Svolgimento del processo

Con citazione notificata il 23.6.1976 D’Amico Antonio, assumendo che il 3.10.1975 verso le 21,30 nel corso delle operazioni di scarico di un bancone frigorifero da un autocarro, dirette fa Bucco Angelo che lo aveva chiamato a prestare la propria opera, aveva perso completamente il dito anulare della mano sinistra che, con l’anello nuziale, era rimasto impigliato in un gancio della sponda del veicolo, convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Pescara il predetto Bucco per sentirlo condannare al pagamento dei danni subiti per cinque mesi di totale inattività e per l’inabilità permanente residuatagli nella misura del 6%, comprensiva di danni morali e di relazione, oltre interessi e rivalutazione, nella misura da determinarsi nel corso della causa e secondo l’equo apprezzamento del Tribunale. Costituitosi il contraddittorio l’adito Tribunale con sentenza del 17.11.1979, depositata il 10-12 successivo, in parziale accoglimento della domanda condannò il Bucco Angelo al pagamento, a titolo di risarcimento danni, in favore del D’Amico della complessiva somma di L. 5.942.340, con rivalutazione secondo gli indici ISTAT, interessi e spese del giudizio.

Avverso la sentenza del Tribunale, il soccombente interpose appello con citazione notificata il 1 marzo 1980, e la Corte di Appello de L’Aquila, con sentenza emessa nel contraddittorio delle parti il 16.6.1981 e depositata il 16.7 successivo, in riforma totale della impugnata sentenza, rigettò la domanda del D’Amico, dichiarando interamente compensate tra le parti le spese del doppio grado del giudizio.

Ritenne infatti la Corte de L’Aquila che nella richiesta rivolta dal Bucco al D’Amico di prestare la propria opera, unitamente ad altre persone, nello scaricare da un autocarro un banco frigorifero, non si rinvenivano gli estremi di un rapporto di lavoro subordinato, sia pure occasionale, sicché non era applicabile all’attività svolta dal Bucco la disciplina relativa alla tutela delle condizioni di lavoro di cui all’art. 2087 – C.C., che i primi giudici avevano creduto di poter estendere alla fattispecie. Aggiunsero, i giudici di quella Corte che la energia lavorativa posta a disposizione dal D’Amico, portiere di uno stabile prospiciente il negozio al quale era addetto il Bucco, si configurava invece come una “prestazione richiesta, ma non giuridicamente dovuta di aiuto momentaneo, estranea ad una organizzazione imprenditoriale, nell’esecuzione di un servizio, che trova la sua fonte in rapporti di cortesia che si instaurano tra vicini e dai quali non derivano obbligazioni giuridiche”.

Evidenziò peraltro la Corte d’appello che l’assenza di ogni prova, dalla quale poter desumere un eventuale nesso causale tra la condotta del Bucco e l’evento, non consentiva di poter addebitare al convenuto la responsabilità di un incidente dovuto al caso se non a imprudenza e negligenza della vittima, che salta dall’autocarro senza attendere la sedie che gli era stata offerta per favorirgli al discesa dal mezzo.

Avverso la sentenza di cui innanzi il D’Amico ha proposto ricorso per cassazione con due motivi di doglianza.

Il Bucco si è costituito depositando controricorso e sviluppando ulteriormente con memoria il proprio assunto.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso D’Amico Antonio, denunziando la falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. e la errata applicazione dell’art. 2084 C.C., si duole anzitutto che i giudici dell’appello non abbiano riscontrato nella fattispecie gli elementi costitutivi di un rapporto di lavoro subordinato, e non abbiano tenuto conto che il rapporto instauratori tra le parti rientrava nella ipotesi di cui all’art. 2094 c.c., nonostante fosse caratterizzato dalla presenza di una sola prestazione e di una retribuzione promessa in natura conformemente a quanto previsto dallo art. 2099 ult. com. C.C., e comportava conseguentemente per il datore di lavoro l’obbligo di tutelare la integrità fisica del lavoratore in conformità di quanto disposto dall’art. 2087 C.C.

La doglianza è infondata e va quindi disattesa. Qualificando la prestazione del D’Amico come una prestazione “non giuridicamente dovuta, di aiuto momentaneo” che traeva ispirazione da “rapporti di cortesia” tra vicini, la Corte di Appello de L’Aquila ha esattamente configurato la situazione nel corso della quale si verificò l’incidente ed ha correttamente affermato che non si trattò di rapporto dal quale potessero derivare obbligazioni giuridiche.

Le prestazioni di mera cortesia, le quali si inseriscono in rapporti non rilevanti nella sfera giuridica, come ad esempio l’amicizia, sono caratterizzate invero, dalla mancanza di un interesse, anche mediato od indiretto, di chi le esegue, ed altresì dalla mancanza in chi le riceve della certezza che la prestazione promessa debba essere eseguita o comunque portata a termine.

Orbene, nel caso in esame, in cui il D’Amico si adoperò ad aiutare il vicino di casa a scaricare il mobile dal carro, non si comprende davvero quale altro interesse avrebbe potuto avere il predetto, ad effettuare quella prestazione al di là del semplice bisogno di rendere un servizio al conoscente, né si comprende quale vincolo particolare avrebbe potuto impedirgli di astenersi dal proseguire nella prestazione una volta constatata la inadeguatezza della stessa alle proprie attitudini.

Non è neppure possibile sostenere seriamente che la promessa di una “bicchierata” a cose fatte potesse valere a caratterizzare il rapporto dell’elemento sinallagmatico tipico del rapporto di lavoro subordinato: la presenza di una retribuzione. A parte infatti la assoluta inconsistenza del promesso “corrispettivo”, che potrebbe ugualmente spiegarsi nello ambito del rapporto di amicizia, vi sarebbe pur sempre da evidenziare che manca nella fattispecie, qualsiasi prova della creazione del vincolo di subordinazione, ossia della sottoposizione dell’uno all’altro soggetto, che è l’aspetto peculiare del rapporto di lavoro subordinato (Cass. 4036-84).

In definitiva la collaborazione offerta dal D’Amico, non potendosi ricollegare ad un rapporto di lavoro perché sorta al di fuori di qualsiasi incontro di volontà contrattuale, sotto il solo stimolo di impulsi amichevoli scaturenti da rapporti di vicinato, senza subordinazione e non in vista di una vera e propria retribuzione, sfugge alle previsioni degli artt. 2087 e 2094 c.c., dei quali si è lamentata la falsa ed errata applicazione.

Peraltro non può essere sottaciuta la circostanza che i giudici dell’appello, a seguito di esauriente e penetrante indagine del materiale probatorio raccolto, sono pervenuti alla convinzione, tutt’altro che azzardata, che tra il D’Amico, occupato stabilmente quale portiere di uno stabile, ed il Bucco, gestore di un vicino negozio di generi alimentari, non ebbe mai ad instaurarsi un rapporto di lavoro subordinato, tale da giustificare l’applicazione del menzionato art. 2087 c.c..

Un siffatto convincimento, risolvendosi in un apprezzamento di fatto sorretto da motivazione congrua ed esente da vizi logici e giuridici, è insindacabile in sede di legittimità.

Queste ultime considerazioni consentono di ritenere la infondatezza, se non la inammissibilità, anche del secondo motivo di ricorso, con il quale il D’Amico, denunziando ancora una violazione dell’art. 1087 c.c. ed il connesso vizio di motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c., si duole che i giudici dell’appello non abbiano ritenuto il Bucco tenuto ad adottare tutte le misure opportune al fine di evitare infortuni, anche se derivanti dalla prevedibile imprudenza del lavoratore.

Già si è detto che, non sussistendo rapporto di lavoro, non può ravvisarsi a carico del Bucco, fosse o non fosse imprenditore, l’obbligo di tutela di cui all’art. 2087 c.c..

Ma anche se si volesse ritenere introdotto, con l’esposto motivo di ricorso, il discorso sulla questione del nesso di causalità tra una qualsiasi ipotetica negligenza o incuria del predetto Bucco e l’incidente accorso al D’Amico, sarebbe agevole obiettare che, come questa Corte ha più volte statuito, “l’indagine sulla concreta efficienza causale di un determinato elemento sulla produzione dell’evento, in quanto attinente alla valutazione dei fatti acquisiti al processo, rientra nei compiti esclusivi del giudice di merito, il cui apprezzamento al riguardo – positivo o negativo – non è sindacabile in sede di legittimità quando sia sorretto da motivazione adeguata ed immune da vizi logici e giuridici” (Cass. 1836-64, ed altre).

La doglianza sarebbe quindi inammissibile in questa sede giacché la Corte di merito ha esplicitamente riconosciuto la totale estraneità del Bucco alla causazione dello evento, che, ad avviso di quella Corte, sarebbe ascrivibile “al caso, se non ad imprudenza e negligenza della vittima”.

Così concludendo i giudici di merito, che sul punto hanno motivato assai logicamente, con preciso ed esauriente richiamo alle modalità del fatto ed alla inchiesta testimoniale assunta, hanno espresso un apprezzamento che sfugge al sindacato di legittimità e preclude la possibilità di ogni e qualsiasi riesame sulla questione nel nesso di causalità.

Essendo state dunque prospettate solo censure infondate ed inammissibili, il ricorso è da rigettare.

Ricorrono giustificati motivi per compensare interamente tra le parti le spese di questo giudizio.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e dichiara interamente compensate tra le parti le spese di questo giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 14 marzo 1985.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 7 GENNAIO 1986