificazione dell’impugnazione dopo l’anno dalla pubblicazione della sentenza (In tal senso giurisprudenza costante. Cfr. Cass. sent.ze n.ri 1391 dell’85, 2414 dell’83, 5792 del ’79, 5066 e 1163 del ’78, 4717 e 3292 del ’77, 1906 del ’76).

Sub b)

L’art. 14 dello statuto dell’E.N.E.L., approvato con D.P.R. 21 dicembre 2065 n. 1720, il quale conferisce al direttore di compartimento “la rappresentanza processuale attiva e passiva in relazione agli affari di sua competenza e nell’ambito della circoscrizione territoriale in cui opera”, pone due criteri alternativi per l’individuazione di tale rappresentanza (la competenza degli affari e la territorialità) e, pertanto, legittima il suddetto direttore di compartimento, con riguardo agli affari di sua competenza, anche alla proposizione del ricorso per cassazione (Conf. Cass. sent.ze n.ri 5678 dell’84, 5804 e 3947 dell’81, 2744 dell’80, 1528 del ’79, 3876 del ’78, 1434 del ’76, 785 del ’72).

Sub c)

La rappresentanza processuale attiva e passiva dell’E.N.E.L., che l’art. 14 sopracitato conferisce al direttore del compartimento, deve ritenersi automaticamente estesa, in tutta la sua latitudine al vice-direttore di compartimento (che nella specie non si nega essere il sottoscrittore del mandato a proporre il ricorso per cassazione) per il caso di assenza o di impedimento del primo, costituendo ciò una conseguenza naturale dell’attribuzione a detto vice-direttore della qualità del “vicario”, per l’espletamento, sia pure in via secondaria e con il ruolo di supplenza, delle stesse funzioni del titolare dell’ufficio. L’esercizio di tale potere di rappresentanza processuale, da parte del vice-direttore di compartimento, non è soggetto, dopo l’entrata in vigore del predetto statuto, alle limitazioni in precedenza fissate dalla delibera del consiglio di amministrazione del 7 febbraio ’64 (firma degli atti anche da parte di un direttore di centro o di settore), attesoché le disposizioni di questa delibera, in tema di organizzazione dell’E.N.E.L., hanno carattere meramente interinale e restano caducate per effetto dell’approvazione dello statuto stesso. (Conf. Cass. sent.ze n.ri 926 dell’82 e 5958 dell’80).

Sub d)

L’acquiescenza a un provvedimento del giudice che ne preclude l’impugnazione può risultare o da una accettazione espressa (desumibile anche da un comportamento che lasci intendere, in maniera precisa ed univoca il proposito di mai contrastare agli effetti di una pronuncia) oppure da una accettazione tacita, consistente in un comportamento incompatibile con la volontà di avvalersi dell’impugnazione.

La spontanea esecuzione della sentenza d’appello, ancorché fatta senza riserve, non costituisce atto incompatibile con la volontà di avvalersi della impugnazione, essendo tale sentenza esecutiva di diritto, sicché il pagamento cui la sentenza stessa condanna deve considerarsi, in mancanza di altri indizi, un fatto equivoco, potendo ben essere determinato dal fine di evitare il danno derivante dall’esperimento degli atti esecutivi, sempre ragionevolmente temibile anche se non sia stata minacciata l’esecuzione o intimato il precetto.

All’applicazione nella specie dei suesposti principi di diritto (del tutto pacifici in giurisprudenza vedi, per tutte, sent.ze n.ri 4253 dell’80, 566 e 629 del ’66) non osta certa il fatto che nella lettera inviata dall’E.N.E.L. all’avv.to Lombardi, difensore del Cocozza, per avvertirlo dell’eseguito pagamento fatto al suo cliente della somma ritenuta dovutagli nella sentenza della Corte di Appello, si dica espressamente: “si consente il pagamento”, in quanto tale frase appare, senza alcuna ombra di dubbio, sintatticamente correlata solo alla premessa, contenuta nella lettera stessa, circa la legittimazione del Cocozza a succedere, in qualità di erede, al padre cui catastalmente risultava ancora intestato il fondo, per il cui asservimento a servitù di elettrodotto era stata pronunciata la condanna al pagamento della somma “de qua”. Nessuna acquiescenza, quindi, si può cogliere nella lettera medesima circa la debbenza oggettiva di tale somma.

E poiché nel ricorso per cassazione con cui l’E.N.E.L. ha impugnato la sentenza della Corte di Appello, è proprio la debbenza oggettiva della somma che viene contestata e non già – neppure minimamente – la legittimità del Cocozza a subentrare, in qualità di erede, nei diritti del padre, non può assolutamente ritenersi che all’ammissibilità di detta impugnazione osti una pregressa acquiescenza alla sentenza impugnata.

Può, pertanto, passarsi all’esame del ricorso per cassazione. Con il primo motivo di esso l’E.N.E.L. denuncia vizio di ultrapetizione e violazione di giudicato interno circa il pagamento delle piante abbattute perché il Cocozza non ne avrebbe fatto domanda in primo grado, né avrebbe mosso censura di appello.

Quanto dedotto nella suesposta censura non può essere condiviso da questa Corte, in quanto dagli atti processuali risulta chiaramente che il Cocozza, fin dall’atto introduttivo del giudizio nel lontano 1967, ha sempre richiesto il risarcimento di tutti i danni subiti, per effetto dell’occupazione del suo fondo da parte dell’E.N.E.L.: lo ha invocato, ancora, nel successivo atto di opposizione alla stima in relazione a quanto liquidatogli nel decreto prefettizio del 30 aprile 69 ed, infine, lo ha reclamato, con specifico motivo d’appello (per la precisione il quinto) col quale aveva impugnato la sentenza del Tribunale per non essere stato in essa sufficientemente tenuto conto, proprio ai fini del risarcimento del danno, della completa distruzione del fondo: doglianza onnicomprensiva questa nella quale ben poteva ritenersi compresa – come i giudici d’appello esattamente hanno ritenuto di poter fare – anche il taglio delle piante avvenuto per effetto della costruzione dell’elettrodotto.

Col secondo motivo di ricorso l’E.N.E.L. lamenta che la Corte del merito non avrebbe dovuto rivalutare la somma relativa al risarcimento dei danni arrecati per la costruzione della linea e ciò in quanto le indennità di espropriazione e di asservimento vanno liquidate con riferimento al valore dell’epoca in cui viene operato il trasferimento o l’asservimento, sicché le relative indennità (costituite dal coacervo di vari indennizzi tra i quali sono compresi i danni prodotti durante la costruzione dell’elettrodotto) costituiscono un debito di valuta e non di valore.

Il motivo è infondato in quanto in esso si confonde il concetto di “indennità” con quello di “risarcimento del danno” che, invece, sono ben distinti nell’art. 123 del t.u. delle disposizioni di legge e sugli impianti elettrici approvato con R.D. 11 dicembre 1933 n. 1775.

Detta norma, infatti, dopo aver stabilito nel 1° comma che “al proprietario del fondo servente è dovuta una indennità la quale deve essere determinata tenendo conto della diminuzione di valore che per la servitù subiscono il suolo e il fabbricato in tutto o in parte”, al 5° comma aggiunge:

“al proprietario debbono inoltre essere risarciti i danni prodotti durante la costruzione della linea, anche per le necessarie occupazioni temporanee”.

E al 6° comma:

“Del pari debbono essere risarciti i danni prodotti col servizio della conduttura elettrica, esclusi quelli derivanti dal normale e regolare esercizio della conduttura stessa”.

Innegabile è, dunque, la contrapposizione che il legislatore fa anche in tema di servitù di elettrodotto, (come più in generale in tutto il campo delle espropriazioni, per pubblica utilità), fra indennità e risarcimento del danno:

con la prima non si tende affatto a reintegrare il patrimonio del soggetto sacrificato per tutta l’estensione del sacrificio impostogli, sicché egli, in definitiva, non abbia a subire perdita alcuna.

Al contrario, si dà per scontato che egli, per superiori esigenze imposte nel pubblico interesse, possa essere sottoposto a perdite economiche che il senso di giustizia oggi imperante (e il cui chiaro riflesso si proietta nell’art. 42, 3° comma della vigente Costituzione) vuole soltanto non rimangano del tutto prive di un qualche apprezzabile ristoro (con la sola esclusione, quindi, dell’indennizzo irrisorio e, come tale, puramente apparente – vedi in tal senso, da ultimo sentt. Corte Cost. n. 5 del 30 gennaio 1980 e n. 223 del 19 luglio 1983).

Il risarcimento dei danni, invece, è un istituto che ha di mira la totale ed esatta reintegrazione del patrimonio del danneggiato, sì da annullare ogni conseguenza negativa del danno da lui sofferto.

Dalla differenza ontologica tra i due suddetti istituti deriva, quale naturale conseguenza, che, mentre la determinazione dell’indennità deve essere contenuta entro limiti oggettivi prestabiliti per legge e in quanto tali, calcolabili “ex ante” (cioé al momento stesso in cui si verifica il fatto negativo: nella specie l’ablazione della proprietà o la riduzione del suo valore per l’assoggettamento ad una servitù), la quantificazione del danno da risarcire va estesa ad ogni perdita soggettivamente risentita dal danneggiato e come tale, calcolabile solo “ex post” in considerazione di tutto il pregiudizio da lui concretamente subito.

Da ciò l’ulteriore evidente conseguenza: che, mentre l’obbligazione per il pagamento dell’indennità costituisce “debito di valuta”, l’obbligazione per il risarcimento del danno costituisce, al contrario, “debito di valore”, e, come tale, deve essere liquidato tenendo conto della svalutazione monetaria nel frattempo verificatasi.

Esattamente, quindi, i giudici di merito hanno nella specie rivalutato il danno risentito dal Cocozza a seguito del danno alle colture subito dal suo fondo durante i lavori di impianto dell’elettrodotto perché tale genere di pregiudizio rientra non nel concetto di “diminuzione di valore del fondo a causa della servitù imposta”, in considerazione della quale il citato art. 123 al 1° comma, prevede una indennità (il danno alle culture, infatti, sembra da riconnettersi non già all’impostazione permanente della servitù in sé, ma ai lavoratori che si resero necessari per la costruzione degli impianti dai quali la servitù deriva, cioé a un fatto che, a differenza del primo, fu occasionale e transitorio), bensì nel concetto di “danno prodotto durante la costruzione della linea” espressamente previsto nel 5° comma del medesimo art. 123 e per il quale è stabilita – come si torna a ripetere – non già una semplice “indennità”, ma un vero e proprio “risarcimento”.

Il ricorso dell’ENEL, pertanto, pur essendo da considerarsi ammissibile, deve essere integralmente rigettato nella sostanza.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del presente grado di giudizio che liquida in L. 82.000 oltre a L.1.000.000 di onorario.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 1° sezione civile, il 3 giugno 1985.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 24 GENNAIO 1986