Svolgimento del processo

Con ricorso depositato il 10.2.1983 Antonio Guerrera adiva il Pretore di Scalea chiedendo condannarsi l’E.N.E.L. a pagargli, con la rivalutazione e gli interessi, la somma di L. 21.582.183.

Esponeva che con sentenza dello stesso pretore in data 17.5.1980 notificata all’ENEL in forma esecutiva unitamente al precetto era stato dichiarato illegittimo il licenziamento intimatogli dall’Ente ed era stata ordinata la reintegrazione nel posto di lavoro ma il datore di lavoro non aveva ottemperato; che la sentenza era stata riformata dal Tribunale di Paola con sentenza del 4-11-1980 e pendeva giudizio di cassazione; che, malgrado tutto ciò, ad esso Guerrera competeva il diritto alla retribuzione fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma; che era rimasto creditore, a tale titolo, della somma richiesta.

Il convenuto, richiamandosi alla sent. n. 1669-82 delle S.U. di questa Suprema Corte opponeva che nel periodo compreso fra la sentenza di reintegrazione e quella di riforma, oltre a non esservi stata riammissione in servizio, non era stato compiuto alcun atto d’esecuzione della sentenza riformata diretto ad ottenere il pagamento della retribuzione ed i cui effetti potessero sopravvivere alla riforma, fino al passaggio in giudicato della sentenza d’appello assolutoria (art. 336 1° e 2° co. C.P.C.).

Il Pretore accoglieva la domanda, con le conseguenziali pronuncie. Il Tribunale di Paola, con sentenza in data 6.12.1983 – 10.3.1984, rigettava l’appello proposto dall’ENEL, ritenendo che in forza delle concordanti disposizioni dell’art. 18 legge 20.5.1970 n. 300 e dell’art. 336 cpv C.P.C., pur dopo la riforma della sentenza che ne aveva dichiarato illegittimo il licenziamento e ne aveva ordinata la reintegrazione nel posto di lavoro (ed a cui il datore di lavoro non aveva ottemperato) il Guerrera aveva fondato titolo ad agire in cognizione piena per ottenere la condanna dell’ENEL a corrispondergli le retribuzioni dovutegli, non solo il periodo compreso fra le due sentenze di merito, ma anche in quello successivo e fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma.

Richiamandosi ai principi enunciati dalle S.U. di questa Corte con sentenza n. 1669-82 e successive il Tribunale riteneva, in particolare, che una interpretazione all’art. 18 comma 2° aderente alla sua finalità di coercizione indiretta e sanzionatoria postulava che l’obbliga retributivo ivi previsto in caso di mancata reintegrazione, permanesse oltre la sentenza di riforma e fino alla formazione del giudicato e che al lavoratore fosse conseguentemente consentito di agire fino a tale momento per conseguire la retribuzione dovutagli.

L’obbligo retributivo costituiva poi, secondo il Tribunale, quella parte del rapporto accertato in sentenza che nella specie era stata anche concretamente ripristinata, con effetto sostanziale permanente fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma; e ciò mediante al notificazione, in forma esecutiva e con il precetto, della sentenza pretorile che ordinava la reintegrazione nel posto di lavoro, essendosi così realizzata una fattispecie normativamente prevista, dipendente dalla sentenza e operante fino alla formazione del giudicato.

Il ricorso da parte del lavoratore ad una autonoma azione di cognizione, come quella di specie, era d’altra parte, esperibile in qualsiasi momento fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma, avendo essa una distinta causa petendi costituita dal diritto di credito nascente dal ricostituito rapporto di lavoro.

Contro tale decisione l’ENEL ha proposto ricorso per cassazione articolato in tre motivi ed a cui l’intimato resiste con controricorso ove deduce, agli effetti ivi indicati che questa Corte con sent. 12.2.1985 n. 1173 ha cassato con rinvio la sentenza di riforma assolutoria.

Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 100 e 336 comma II C.P.C. nonché 18 della legge 20.5.1970 n. 300, in relazione all’art. 360 comma I n. 3 C.P.C. deducendo:

= che il giudice d’appello nella impugnata sentenza ha erroneamente ritenuto sussistente l’interesse del lavoratore ad agire in giudizio per il pagamento della retribuzione dovutagli in base alla sentenza pretorile di reintegrazione nel posto di lavoro, nonostante che tale pronuncia fosse stata riformata con la sentenza d’appello assolutoria;

= che lo stesso giudice d’appello ha ritenuto, quale effetto della sentenza ordinante al reintegrazione nel posto di lavoro, la costituzione di un nuovo autonomo rapporto di lavoro, senza considerare che, prima della sentenza di riforma, esso non era stato ripristinato sul piano effettuale e non poteva produrre, perciò, effetti sostanziali dopo la riforma, a norma dell’art. 18 comma I, II e III e dell’art. 336 comma Ii C.P.C.

Il motivo merita accoglimento, perché con esso si propone fondata censura dell’assunto in base dell’impugnata pronuncia, secondo cui l’obbligo retributivo ex art. 18 comma 2° della legge 20 maggio 1970 n. 300, costituendo il mezzo di esecuzione indiretta dell’incoercibile ordine di reintegrazione nel posto di lavoro, persiste fino a quando all’ordine stesso sia data concreta attuazione e, se il creditore ne consegue, o agisca giudizialmente per conseguire l’adempimento prima della sentenza d’appello che accerta la legittimità del licenziamento, ciò produce effetti sostanziali di riattivazione del rapporto di lavoro, i quali effetti sopravvivono alla riforma della sentenza di reintegrazione fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma ai sensi dell’art. 336 cpv.

C.P.C. cosicché l’esecuzione dell’obbligo retributivo può proseguire anche dopo di essa.

Sulla base di tale assunto, sostanzialmente conforme all’indirizzo interpretativo di questa S.C., contenuto nelle sentenze 15.3.1982 n. 1669, 10.5.1982 n. 2872, 2873 e 2874 delle S.U. e successive della Sezione del Lavoro, il Tribunale di Paola, nel caso di specie, ha ritenuta legittima la domanda di pagamento della retribuzione che era stata proposta dal Guerrera contro l’ENEL dopo la riforma in appello della sentenza pretorile di reintegrazione nel posto di lavoro e pendente ricorso per cassazione. La decisione, peraltro, non può dirsi conforme a legge. Come già ritenuto da questa Corte con le sentenze n. 1328 e n. 1332 del 7 febbraio 1987 discostantisi dal menzionato indirizzo, la ragione di fondo del dissenso, che qui si conferma, sta in ciò che esso postula una costruzione teorico-dogmatica in materia di effetti sostanziali permanenti propri degli atti esecutivi della sentenza riformata, in cui si giunge fino alla individuazione di atti d’esecuzione del comando giudiziale aventi efficacia costitutiva e che peraltro a giudizio di questa Corte, non trova un reale riscontro nel sistema positivo. Nell’affrontare la complessa tematica relativa ai limiti di compatibilità fra l’effetto sostitutivo immediato, prodotto dalla sentenza di riforma sulle parti della sentenza direttamente investite e sulle parti che ne dipendono, ( art. 336 comma I C.P.C.) e la stabilizzazione degli atti compiuti in esecuzione della sentenza poi riformata (stesso art. 336 comma II) le citate sentenze riaffermano innanzitutto il principio già consolidato nella giurisprudenza di questa S.C., secondo cui l’effetto sostitutivo proprio della sentenza di riforma assolutoria fa sì che la sentenza riformata perda immediatamente qualsiasi efficacia tanto di accertamento quanto di condanna, restando priva anche della idoneità a fungere da titolo esecutivo, nella ipotesi in cui sia provvisoriamente eseguibile “ope legis” od “ope indicis”, ciò implicando anche l’impossibilità di proseguire l’esecuzione in precedenza iniziata, poiché l’esistenza del titolo è richiesta in ogni momento del processo e la sua caducazione impedisce il compimento di altri atti esecutivi nello stesso processo.

Anche la provvisoria esecutività della sentenza non si sottrae, perciò, a tale regola, esaurendo essa la sua funzione “lato sensu” cautelare ed anticipatoria con l’emanazione della sentenza d’appello che, tanto si conferma della condanna, quanto assolutoria, costituisce il naturale limite della sua efficacia.

Peraltro, l’effetto sostitutivo, secondo le menzionate decisione, non interferisce, se non dal passaggio in giudicato della sentenza di riforma, negli atti esecutivi compiuti prima di questa, sicché, fino a tale momento, la scia fermi ed operanti, oltre alle situazioni di natura reale, anche i rapporti obbligatori di tipo continuativo che siano stati costituiti da iure o de facto in esecuzione volontaria o coattiva della pronuncia riformata.

Di tale enunciato questa Corte ritiene di dover pienamente condividere, come aderente ad una pressoché indiscussa interpretazione dell’art. 336 cpv. C.P.C., l’affermazione che sono conservati fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma, gli atti e provvedimenti dipendenti dalla sentenza riformata, compresi gli atti di provvisoria esecuzione di quest’ultima.

ulteriori approfondimenti, anche alla luce dei più recenti contributi dottrinali, non permettono, invece, di condividere l’assunto secondo cui gli atti compiuti in esecuzione volontaria o coattiva di sentenze aventi efficacia costitutiva ex art. 2908 C.C., come la sentenza di reintegrazione nel posto di lavoro (art. 18 legge 20 maggio 1970 n. 300) sono idonei “ex se” a creare rapporti e situazioni di diritto sostanziale, identici a quelli già costituiti dalla sentenza riformata e tali da resistere, diversamente dai primi, alla sentenza di riforma, fino al passaggio in giudicato di questa.

Tale assunto, come già rilevato da questa Corte nelle sue sentenze citate, contraddice al pur riconosciuto effetto sostitutivo proprio della sentenza di riforma che travolge la pronuncia riformata e le statuizioni dipendenti, senza che nel sistema si rinvengano dati positivi tali da far definire istituzionale una deroga del genere.

Se, infatti, la sentenza assolutoria d’appello si sostituisce, sotto ogni profilo, all’accertamento della sentenza riformata, la qualificazione giuridica, sul piano sostanziale, dei fatti dedotti in causa può essere desunta soltanto dalla pronuncia di riforma né è possibile ammettere la coesistenza di due accertamenti contrastanti né, tanto meno, risolvere il conflitto riconoscendo all’effetto conservativo previsto dall’art. 336 cpv C.P.C. una assoluta prevalenza sull’effetto sostitutivo che è proprio della sentenza di riforma e che toglie alla sentenza riformata l’efficacia di accertamento e la vis executiva (art. 336 prima parte).

Il coordinamento logico-sistematico delle due disposizioni, porta, invero, ad individuare, come limiti necessari di coesistenza, quelli che assegnano, da un lato, una prevalenza immediata all’effetto sostitutivo proprio della sentenza di riforma e, dall’altro, stabilità, fino al passaggio in giudicato di questa, ai soli atti e provvedimenti precedentemente compiuti in esecuzione della sentenza riformata.

Né il regime, così delineato, va incontro a modificazioni, nei rapporti giuridici continuativi o di durata, alla cui categoria appartiene anche il rapporto di lavoro, laddove l’esecuzione provvisoria della sentenza di accertamento del rapporto e di condanna ad adempiere le obbligazioni relative, assolve alla sola funzione di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto già accertata.

Così anche nelle varie ipotesi di esecuzione forzate in forma specifica (consegna o rilascio: art. 2930; obblighi di fare e non fare: artt. 2931 e 2933 C.C.) l’attività di adeguamento al comando giudiziale non produce effetti sostanziali che non siano già previsti dalla sentenza di condanna, restandosi perciò nei limiti di una attività meramente effettuale.

Analogamente, gli atti compiuti per l’esecuzione volontaria o coattiva di sentenze di accertamento o costitutive recanti condanna all’adempimento (quali, ad esempio, la distribuzione del ricavato; la consegna della cosa mobile; l’immissione nel possesso o nella detenzione dell’immobile) esauriscono in sé la loro funzione di mero adeguamento della realtà di fatto a quella giuridica, producendo gli effetti sostanziali tipici dell’adempimento in conformità alla relazione di diritto sostanziale accertata dalla sentenza.

La norma dell’art. 336 cpv. prevede, appunto, il rinvio dell’effetto estensivo proprio della riforma, mantenendo integre le attribuzioni patrimoniali e le modificazioni sostanziali realizzate prima della riforma e procrastinando al passaggio in giudicato di questa l’attuazione del diritto della parte vittoriosa ad ottenere, in base ad essa, la restituzione di quanto dato o la riduzione in pristino di quanto modificato.

Non può pertanto condividersi il già richiamato assunto delle citate decisioni secondo cui la temporanea paralisi dell’effetto estensivo proprio della sentenza di riforma rende inefficace la caducazione della sentenza riformata nell’ambito della fattispecie pregiudicata, questa restando provvisoriamente idonea “ope legis” a sorreggere l’effetto giuridico prodotto sulla base della sentenza riformata, che nell’area dell’esecuzione in forma specifica l’inefficacia della riforma rende stabile non la mera attività materiale di adeguamento (consegna della cosa mobile, rilascio dell’immobile etc.) ma l’effetto giuridico realizzato in conformità della declaratoria iuris; che, dopo la riforma, restano perciò fermi e continuano a produrre effetti, oltre alle situazioni di natura reale, i rapporti obbligatori continuativi ripristinati o costituiti da iure o de facto in esecuzione volontaria o coattiva della sentenza riformata.

Neppure nell’area dell’esecuzione specifica, osserva la Corte, è dato evidenziare alcuna attività esecutiva o di attuazione del comando giudiziale, idonea ad instaurare od a ricostituire rapporti obbligatori continuativi come autonome fattispecie sostanziali dipendenti dalla sentenza che le accerta, tali perciò da sopravvivere alla riforma di questa, fino al passaggio in giudicato della sentenza d’appello.

Né sembra valido il riferimento, d’ordine sistematico, all’esecuzione della sentenza che condanna il locatore a consegnare la cosa locata al conduttore, per potersi ritenere che, anche in tale ipotesi, l’esecuzione forzata o volontaria del comando giudiziale realizza un rapporto autonomo (di locazione) che resiste all’effetto estensivo proprio della sentenza di riforma (accertante l’inesistenza del rapporto locatizio) fino al passaggio in giudicato di essa.

L’unico effetto sostanziale reso stabile anche dopo la riforma, invero, consiste nella mera immissione del conduttore nella detenzione della cosa, poiché il rapporto locatizio, accertato con la sentenza e reso effettivo con la consegna, non sopravvive, come tale, alla riforma della sentenza.

D’altra parte, la consegna della cosa assicurata, ex se, il godimento di essa da parte del conduttore, confermante al dictum esecutivo e con effetti che permangono anche dopo la riforma della sentenza di 1° grado e fino al suo passaggio in giudicato, realizzandosi così una semplice situazione di vantaggio processuale a favore del consegnatario, per essersi la detenzione a titolo locatizio trasformata in situazione di mero fatto (peraltro non antigiuridica, perché resa stabile “ope legis” fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma).

Del che trovasi conferma, d’ordine sistematico, nel regime della responsabilità per danni da ritardato rilascio, in cui, come si riconosce nelle stesse decisioni dalle quali ora si dissente, può incorrere il detentore che, nell’ambito della legalità formale, abbia continuato ad avvalersi della provvisoria esecutività della sentenza anche dopo la sua riforma e nonostante il prevedibile sito finale della lite.

Come è stato rilevato in dottrina, la sentenza non trasforma la relazione di diritto sostanziale fra parte vittoriosa e parte soccombente, restando essa regolata dal rapporto sostanziale tutelato.

Si spiega, così, anche l’ipotesi di responsabilità aggravata per ingiusta esecuzione, qual è regolata dall’art. 96 comma 2° C.P.C., sul presupposto che l’atto processuale efficace possegga una temporanea idoneità ad incidere in maniera illecita (dal punto di vista del diritto sostanziale) sulla sfera giuridica dell’obbligato.

Le considerazioni fin qui svolte portano, dunque, ad affermare che il mero adeguamento materiale al dictum esecutivo realizzi l’attività richiesta dalla legge come necessaria e sufficiente affinché l’accertamento sostanziale possa produrre, nella realtà fenomenica, gli effetti che gli sono propri, e che soltanto tale attività esecutiva resti stabilizzata, con i suoi effetti sostanziali, fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma.

D’altra parte, come si è ancora rilevato in sede dottrinale, gli effetti sostanziali di un atto o provvedimento del processo sono previsti solo da specifiche norme del C.C. (artt. 2943; 2642 e segg.; 2908; 2818 e 2884; 2913; 2906) mentre agli atti di esecuzione volontaria o coattiva delle sentenze provvisoriamente esecutive il sistema normativo attribuisce come già detto, la sola efficacia propria degli atti necessari e sufficienti ad adeguare la situazione di fatto a quella di diritto, a portare cioé ad effetto l’adempimento, essendo essi da soli inidonei a produrre effetti costitutivi, come quelli propri, invece, degli atti e provvedimenti sopra menzionati.

La teoria della fattispecie autonoma che si costituisce in virtù degli atti d’esecuzione della sentenza e che sopravvive alla fattispecie caducata della sentenza di riforma, come si osserva in dottrina, postula, d’altra parte, una astrazione del risultato del processo dalla sua base sostanziale, che non trova riscontro nel sistema normativo, ove all’esecuzione volontaria o coattiva del comando giudiziale è riconosciuta una funzione attuativa del rapporto già ricostituito “de iure” dalla sentenza e, con essa, l’idoneità a produrre i limitati effetti tipici degli atti di adempimento.

Le sopra svolte considerazioni generali, riferite al tema specifico di causa, non permettono di condividere l’assunto espresso dalle citate decisioni e fatto proprio dalla impugnata sentenza, secondo cui anche il solo pagamento della retribuzione dovuta per contratto al lavoratore non reimmesso nel posto di lavoro (art. 18 comma 2°) costituisce atto idoneo a ripristinare in via autonoma il rapporto accertato con la sentenza, realizzando, così, una fattispecie dipendente da essa e che resta insensibile all’effetto estensivo proprio della sentenza d’appello assolutoria fino a quando questa passi in giudicato.

Ed invero, l’adempimento dell’obbligo retributivo, come è dato desumere dalla univoca formulazione dell’art. 18 comma 2° (… il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al comma precedente (cioé all’ordine di reintegrazione) è tenuto … a corrispondere al lavoratore entro trenta giorni … non abbia ripreso servizio, il rapporto s’intende risolto) è atto semplicemente finalizzato alla riattivazione funzionale del rapporto che, de iure, mai ha cessato di esistere, né ad esso si può, quindi, riconoscere l’effetto sostanziale della ricostituzione, questo derivando esclusivamente dalla sentenza che ripristina la situazione di diritto già in atto prima del licenziamento dichiarato illegittimo.

Il pagamento della retribuzione, quale atto dipendente dalla sentenza che ordina la reintegrazione, resta, dunque, al di fuori della fattispecie ricostitutiva del rapporto, alla cui formazione la sola pronuncia giudiziale appare elemento necessario e sufficiente.

Con la rimozione di essa da parte della sentenza di riforma assolutoria, il licenziamento riassume, a sua volta, l’originaria efficacia risolutiva del rapporto, senza che possa ulteriormente operare la sospensione, ex art. 336 cpv. C.P.C., dell’effetto estensivo proprio della stessa sentenza di riforma.

Perciò, il pagamento della retribuzione, pur costituendo adempimento di un obbligo contrattuale, (riprodotto nella norma) i cui tipici e limitati effetti sostanziali sono conservati fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma, non può definirsi la pubblicazione della sentenza di riforma, accertante la legittimità del licenziamento.

Nemmeno può essere condiviso l’ulteriore assunto delle citate decisioni, recepito nella impugnata sentenza e secondo cui a) l’obbligo retributivo costituisce un effetto permanente dell’inottemperanza dell’ordine di reintegrazione e, perciò, datasi attuazione ad esso, mediante il meccanismo dell’esecuzione indiretta, questa legittimamente è perseguita dopo la riforma, essendosi in presenza di un effetto dipendente dalla pronuncia riformata; b) l’esecuzione indiretta, quale prezzo dell’inosservanza dell’ordine del giudice non può dare luogo a conseguenze, per l’obbligato, meno onerose di quelle che egli subirebbe in caso di ottemperanza, cosicché l’obbligo retributivo è destinato ad operare fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma.

L’interpretazione della norma ed i dati del sistema in cui essa si inserisce non permettono, infatti, di ritenere che la fattispecie normativa del pagamento della retribuzione, realizzata mediante l’esecuzione volontaria o coattiva dell’obbligo, sia idonea a produrre effetti sostanziali diversi da quelli tipici di una prestazione periodica, che esaurisce in sé la sua funzione satisfattiva e, che, pertanto, non può valere a rendere l’obbligo retributivo operante anche dopo la sentenza di riforma che ne accerti, invece, l’inesistenza.

L’imposizione dell’obbligo retributivo, nella scrittura normativa dell’art. 18 comma 2°, diversamente da quanto deve dirsi dell’ordine giudiziale di reintegrazione, non si pone d’altra parte, nemmeno come comminatoria di condanna, ma riproduce quello che, secondo legge e contratto, costituisce l’obbligo principale del datore di lavoro ( artt. 2094 e 2099 C.C.) obbligo che, quale effetto della ricostituzione del rapporto, resta operante anche in mancanza di reintegrazione, ma soltanto fino alla sentenza di riforma.

Diversamente da quanto si afferma nelle citate decisioni, una “enucleazione dell’obbligo retributivo dal complessivo degli obblighi reciproci nascenti dal contratto” che sia operata dalla norma dell’art. 18 comma 2° come effetto permanente dell’inottemperanza all’ordine giudiziale di reintegrazione, non è perciò, ravvisabile nella struttura dello stesso art. 18 comma 2° e, in ogni caso, non risulta concepita come mezzo necessario “affinché il dipendente possa conseguire anche “invito debitore” il pagamento della retribuzione, così da riattivare in concreto questo aspetto del rapporto”.

Estranea alla struttura ed alla ratio dell’art. 18 co. 2°, come sopra delineata, risulta, a sua volta, la previsione dell’obbligo retributivo come sanzione compulsiva che abbia una specifica finalità di coercizione indiretta o, addirittura, di prezzo per l’inosservanza dell’ordine di reintegrazione.

Una attitudine del genere, se, ed in quanto, ipotizzabile costituirebbe, d’altra parte, soltanto un effetto secondario della dichiarazione di illegittimità del licenziamento.

Mentre una finalità, almeno in parte, sanzionatoria deve essere riconosciuta al disposto dello art. 18 comma 2° ove si attribuisce al lavoratore il diritto al risarcimento del danno subito per il licenziamento in misura non inferiore a cinque mensilità di retribuzione ciò non può valere per la contestuale previsione dell’obbligo retributivo a carico del datore di lavoro non ottemperante all’ordine di reintegrazione, obbligo, questo, che, secondi il costante indirizzo interpretativo di questa S.C., a differenza da quello di risarcimento del danno (presunto iuris et de iure in detta misura minima) è influenzato dagli eventuali guadagni altrimenti conseguiti dal lavoratore che assume, perciò, una connotazione di incertezza e variabilità quantitativa, essenzialmente incompatibile con la funzione sanzionatoria.

La costruzione, da cui questa Corte ora dissente, dell’obbligo retributivo che sopravvive alla riforma, quale prezzo o quale sanzione dell’inottemperanza dell’ordine di reintegrazione, come si osserva in dottrina, postula, d’altra parte, una abnorme resistenza degli effetti del provvedimento giurisdizionale divenuto illegittimo, che non trova riscontro nel dato normativo e che contrasta, inoltre, con il fondamentale principio del sistema secondo cui il processo non può dare vita a situazioni di vantaggio processuale (come quello derivante dalla provvisoria esecutività della sentenza) che restino irreversibili dopo la caducazione del titolo.

Con la pubblicazione della sentenza di riforma cessa, infatti, l’obbligo retributivo ed i precedenti atti compiuti in esecuzione coattiva o volontaria di esso, come non possono costituire valida premessa alla prosecuzione dell’esecuzione stessa, così restano inidonei, come già erano, ad instaurare rapporti o situazioni sostanziali autonome che si sostituiscono a quelle accertate con la sentenza oggetto di riforma e che, a differenza da esse, possano resistere, come dipendenti dalla sentenza riformata, all’effetto estensivo proprio della sentenza di riforma, fino al passaggio in giudicato di questa.

In forza delle precedenti considerazioni merita censura l’impugnata sentenza ove, in contrasto con i principi sopra esposti, si afferma che lo obbligo retributivo del datore di lavoro inottemperante all’ordine giudiziale di reintegrazione persiste ed è perseguibile anche dopo la sentenza di riforma e fino al suo passaggio in giudicato, come effetto permanente sia dell’inosservanza l’ordine di reintegrazione, sia, anche, della ricostituzione de facto (oltreché de iure) del rapporto di lavoro, quale, nella specie, sarebbe conseguita alla notificazione al datore, della sentenza in forza esecutiva e del precetto (art. 336 cpv. C.P.C.). Il primo motivo di ricorso deve pertanto essere accolto, restando assorbito in esso il terzo mezzo con cui nominalmente denunciandosi violazione e falsa applicazione degli artt. 481 e 482 in relazione all’art. 360 comma 1° n. 3 C.P.C. in sostanza si riproducono le censure mosse nello stesso primo motivo, con particolare riguardo alla già rilevata inidoneità della notificazione della sentenza e del precetto a figurare da atto (d’esecuzione) dipendente dalla sentenza ed a ricostituire il rapporto con effetti permanenti fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma.

Il secondo motivo con cui si denuncia triplice vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 comma 1° n. 5 C.P.C. deve, invece, essere dichiarato inammissibile, poiché la censura investe solo l’esposizione delle ragioni di diritto che sorreggono l’impugnata decisione e non già il processo formativo del convincimento espresso dal giudice del merito su questioni di fatto, esso solo, com’é canone indiscusso, potendo costituire oggetto di impugnazione a norma dello stesso art. 360 comma 1° n. 5.

L’impugnazione per questioni di diritto ( art. 360 comma 1° n. 3 C.P.C.) può, infatti, dare luogo, alternativamente o all’annullamento della sentenza o alla sua correzione – integrazione se la pronuncia sia conforme a legge ( art. 384 C.P.C.). Devesi, infine, disattendere l’assunto del controricorrente secondo cui la sentenza di riforma in data 4-11-1980 del Tribunale di Paola (accertante la legittimità del licenziamento) essendo stata nel frattempo cassata, con rinvio, da questa Corte, con sent.

12.2.1985 n. 1173, ha perduta ogni eventuale efficacia sostitutiva con conseguente reviviscenza della sentenza di 1° grado e della sua esecutività ex lege.

Come si è già rilevato, l’effetto sostitutivo prodotto dalla sentenza di riforma è, infatti, irreversibile (arg. ex artt. 338 e 393 C.P.C.) ed investe non solo l’accertamento sostanziale ma anche la provvisoria esecutività ex lege od ope iudicis della sentenza riformata, cosicché mentre, da un lato, gli atti d’esecuzione di quest’ultima conservano i loro effetti anche nella pendenza del giudizio di rinvio e fino alla formazione del giudicato, dall’altro lato, nessun ulteriore atto d’esecuzione può essere compiuto, neppure dopo la cassazione della stessa sentenza di riforma.

Perciò, nel caso di specie, fermi restando (nei limiti già delineati) gli effetti sostanziali degli atti d’esecuzione compiuti anteriormente alla sentenza di riforma in appello, e ciò fino al passaggio in giudicato di questa, si deve ritenere che alla cassazione della stesa sentenza di riforma non consegue la reviviscenza dell’ordine giudiziale di reintegrazione né della sua provvisoria esecutività.

In accoglimento del primo motivo di ricorso, la sentenza del Tribunale di Paola deve, pertanto, essere casata con rinvio della causa ad altro giudice che provvederà sull’appello dell’ENEL attendendosi ai principi sopra enunciati.

Allo stesso giudice del rinvio è anche demandato il regolamento delle spese del presente giudizio ( art. 385 C.P.C.).

P.Q.M.

La Corte accoglie il 1° motivo; dichiara inammissibile il 2° ed assorbito il 3°; casa e rinvia, anche per le spese, al Tribunale di Cosenza.
Così deciso il 5 novembre 1986.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 19 GIUGNO 1987