Svolgimento del processo

Con sentenza 12.1.1981 il Pretore di Napoli, in accoglimento della domanda proposta da Andrea Cuman dichiarava costituito dal 23-1-1981 un rapporto di lavoro subordinato fra il medesimo e la Società per l’Esercizio di Pubblici Servizi (S.E.P.S.A.) che non aveva inteso assumere lo stesso Cuman benché avviato al lavoro dal competente Ufficio, su richiesta nominativa e condannava la società a pagare le retribuzioni maturate da tale data fino all’effettiva ammissione al lavoro.

Il Tribunale di Napoli, con sentenza 21-1-83, su appello della S.E.P.S.A., che, nel frattempo aveva corrisposto la retribuzione fino al dicembre 1982, riformava la sentenza pretorile, rigettando la domanda.

Pendendo ricorso per cassazione, Andrea Cuman, sulla base della sentenza riformata, il 23-2-83 notificava alla SEPSA precetto per il pagamento della retribuzione relativa al gennaio 1983.

Il Pretore di Napoli rigettava l’opposizione proposta dalla SEPSA che aveva contestato il diritto del Cuman a procedere ad esecuzione forzata dopo la sentenza di riforma ed aveva chiesto anche la restituzione delle retribuzioni già corrisposte in ottemperanza alla sentenza del Pretore.

Il Tribunale di Napoli, con sentenza in data 21 maggio – 19 luglio 1984, rigettava, a sua volta, l’appello della SEPSA, che riteneva infondato, per i seguenti motivi.

La impugnata decisione aveva rettamente applicate le norme degli artt. 336, 337 e 373, la cui interpretazione coordinata, in una con l’attuale pendenza di ricorso per cassazione avverso la sentenza di riforma, permettevano di affermare, con il primo giudice, che gli effetti della sentenza riformata, già prodottisi, restavano fermi fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma.

Questa, infatti, consistendo in una pronuncia assolutoria, non era suscettibile di esecuzione forzata ai sensi dell’art. 337 C.P.C. e la sua inefficacia provvisoria, ex art. 336 comma II C.P.C. lasciava inalterato il rapporto di lavoro costituito “de iure” e “de facto” in esecuzione coatta o spontanea della pronuncia di I grado.

Tale rapporto, instaurato come autonoma fattispecie sostanziale dipendente dalla sentenza che lo aveva accertato, restava insensibile alla sentenza di riforma e, quale rapporto di durata, continuava ad essere vincolante per le parti, in ossequio alla finalità di conservazione degli atti e loro effetti sostanziali e, soprattutto, alla funzione, congeniale al civile svolgimento del processo, di evitare che l’assetto degli interessi coinvolti nella lite, realizzato in forza di sentenza provvisoriamente esecutiva, potesse modificarsi in dipendenza delle eventuali contrastanti pronunzie susseguentisi nel corso dello stesso processo (S.U. 15-3-1982 n. 1669).

A nulla rilevava la circostanza che nella fattispecie il datore di lavoro avesse preferito corrispondere al lavoratore la retribuzione, rifiutandone l’opera, poiché l’esecuzione indiretta, costituendo il prezzo della inosservanza dell’ordine del giudice, non poteva produrre, per l’obbligato, conseguenze meno onerose di quelle derivanti dall’ottemperanza.

Come la SEPSA avrebbe dovuto mantenere in servizio il Cumano fino al passaggio in giudicato della sentenza del Tribunale, se lo avesse ammesso al lavoro, così essa doveva ora continuare a versargli la retribuzione fino a tale momento.

Contro tale decisione la SEPSA ha proposto ricorso per cassazione fondato su un unico motivo.

L’intimato non si è costituito in giudizio né ha depositata procura al difensore per la discussione.

Motivi della decisione

La ricorrente denuncia errata interpretazione ed applicazione degli artt. 336, 337 e 373 del C.P.C. per avere il Tribunale, nella impugnata sentenza, pur mancandone il presupposto, ritenuto applicabile al caso di specie il principio secondo cui il datore di lavoro inottemperante all’ordine giudiziale di reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato (art. 18 l. 20 maggio 1970 n. 300) è tenuto a corrispondere la retribuzione fino al passaggio in giudicato della sentenza d’appello che abbia dichiarato legittimo il licenziamento.

Vertendosi nella ipotesi di costituzione coattiva del rapporto a seguito di avviamento al lavoro e non già nella ipotesi di rapporto interrotto dal licenziamento e ricostituito dalla sentenza di reintegrazione provvisoriamente esecutiva, i cui effetti sostanziali sopravvivono alla sua riforma, fino al passaggio in giudicato della sentenza d’appello, questa, secondo la ricorrente, nel caso di specie ha spiegata immediata efficacia sulla sentenza riformata, cui si è sostituita fin dalla sua pubblicazione, caducandone le statuizioni riformate e quelle che ne dipendono ex art. 336, I comma C.P.C. e facendone venir meno anche l’idoneità a fungere da titolo esecutivo.

Ne consegue che l’atto di precetto, notificato dal Cuman dopo la pubblicazione della sentenza di riforma è nullo per mancanza del titolo esecutivo.

Il ricorso risulta fondato, sia pure per motivi in parte diversi da quelli portati a sostegno di esso.

Preliminarmente deve rilevarsi come, in coerenza con l’impostazione generale data all’assunto ivi sostenuto relativamente agli effetti permanenti sia attribuiti al comando giudiziale di ammissione al lavoro del lavoratore avviato sia riconosciuti al pagamento della retribuzione eseguito dall’imprenditore inottemperante all’ordine, fino alla sentenza di riforma in appello, accertante la legittimità del suo comportamento, la impugnata sentenza, nel ritenere perdurante l’obbligo retributivo fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma, prescinda completamente dalla motivazione di questa, attinente al merito della controversia e, in particolare, non tenga conto del fatto che la domanda del lavoratore sia stata rigettata in appello a motivo della ritenuta impossibilità di costituire con sentenza ex art. 2932 C.C. un rapporto di lavoro subordinato fra il lavoratore avviato e il datore di lavoro che si rifiuti di assumerlo, giusta il costante orientamento interpretativo di questa S.C. (cfr. Sez. Lav. 24.6.1986 n. 4207; 6-6-1984 n. 3416; 10-3-1984 n. 1668; 10-2-1984 n. 1045).

Se, infatti, la sentenza di riforma assolutoria non è idonea, come si sostiene nella impugnata sentenza, a rimuovere, fino al suo passaggio in giudicato, gli effetti permanenti prodotti dalla esecuzione provvisoria della sentenza di condanna riformata, la situazione di vantaggio processuale non può non restare inalterata fino a tale momento, a prescindere dalla particolare motivazione della riforma ed anche se questa, come nel caso di specie, attenga addirittura ai presupposti dell’obbligo di contrarre e dalla sentenza costitutiva ex art. 2932 C.C..

Non può tuttavia condividersi l’assunto della impugnata sentenza secondo cui il rapporto di lavoro instaurato come autonoma fattispecie sostanziale dipendente dalla sentenza che lo ha accertato resta insensibile alla sentenza di riforma fino al passaggio in giudicato di questa, perdurando, fino a tale evento, a carico del datore di lavoro inottemperante al comando giudiziale di assunzione del lavoratore avviato, l’obbligo di retribuirlo anche dopo la sentenza di riforma assolutoria.

Come già ritenuto da questa Corte con le recenti sentenze n. 1328 e 1332 del 7 febbraio 1987, discostantisi dall’orientamento consolidatosi con la sentenza n. 1669-1982 delle S.U. e successive, da cui la impugnata decisione mutua talune enunciazioni generali per farne applicazione nel particolare caso di specie, la ragione di fondo del dissenso, che qui si conferma, sta in ciò che tale indirizzo postula una costruzione teorico-dogmatica in materia di effetti sostanziali permanenti propri degli atti esecutivi della sentenza riformata, costruzione ove si giunge alla individuazione di atti d’esecuzione del comando giudiziale, aventi efficacia costitutiva, ma che, a giudizio nuovo e meditato di questa Corte, non trova un reale riscontro nel sistema positivo.

Nell’affrontare la complessa tematica relativa ai limiti di compatibilità fra l’effetto sostitutivo immediato, prodotto dalla sentenza di riforma sulle parti della sentenza direttamente investite e sulle parti che ne dipendono (art. 336 comma I C.P.C.) e la stabilizzazione degli atti compiuti in esecuzione della sentenza poi riformata (stesso art. 336 comma II) le citate sentenze, dalla cui soluzione conclusiva ora ci si discosta, riaffermano, innanzi tutto, il principio, già da tempo consolidato nella giurisprudenza di questa S.C., secondo cui l’effetto sostitutivo, proprio della sentenza di riforma assolutoria, fa sì che la sentenza riformata perda immediatamente qualsiasi efficacia, tanto d’accertamento quanto di condanna, restando in essa priva anche della idoneità a fungere da titolo esecutivo, nella ipotesi in cui sia provvisoriamente eseguibile “ope legis” od “ope iudicis”, il che implica l’impossibilità di proseguire di proseguire nella esecuzione in precedenza iniziata, poiché l’esistenza del titolo è richiesta in ogni momento del processo e la sua caducazione impedisce il compimento di altri atti esecutivi nello stesso processo.

Anche la provvisoria esecutività della sentenza (di primo grado) non si sottrae, perciò, a tale regola, esaurendo essa la sua funzione “lato sensu” cautelare ed anticipatoria con la pronuncia della sentenza d’appello, poiché questa, tanto di conferma quanto assolutoria, costituisce il naturale limite della sua efficacia.

Peraltro, l’effetto sostitutivo, secondo le menzionate decisioni, non interferisce, se non dal passaggio in giudicato della sentenza di riforma, sugli esecutivi compiuti prima di questa, sicché fino a tale momento, lascia fermi ed operanti, oltre alle situazioni di natura reale, anche i rapporti obbligatori di tipo continuativo che siano stati costituiti da iure o de facto in esecuzione volontaria o coattiva della pronuncia riformata.

Di tale enunciato questa Corte ritiene di dover condividere, come aderente ad una pressoché indiscussa interpretazione dell’art. 336 cpv. c.p.c., soltanto l’affermazione che sono conservati fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma, gli atti e provvedimenti dipendenti dalla sentenza riformata, compresi gli atti di provvisoria esecuzione di quest’ultima, come del resto lo stesso Tribunale nella impugnata sentenza non ha mancato di rilevare. Ulteriori approfondimenti, anche alla luce dei più recenti contributi dottrinali, non permettono, invece, di condividere l’ulteriore assunto secondo cui gli atti compiuti in esecuzione volontaria o coattiva di sentenze aventi efficacia costitutiva ex art. 2908 c.c. (come la sentenza di reintegrazione ex art. 18 citato) sono idonei ex se a creare rapporti e situazioni di diritto sostanziale, identici a quelli già costituiti dalla sentenza riformata e tali da resistere, diversamente dai primi, alla sentenza di riforma, fino al passaggio in giudicato di questa.

Tale assunto, come già rilevato da questa Corte nelle più recenti sentenze citate, contraddice, invero, al pur riconosciuto effetto sostitutivo, proprio della sentenza di riforma, che travolge la pronuncia riformata e le statuizioni dipendenti, senza che nel sistema si rinvengono dati positivi tali da far definire istituzionale una deroga del genere.

Se, infatti, la sentenza assolutoria di appello si sostituisce, sotto ogni profilo, all’accertamento della sentenza riformata, la qualificazione giuridica, sul piano sostanziale, dei fatti dedotti in causa può essere desunta soltanto dalla sentenza di riforma, né è possibile ipotizzare la coesistenza di due accertamenti contrastanti né, tanto meno, risolvere il conflitto riconoscendo all’effetto conservativo previsto dall’art. 336 cpv. c.p.c. una assoluta prevalenza sull’effetto sostitutivo che è proprio della sentenza di riforma e che toglie alla sentenza riformata l’efficacia di accertamento e la vis executiva (art. 336 prima parte).

Il coordinamento logico-sistematico delle due disposizioni porta, infatti, ad individuare, come limiti necessari di coesistenza, quelli che assegnano, da un lato, una prevalenza immediata all’effetto sostitutivo proprio della sentenza di riforma è dall’altro, stabilità, fino al passaggio in giudicato di questa, ai soli atti e provvedimenti precedentemente compiuti ed emessi in esecuzione della sentenza riformata.

Né il regime, così delineato, va incontro a modificazioni nei rapporti giuridici continuativi o di durata, alla cui categoria appartiene anche il rapporto di lavoro, laddove l’esecuzione provvisoria della sentenza di accertamento del rapporto e di condanna ad adempiere le obbligazioni relative assolve alla sola funzione di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto già accertata.

Così, anche nelle varie ipotesi di esecuzione forzata in forma specifica (consegna o rilascio: art. 2930; obblighi di fare e di non fare: artt. 2931 e 2933 c.c.) l’attività di adeguamento al comando giudiziale non produce effetti che non siano già previsti dalla sentenza di condanna, restandosi, perciò, nei limiti di una attività meramente effettuale.

Analogamente, gli atti compiuti per la esecuzione volontaria o coattiva di sentenze di accertamento o costitutive, recanti condanna all’adempimento (quali, ad esempio, la distribuzione del ricavato; la consegna della cosa mobile; l’immissione nel possesso o nella detenzione dell’immobile) esauriscono in sé la loro funzione di mero adeguamento della realtà di fatto a quella giuridica, producendo gli effetti sostanziali tipici dell’adempimento, in conformità alla relazione di diritto sostanziale accertata dalla sentenza.

La norma dell’art. 336 cpv prevede, appunto il rinvio dell’effetto estensivo proprio della riforma, mantenendo integre le attribuzioni patrimoniali e le modificazioni sostanziali realizzate prima della riforma e procrastinando al passaggio in giudicato di questa l’attuazione del diritto della parte vittoriosa ad ottenere, in base ad essa, la restituzione di quanto dato o la riduzione in pristino di quanto modificato.

Non può, pertanto, condividersi il già richiamato asserto delle sentenze del 1982 e seguenti, secondo cui, in particolare: a) la temporanea paralisi dell’effetto estensivo proprio della sentenza di riforma rende inefficace la caducazione della sentenza riformata nell’ambito della fattispecie pregiudicata, questa restando provvisoriamente idonea a sorreggere l’effetto giuridico prodotto sulla base della sentenza riformata; b) nell’area dell’esecuzione in forma specifica l’inefficacia della riforma rende stabile non la mera attività materiale di adeguamento (consegna della cosa mobile; rilascio dell’immobile etc.) ma l’effetto giuridico realizzato in conformità alla declaratoria iuris; c) dopo la riforma restano, perciò, fermi e continuano a produrre effetti, oltre alle situazioni di natura reale, i rapporti obbligatori continuativi ripristinati o costituiti da iure o de facto in esecuzione volontaria o coattiva della sentenza riformata.

Neppure nell’ambito dell’esecuzione in forma specifica, osserva, di contro la Corte, è dato evidenziare alcuna attività esecutiva o di attuazione del comando giudiziale, idonea ad instaurare od a ricostituire rapporti obbligatori continuativi come autonome fattispecie sostanziali dipendenti dalla sentenza che le accerta, tali perciò da sopravvivere alla riforma di questa, fino al passaggio in giudicato della sentenza di appello.

Né sembra valido il riferimento, d’ordine sistematico, alla esecuzione della sentenza che condanna il locatore a consegnare la cosa locata al conduttore, per potersi ritenere che, anche in tale ipotesi, l’esecuzione forzata o volontaria del comando giudiziale realizza un rapporto autonomo (di locazione) che resiste all’effetto estensivo proprio della sentenza di riforma (accertante l’inesistenza del rapporto locatizio) fino al passaggio in giudicato di essa.

L’unico effetto sostanziale reso stabile anche dopo la riforma, invero, consiste nella mera immissione del conduttore nella detenzione della cosa, poiché il rapporto locatizio, accertato con la sentenza e reso effettivo con la consegna, sopravvive, come tale, alla riforma della sentenza.

D’altra parte, la consegna della cosa ne assicura, ex se, il godimento al conduttore, conformemente al dictum esecutivo e con effetti che permangono anche dopo la riforma della sentenza di I° grado e fino al suo passaggio in giudicato, realizzando così una semplice situazione di vantaggio processuale a favore del consegnatario, per essersi la detenzione a titolo locatizio trasformata in situazione di mero fatto (peraltro non antigiuridica, poiché resa stabile “ope legis” fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma).

Del che trovasi conferma, d’ordine sistematico, nel regime della responsabilità per danni da ritardato rilascio, in cui come si riconosce nelle stesse decisioni dalle quali ora si dissente, può incorrere il detentore che, nell’ambito della legalità formale, abbia continuato ad avvalersi della provvisoria esecutività della sentenza anche dopo la sua riforma e nonostante il prevedibile esito finale della lite.

Come è stato rilevato in dottrina, la sentenza non trasforma la relazione di diritto sostanziale fra parte vittoriosa e parte soccombente, restando essa regolata dal rapporto sostanziale accertato.

Si spiega, così, anche l’ipotesi di responsabilità aggravata per ingiusta esecuzione, qual è regolata dall’art. 96 comma 2° c.p.c. sul presupposto che l’atto processuale efficace possegga una temporanea idoneità ad incidere in maniera illecita (dal punto di vista del diritto sostanziale) sulla sfera giuridica dell’obbligato.

Le considerazioni fin qui svolte portano, dunque, ad affermare che mentre, per un verso, il mero adeguamento materiale ad dictum esecutivo realizza l’attività necessaria e sufficiente, richiesta dalla legge affinché l’accertamento sostanziale possa produrre, nella realtà fenomenica, gli effetti che gli sono propri, per altro verso, soltanto tale attività esecutiva resta stabilizzata, con i suoi effetti sostanziali, fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma.

D’altra parte, come ancora si è rilevato in sede dottrinale, gli effetti sostanziali di un atto o provvedimento del processo sono previsti solo da specifiche norme dal c.c. (art. 2943; 2642 e segg.; 2908; 2818 e 2884; 2913; 2906) mentre agli atti d’esecuzione volontaria o coattiva delle sentenze provvisoriamente esecutive il sistema normativo attribuisce, come già detto, la sola efficacia propria degli atti necessari e sufficienti ad adeguare la situazione di fatto a quella di diritto, a portare, cioé, ad effetto l’adempimento, essendo essi da soli inidonei a produrre effetti costitutivi, come quelli propri, invece, degli atti e provvedimenti di cui alle norme sopra citate.

La teoria della fattispecie autonoma che si costituisce in virtù degli atti d’esecuzione della sentenza e che sopravvive alla fattispecie caducata dalla sentenza di riforma, come si osserva ulteriormente in dottrina, postula una astrazione del risultato del processo dalla sua base sostanziale, che non trova riscontro nel sistema normativo, ove all’esecuzione volontaria o coattiva del comando giudiziale è riconosciuta una funzione meramente attuativa del rapporto già ricostituito de iure dalla sentenza e, con essa, l’idoneità a produrre i limitati effetti tipici degli atti d’adempimento.

Le sopra svolte considerazioni generali, riferite al tema specifico di causa, non permettono di condividere l’assunto espresso dalle citate decisioni del 1982 e successive, nonché dalla impugnata sentenza, secondo cui anche il solo pagamento della retribuzione dovuta al lavoratore non immesso nel posto di lavoro in esecuzione del comando giudiziale (nel caso di specie, in esecuzione della sentenza costitutiva del rapporto con il lavoratore avviato) è atto idoneo a costituire in via autonoma il rapporto accertato con la sentenza, realizzandosi, così, una fattispecie che dipende da essa e che resta insensibile all’effetto estensivo proprio della sentenza d’appello assolutoria, fino a quando questa passi in giudicato.

Il pagamento della retribuzione, quale atto dipendente dalla sentenza che ordina l’ammissione al lavoro del lavoratore avviato, invero, si pone chiaramente al di fuori della fattispecie costitutiva del rapporto, alla cui formazione solo la pronuncia giudiziale appare elemento necessario e sufficiente, né esso, pur costituendo adempimento del comando giudiziale, i cui tipici effetti sostanziali sono conservati fino al passaggio in giudicato della sentenza, può definirsi atto idoneo a protrarre l’obbligo retributivo oltre la pubblicazione della sentenza di riforma che ha rigettato la domanda.

Nemmeno può essere condiviso l’ulteriore assunto delle citate decisioni e della impugnata sentenza, secondo cui: a) l’obbligo retributivo costituisce un effetto permanente dell’inottemperanza all’ordine del giudice e, perciò datasi attuazione ad esso mediante il meccanismo dell’esecuzione indiretta, questa legittimamente è proseguita dopo la riforma, essendosi in presenza di un effetto dipendente dalla pronuncia riformata; b) l’esecuzione indiretta, quale prezzo dell’inosservanza dell’ordine del giudice, non può dare luogo, per l’obbligato, a conseguenze meno onerose di quelle che egli subirebbe in caso di ottemperanza, cosicché l’obbligo retributivo è destinato ad operare fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma.

L’interpretazione della norma (art. 336 C.P.C.) ed i dati del sistema in cui essa si inserisce non permettono, infatti, di ritenere che la fattispecie normativa del pagamento della retribuzione, realizzata mediante l’esecuzione volontaria o coattiva dell’obbligo, sia idonea a produrre effetti sostanziali diversi da quelli tipici della prestazione periodica che esaurisce in sé la sua limitata funzione satisfattoria e che, pertanto, non può valere a rendere l’obbligo retributivo operante anche dopo la sentenza di riforma che ne accerti, invece, l’inesistenza.

La costruzione da cui questa Corte ora dissente, dell’obbligo retributivo che sopravvive alla riforma, quale prezzo giudiziale di ammissione al lavoro, come si osserva in dottrina, postula, d’altra parte, una abnorme resistenza del provvedimento giurisdizionale divenuto illegittimo, la quale non trova riscontro nel dato normativo e contrasta, inoltre, con il fondamentale principio del sistema secondo cui il processo non può dare vita a situazione di vantaggio processuale (come quella derivante dalla provvisoria esecutività della sentenza) che restano irreversibili dopo la caducazione del titolo e che precludano la ripetizione dell’indebito o il risarcimento dei danni, anche se il titolo sia costituito da un atto autoritativo (divenuto poi illegittimo).

Con la pubblicazione della sentenza di riforma cessa, infatti, l’obbligo retributivo ed i precedenti atti, compiuti in esecuzione coattiva o volontaria di esso, come non possono costituire valida premessa alla prosecuzione della esecuzione stessa, così, restano inidonei, come già prima, ad instaurare rapporti o situazioni sostanziali autonome che si sostituiscono a quelle accertate con la sentenza oggetto di riforma e che, a differenza di esse, possano resistere, come dipendenti dalla sentenza riformata, all’effetto estensivo, proprio della sentenza di riforma, fino al passaggio in giudicato di questa.

Le precedenti considerazioni fanno, dunque, risultare non conforme a legge l’assunto della impugnata sentenza secondo cui l’obbligo di pagare la retribuzione al lavoratore avviato si è protratto, a carico del datore di lavoro inottemperante all’ordine giudiziale, anche dopo la sentenza di riforma e fino al passaggio in giudicato di questa.

La sentenza del Tribunale di Napoli deve, pertanto, essere cassata, con rinvio della causa ad altro giudice d’appello che esaminerà l’impugnazione proposta dalla attuale ricorrente, attenendosi ai principi sopra enunciati e provvedendo, inoltre, al regolamento delle spese del presente giudizio (artt. 383 e 385 C.P.C.).

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa e rinvia anche per le spese, al Tribunale di Avellino.
Così deciso il 12 marzo 1987.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 10 NOVEMBRE 1987