Svolgimento del processo
Con citazione del 18 marzo 1974 Pier Paolo Casciari e Isolina Fulvia Casoni, ved. Casciari, convenivano davanti al Tribunale di La Spezia la S.p.A. Autocamionale della Cisa esponendo: a) che con decreto 29 dicembre 1973 del Prefetto di Massa Carrara erano stati espropriati, a favore della convenuta e per la costruzione di tronco autostradale, alcuni terreni edificabili di loro proprietà; b) che le indennità erano state fissate in lire 9.521.350 (per l’espropriazione) e in lire 1.851.350 (per l’occupazione temporanea), mentre il “risarcimento dei danni” (per “frutti pendenti”) era stato fissato in lire 931.500; c) che il valore dei terreni era di gran lunga superiore a quello determinato dal decreto prefettizio, così come ben maggiore era l’entità dei danni subiti (per il taglio e l’asportazione delle piante). Dichiaravano, perciò, di proporre opposizione alla stima.
Instauratosi il contraddittorio, la Società convenuta resisteva alla domanda.
Istruita la causa mediante una consulenza tecnica di ufficio, l’adito Tribunale – con sentenza del 22 giugno 1981 – accoglieva la domanda e, pertanto, così elevava le dette somme: a) lire 34.981.600 per indennità di esproprio; b) lire 8.453.800 per indennità di occupazione temporanea; c) lire 931.000 per “risarcimento dei danni”.
Contro tale sentenza proponeva appello la S.p.a. Autocamionale della Cisa, la quale accettava, bensì, la pronunzia relativa alla determinazione della indennità di esproprio, ma si doleva del criterio adottato dai primi giudici per la determinazione dell’indennità di occupazione legittima e la liquidazione dei danni subiti. In ordine alla determinazione dell’indennità, calcolata col criterio sussidiario dell’interesse legale, lamentava che i primi giudici avessero assunto a parametro il valore edificatorio del suolo, anziché quello agricolo. In ordine al risarcimento del danno lamentava che la liquidazione fatta dai primi giudici fosse viziata da “duplicazione” di “voci”.
Con la sentenza denunciata in questa sede (pubblicata il 9 aprile 1983) la Corte di appello di Genova accoglieva il gravame e, pertanto, determinava in lire 1.851.350 l’indennità per l’occupazione temporanea e in lire 90.000 il risarcimento dei danni.
La motivazione è articolata nelle seguenti proposizioni:
1) il terreno espropriato aveva natura edificatoria, ma al momento dell’espropriazione era ancora utilizzato per fini agricoli; di modo che l’indennità di occupazione legittima, in quanto finalizzata a rifondere al proprietario il reddito concretamente perduto, doveva essere ragguagliata alla destinazione agricola. E poiché in concreto la determinazione era stata fatta col criterio “sussidiario” dell’interesse legale sulla somma rappresentativa del valore del fondo, quest’ultimo, per i fini predetti, andava determinato con riferimento, appunto, su quella stessa somma ch’era stata indicata nel decreto di espropriazione;
2) in sede di determinazione dell’indennità di esproprio erano state, erroneamente, comprese le voci: “asservimento galleria” e “soprassuoli per frutti pendenti”; voci avrebbero dovuto, invece, essere considerate in sede di risarcimento del danno. In effetti, il Tribunale le aveva considerate due volte (ai fini dell’indennità e ai fini del risarcimento); ma poiché l’errore non poteva essere corretto con riferimento alla voce “indennità” (in quanto, sul punto, non era stata proposta impugnazione), doveva essere corretto mediante eliminazione della voce “risarcimento”, al fine di evitare una ingiustificata “duplicazione”.
Contro tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione Marco Casciari (a ciò legittimato per avere partecipato al giudizio di appello), Pier Paolo Casciari e Isolina Casoni ved. Casciari, con due motivi di censura.
L’intimata S.p.A. Autocamionale della Cisa non si è costituita in questa fase.
Motivi della decisione
Col primo motivo (denunciando, ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 39 della legge 25 giugno 1965, n. 2359 e dell’art. 1282 cod. civile) i ricorrenti si dolgono che l’indennità di occupazione temporanea sia stata determinata tenendo a parametro il valore agricolo del terreno, fittiziamente calcolato, anziché il valore edificatorio, effettivamente calcolato ai fini della determinazione dell’indennità di espropriazione.
Col secondo motivo (denunciando, ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., “per totale difetto di motivazione”, la violazione degli articoli 112 e 132, secondo comma, del citato codice di rito), i ricorrenti lamentano che i giudici di appello abbiano completamente ignorato la richiesta, da essi formulata in sede di conclusioni (imperfettamente trascritte nell’epigrafe della sentenza), di “rivalutazione degli indennizzi”.
Il primo di detti motivi è fondato.
La giurisprudenza di questa Corte era, in passato, oscillante sul punto se, espropriato un terreno avente natura edificatoria, ma ancora (al momento dell’espropriazione) sfruttato a scopi agricoli, l’indennità di occupazione legittima dovesse essere determinata tenendo a parametro il valore edificatorio, ovvero quello agricolo.
In tempi recenti, però, il contrasto giurisprudenziale sembra del tutto superato, poiché di gran lunga l’orientamento che privilegia l’effettiva natura del suolo e, quindi, il suo reale valore.
In ogni caso, il Collegio aderisce pienamente a quest’ultima impostazione, tenuto conto che, mirando l’indennità di occupazione legittima ad attribuire al proprietario un ristoro per la temporanea indisponibilità del bene, ciò che deve venire in considerazione è il fatto che, dal giorno dell’occupazione stessa, il proprietario perde ogni possibilità di utilizzare il bene secondo la sua naturale “vocazione”, cioé in conformità alla sua effettiva natura e destinazione. Ed è chiaro, allora, che il fatto contingente del temporaneo sfruttamento agricolo, che tuttavia potrebbe anche non sussistere, diviene del tutto irrilevante.
Giova, peraltro, chiarire che il principio enunciato trova applicazione unicamente nel caso (come quello concreto) in cui la determinazione dell’indennità di occupazione legittima sia fatta col criterio c.d. “sussidiario”, elaborato dalla giurisprudenza per il caso che il proprietario del fonto non dimostri il quantum del pregiudizio subito; perché è chiaro che se il pregiudizio fosse maggiore di quello fittiziamente quantificato mediante il calcolo degli interessi (nella misura legale) sulla somma rappresentativa del valore del fondo, al proprietario non potrebbe, certo ritenersi precluso di dimostrare il quantum del pregiudizio effettivo patito a conseguire il relativo indennizzo.
L’esaminato motivi di ricorso deve, pertanto, essere accolto, e già per questa ragione, l’impugnata sentenza deve essere cassata.
Il secondo motivo di ricorso è, invece fondato solo in parte. E’ sicuramente infondato nella parte relativa alla pretesa di ottenere la rivalutazione monetaria degli “indennizzi” (veri e propri). Com’é noto, le indennità per occupazione legittima ed espropriazione concretano “debiti di valuta” che, in quanto tali, non sono soggetti al principio della rivalutazione monetaria. Essi devono, per legge, essere depositati dall’Ente espropriante nella Cassa Depositi e Prestiti;e solo un ingiustificato o irragionevole ritardo del deposito può essere, in presenza di una formale richiesta, compensato mediante la corresponsione di interessi (nella misura legale). Richiesta che, nel caso di specie, non risulta essere mai stata formulata.
E’ chiaro, allora, che non può essere mossa una fondata censura alla sentenza impugnata, per non avere espressamente preso in considerazione quella domanda, della quale deve ritenersi implicita (e corretta) la reiezione.
Gli appellati (odierni ricorrenti) avevano, però, adoperato il termine “indennizzi” attribuendo sicuramente ad esso un significato generico, tale cioé da ricomprendervi anche la voce “risarcimento del danno”, al quale l’ente espropriante è stato condannato.
Dalla sentenza impugnata non è dato di comprendere, con esattezza, per quale fatto illecito dell’ente espropriante quest’ultimo sia stato condannato al risarcimento dei danni. E’ certo, però, che la condanna è stata pronunciata e che di essa l’ente predetto non si è doluto (si era, infatti, doluto in appello solo per il quantum).
Non v’é dubbio, allora, che in presenza di un autonomo capo di pronuncia (di primo grado) che condannava al risarcimento dei danni, comunque impugnato, i giudici di appello, pur riducendone l’ammontare complessivo, avrebbero tuttavia dovuto considerare che si trattava pur sempre di un “debito di valore” e avrebbe dovuto, quindi, procedere alla rivalutazione monetaria della somma residuante dalla riduzione operata. La relativa omissione, perciò, legittima i ricorrenti a dolersene in questa sede, formalmente impugnando anche il capo di pronuncia relativo alla condanna per “risarcimento dei danni”; di modo che anche per questa ragione la sentenza pronunciata in grado di appello deve essere cassata.
La causa deve, pertanto, essere rinviata per il riesame ad un altro giudice (che si designa in un’altra Sezione della stessa Corte di appello di Genova), tenuto a uniformarsi agli enunciati principi di diritto. Al detto giudice può, per ragioni di opportunità, essere rinviata anche la pronuncia sulle spese di questa fase di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie integralmente il primo motivo di ricorso e per quanto di ragione il secondo; cassa l’impugnata sentenza e rinvia la causa, per il riesame e la pronuncia sulle spese di questa fase di cassazione, a un’altra Sezione della stessa Corte di Appello di Genova.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Prima Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 17 giugno 1985.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 17 GENNAIO 1986