Svolgimento del processo

Il 23-5-75 l’I.A.C.P. di Avellino, in virtù di decreto del Presidente della Regione Campania del 19 aprile precedente, occupò parte di un fondo di proprietà di Achille Janes Carratù, situato il località Piano del Carmine del comune di Montore Inferiore.

Con successivo decreto della stessa autorità l’occupazione provvisoria venne prorogata di un quinquennio, sino al 22-5-1980.

All’occupazione, tuttavia, non seguì alcun provvedimento di espropriazione. Malgrado ciò il predetto Istituto edificò otto alloggi sul suolo occupato.

Sulla base di questo fatto, il proprietario, con atto notificato il 6-9-80, agì in giudizio contro il menzionato ente per il risarcimento dei danni; e il Tribunale di Avellino, con sentenza del 5-10-82, accolse la domanda, condannando l’ente convenuto al pagamento in favore dell’attore delle seguenti somme: L 93 milioni per danni derivanti dalla perdita definitiva del suolo; L 1.587.300 per indennità di occupazione legittima e di L 4.729.365 annue per danni da occupazione illegittima, con gli interessi legali su tutte queste somme.

Contro tale decisione proposero gravame sia l’I.A.C.P. di Avellino, in via principale, sia il Carratù, in via incidentale; e la Corte di Appello di Napoli, con sentenza del 9-11–6-12-83, rigettò la prima impugnazione, mentre accolse parzialmente la seconda, elevando la prima delle predette somme a L 120.900.000= e la terza a L 6.148.175 annue.

Il Giudice d’appello, nel respingere l’assunto dell’I.A.C.P. di Avellino, secondo cui responsabile del danno era la regione Campania, la quale aveva omesso di adottare il provvedimento di espropriazione, facendo così divenire illegittimo il procedimento ablativo legalmente iniziato, osservava che tale illegittimità non poteva giammai derivare la lesione di diritti, ma solo di interessi legittimi, mentre e determinare la violazione del diritto di proprietà del soggetto gravato era stato unicamente il comportamento colpevole dell’ente appellante, che aveva portato a compimento l’esecuzione dell’opera pubblica sul suolo altrui, rendendone così irreversibile l’occupazione, senza averne acquisito nel frattempo la proprietà.

Il giudice d’appello, poi, respingendo le corrispondenti censure mosse dal menzionato ente, confermava le statuizioni del primo giudice in ordine alla riduzione nella misura del 15% del valore di quella parte del fondo residuo rimasta interclusa ed alla stima del valore della zona espropriata, dando ampia e dettagliata contezza delle ragioni giustificatrici della determinazione di entrambi questi valori.

La Corte di merito, infine, in ordine all’appello incidentale proposto dal Carratù sulla mancata rivalutazione delle somme attribuitegli, osservava che esso andava accolto limitatamente alle somme riconosciutegli per danni conseguenti alla perdita definitiva del suolo e per danni da occupazione illegittima, costituendo le relative obbligazioni dei debiti di valore, mentre andava rigettato riguardo alla somma attribuitagli a titolo di indennità per l’occupazione legittima, la cui obbligazione costituisce invece debito di valuta, soggetto quindi al principio nominalistico.

Contro la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione l’I.A.C.P. di Avellino in base a quattro motivi.

Con il primo chiede che sia ritenuta “responsabile del risarcimento dei danni per la divenuta occupazione illegittima la regione Campania, che resta il solo organo legittimato ad emettere il decreto definitivo di esproprio.

Il ricorrente rileva che, siccome aveva agito su delega di un altro ente, gli effetti della sua azione andavano imputati a quest’ultimo, e non ad esso.

Con il secondo motivo lamenta che la Corte d’Appello aveva ignorato la sua istanza per la chiamata in causa della Regione Campania.

Con il terzo motivo deduce la illegittimità ed arbitrarietà del criterio di stima del valore del fondo illegittimamente occupato.

Con il quarto motivo denuncia “erronea applicazione della rivalutazione (alle) somme liquidate”, sostenendo che, siccome per l’art. 1283 c.c. gli interessi sugli interessi sono dovuti solo se richiesti con domanda giudiziale, essi non possono essere reclamati per la prima volta in appello, se non limitatamente a quelli maturati dopo la sentenza di primo grado. “La Corte (aveva) invece, rivalutato tali somme dal dicembre del 1981, ossia dalla data di deposito della consulenza tecnica,”, mentre “non avrebbe dovuto operare alcuna rivalutazione, in quanto il creditore non (aveva) affatto dimostrato di aver subito un danno maggiore dell’importo corrispondente agli interessi legali, ai sensi dell’art. 1224 c.c., sia pure con il ricorso a prove presuntive”.

Motivi della decisione

Il diritto del proprietario soggetto alla procedura espropriativa degrada ad interesse legittimo di fronte al soggetto titolare del potere di espropriazione e, di riflesso, in caso di non coincidenza dei due soggetti, dinanzi al portatore del confliggente interesse generale, il quale è, correlativamente, titolare nei suoi confronti, in costanza della procedura espropriativa, di un potere legittimo nell’utilizzazione della cosa di sua proprietà per i fini dell’espropriazione.

Nei confronti di tutti gli altro soggetti, invece, sino al momento dell’espropriazione, il diritto del proprietario rimane pieno ed esclusivo, salvo l’eventuale limitazione nel godimento del bene derivante dalla sua occupazione da parte dello espropriante.

Qualora, però il procedimento di espropriazione si interrompa, il diritto del proprietario, non più compresso dal prevalente potere della Pubblica Amministrazione, torna ad espandersi, recuperando il pieno godimento e la totale disponibilità del bene, rendendo illecito il perdurare delle precedenti limitazioni.

La illiceità, avendo valore solo ex nunc, non colpisce l’attività, legittima o illegittima, antecedente alla interruzione del procedimento espropriativo, sia essa imputabile direttamente all’ente precedente o all’eventuale terzo beneficiario della espropriazione, ma quella successiva, realizzando solo essa una colpevole ed ingiustificata lesione del diritto di proprietà del soggetto non più gravato; lesione che, nella seconda delle menzionate ipotesi, quindi, non può essere che imputata esclusivamente al terzo beneficiario dell’espropriazione.

Nella fattispecie, pertanto, la responsabilità del fatto illecito lamentato dall’attuale resistente correttamente è stata ritenuta dai giudici di merito a carico esclusivo dell’I.A.C.P. di Avellino, autore dell’illecita prosecuzione della irreversibile occupazione del fondo dopo la definitiva interruzione del procedimento di espropriazione, non potendosi ravvisare alcuna responsabilità a carico della Regione Campania, né esclusiva, né concorrente, verso il proprietario, per il mancato completamento del procedimento espropriativo che di fatto ha determinato l’illecito, essendo la relativa attività oggetto di un suo potere pubblico, e non di un suo dovere, né verso l’I.A.C.P. di Avellino, né, tanto meno, verso il proprietario del suolo occupato. Tale responsabilità non può essere ravvisata neppure a titolo di delegazione amministrativa, dato il valore esclusivamente interno di essa (Cass,Sez. 1, 20-1-83, s. 163 m.424985), a parte la contraddizione di chiamare in causa allo stesso titolo il comune di Montorio Inferiore, interessato alla costruzione degli alloggi edificati nel fondo in questione.

Il primo motivo del ricorso, pertanto, va rigettato. Non diversa sorte tocca al secondo motivo. Se è vero, infatti, che la Corte di merito non ha esaminato ex professo la censura dell’appellante riguardante l’immotivato rigetto da parte del Tribunale della sua richiesta di chiamata in causa della Regione Campania, è però fuori discussione, per quel che si è detto nella parte espositiva, che detta Corte si è intrattenuta lungamente sulla reclamata responsabilità del menzionato ente, escludendone la sussistenza, onde l’inutilità di uno specifico esame di quella censura.

D’altronde, è noto che la parte che ha trascurato di chiamare in giudizio il terzo a norma dell’art. 269 com. i° c.p.c., non può lamentare, in grado di appello e, successivamente, in cassazione, la mancata concessione di un termine ex art. 269, com 2° c.p.c., per effettuare la chiamata medesima oppure l’omesso esercizio da parte del giudice del potere di ordinare d’ufficio siffatta chiamata ex art.270 c.p.c., vertendosi in materia di esercizio di poteri discrezionali di esclusiva pertinenza del giudice di primo grado (Cass. sez. 2°, 4-10-77; s.4241 m. 387866; Cass.Sez. 3°, 27-7-79, s. 4432,m. 400977; Cass,sez. 1°, 23-4-81, s.2559 m. 413336, s.5517, m. 437184).

Il terzo motivo è inammissibile, consistendo in una critica in fatto di una valutazione di merito del giudice d’appello, che, per essere corretta sotto l’aspetto logico, sfugge al controllo di mera legittimità riservato alla Suprema Corte.

Il quarto motivo, le cui proposizioni sono di difficile coordinazione sul piano logico, è infondato.

E’ noto che sia l’occupazione illegittima che l’irreversibile acquisizione del fondo altrui, conseguente alla costruzione su di esso di opere pubbliche, costituiscono fatti illeciti e danno, quindi, titolo al proprietario ad ottenere dall’autore il risarcimento del danno a norma dell’art. 2043 c.c. E’ noto pure che quello per il risarcimento del danno costituisce debito valore, e non di valuta, ed è quindi soggetto alla rivalutazione e non AL ferreo principio nominalistico.

Stando così le cose, il richiamo da parte del ricorrente del divieto di anatocismo, per escludere la possibilità per il giudice di appello di completare la rivalutazione del danno sino alla data della pronuncia della sentenza del Tribunale (ottobre 1982), da questo erroneamente limitata al momento della stima operata dal consulente (novembre 1991), non appare appropriato, come non è pertinente, per contestare la stessa possibilità di rivalutazione, la evocazione della mancata prova di cui all’art. 1224 cpv, c.c., riguardando essa i debiti di valuta, e non anche quelli di valore.

Il ricorso va, quindi, rigettato ed il ricorrente condannato al rimborso delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida il L 1.875.000 di cui L 1.800.000 per onorario di avvocato.
Roma 11 novembre 1986.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 5 GIUGNO 1987