Svolgimento del processo

Con sentenza del 24.2.1982 il Pretore di Firenze dichiarava illegittimo il licenziamento intimato a Fulvio Peluso dalla s.p.a; Alberto Cavour, ordinando la reintegrazione dello stesso Peluso nel posto di lavoro e condannando la società anche al risarcimento del danno.

La soccombente non ottemperava al comando giudiziale di reintegrazione e proponeva appello.

Per retribuzione di Firenze, con sentenza del 28 settembre – 20 ottobre 1982, (poi impugnata con ricorso per cassazione rigettato con sentenza 14.XI.1984 n. 5755), in riforma della pronuncia del pretore, dichiarava legittimo il licenziamento.

Precedentemente, il Peluso, con tre distinti ricorsi, di cui l’ultimo posteriore alla sentenza di riforma, aveva adito il Pretore di Firenze per ottenere la condanna della datrice di lavoro al pagamento delle mensilità di retribuzione ulteriormente maturate, dal marzo al novembre 1982;

La convenuta resisteva e proponeva domanda riconvenzionale per la restituzione di quanto pagato in forza della sentenza di reintegrazione.

Il Pretore, riuniti i procedimenti con sentenza 4.3.1983, disattesa la domanda riconvenzionale, condannava la società a pagare al Peluso, con rivalutazione ed interessi, la somma di L. 5.154.967 a titolo di retribuzione maturata fino al 31.XII.1982.

Il Tribunale di Firenze, con sentenza 19 settembre – 19 ottobre 1984, pronunciando sull’appello proposto dalla S.p.A. Albergo Cavour, ritenuta dovuta la retribuzione soltanto fino alla sentenza dichiarativa della legittimità del licenziamento, determinava le residue spettanze a tale titolo in lire 2.258.436.

Dissentendo dall’indirizzo interpretativo di questa S.C., consolidatosi con la sentenza n. 1669 del 1982 delle S.U. e successive, e richiamandosi al contrario orientamento già espresso con le sentenza n. 1232, 1233 e 4355 del 1976, il Tribunale riteneva di dover risolvere nei seguenti termini la questione se l’obbligo legge retributivo posto a carico del datore di lavoro dell’art.18 legge 20 maggio 1970 n. 300 sopravviva alla riforma della sentenza di reintegrazione nel posto di lavoro, fino a quando la sentenza d’appello passi in giudicato:

a) A norma dei comma I° e III° dello stesso art. 18 la dichiarazione di illegittimità del licenziamento comporta l’immediata ricostruzione del rapporto di lavoro e ciò implica anche il sorgere immediato dell’obbligo di pagare la retribuzione successiva, pur in mancanza di una effettiva reintegrazione nel posto di lavoro, poiché l’esecuzione della sentenza di condanna non è sospesa dalla proposizione dell’appello.

b) il diritto alla retribuzione resta acquisito al patrimonio del lavoratore indipendentemente dalla reintegrazione nel posto di lavoro e anche dal pagamento effettivo o dall’avvio di qualsiasi procedura per ottenerlo;

c) l’obbligo della retribuzione cessa, peraltro, con la pubblicazione della sentenza di riforma, e ciò come conseguenza necessaria della caducazione dell’accertamento contenuto nella sentenza di primo grado che dell’obbligo retributivo costituisce il titolo (art. 336 co. I° CPC). Pertanto, nella specie al lavoratore spettava solo la differenza fra l’ammontare della retribuzione maturata fino al 20.X.1982 e quanto percepito, cioé, la somma di L. 2.258.436, anziché quella di L. 5.154.967 riconosciuta spettante al pretore. Contro tale decisione Fulvio Peluso ha proposto ricorso fondato su un unico motivo ed a cui l’intimata resiste con controricorso.

Motivi della decisione

Deve essere, in primis, esaminata la pregiudiziale eccezione ed inammissibilità del ricorso che la società controricorrente ha sollevato sul rilievo che la procura, rilasciata dal ricorrente al difensore in margine del ricorso, essendo stata conferita genericamente per ogni grado e fase del processo non costituisce mandato speciale, qual’é richiesto dalla norma dell’art. 365 del C.P.C. per i giudizio di legittimità. L’eccezione è, peraltro, manifestamente destituita di fondamento e tale risulta alla considerazione che la procura in esame, essendo materialmente inserita nel ricorso, ad esso inerisce anche dal punto di vista funzionale, stante l’impossibilità logico giuridica di riferirla ad altro giudizio che non sia quello introdotto con il ricorso stesso, e ciò indipendentemente dalla esistenza in essa di uno specifico riferimento allo stesso giudizio di cassazione.

Secondo il costante indirizzo interpretativo di questa S.C., il requisito della specialità della procura, prescritto per il ricorso per cassazione dall’art. 365 del C.P.C. è diversamente soddisfatto a seconda che il mandato sia conferito con atto separato oppure a margine o in calce allo stesso ricorso.

Nel primo caso la procura deve contenere specifico riferimento al ricorso da proposito in sede di legittimità. Nell’altro, invece, la stessa, facendo materialmente corpo con l’atto cui inerisce, esprime ex se il necessario collegamento con l’impugnazione ed assume, così, il carattere della specialità, anche se formulata genericamente e senza un espresso riferimento al giudizio di legittimità (cfr. fra le altre sentenza: Sez. Lav. 21.6.1986 n. 4141; Sez. I 9.5.1986 n. 3090; 12.3.1986 n. 1650; Sez. Lav. 18.XI.1985 n. (5661).

Con il ricorso si denunciano violazione e-o falsa applicazione degli artt. 336, 337 e 431 del c.p.c. in relazione all’art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 ed all’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, preliminari al cod. civ. (art. 360 comma I° n. 3 c.p.c.) lamentandosi, in sostanza, che il giudice d’appello, nella impugnata sentenza, con una erronea interpretazione delle citate norme, discostantesi da un ormai consolidato indirizzo di queste S.C., abbia ritenuto che l’obbligo di continuare a corrispondere la retribuzione al dipendente licenziato, quale la legge pone a carico del datore di lavoro inadempiente all’ordine giudiziale di riforma in appello, poiché questa, ancorché non passata in giudicato, priva la sentenza riformata del suo valore di accertamento e di condanna nonché della vis executiva, con la conseguenza che, nel caso di specie, erano divenute inesigibili le mensilità di retribuzione posteriori alla sentenza di riforma e di cui il Pretore aveva ordinato il pagamento.

Il ricorso deve essere rigettato, poiché non possono condividersi le argomentazioni poste a sostegno del medesimo e costituenti la base della sentenza n. 166971982 delle S.U. e delle successive conformi decisioni, cui il Peluso ampiamente si richiama e che si compendiano nell’assunto secondo cui l’obbligo retributivo ex art. 18 comma 2° legge n. 300 del 1970, costituendo il mezzo di esecuzione indiretta dell’incoercibile ordine di reintegrazione, persiste fino a quando al comando stesso sia data attuazione e se il creditore ne consegue o agisca giudizialmente per conseguire l’adempimento prima della sentenza d’appello che accerta la legittimità del licenziamento questa attività produce effetti sostanziali di riattivazione del rapporto di lavoro, i quali effetti sopravvivono alla riforma della sentenza di reintegrazione e fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma a norma dell’art. 336 cpv. c.p.c. Come già ritenuto da questa Corte con le recenti sentenze n. 1328 e 1332 del 7 febbraio c.c., discostantisi dal citato orientamento, la ragione di fondo del dissenso, che qui si conferma, sta in ciò che tale indirizzo postula una costruzione teorico dogmatica in materia di effetti sostanziali permanenti propri degli atti esecutivi della sentenza riformata, costruzione ove si giunge alla individuazione di atti d’esecuzione del comando giudiziale, aventi efficacia costitutiva, ma che, a giudizio nuovo e meditato di questa Corte, non trova un reale riscontro nel sistema positivo.

Nell’affrontare la complessa tematica relativa ai limiti di compatibilità fra l’effetto sostitutivo immediato, prodotto dalla sentenza di riforma sulle parti della sentenza direttamente investite e sulle parti che ne dipendono (art. 336 comma I° c.p.c.) e la stabilizzazione degli atti compiuti in esecuzione della sentenza poi riformata (stesso art. 336 comma II°) le citate sentenza, dalla cui soluzione conclusiva ora ci si discosta, riaffermano, innanzi tutto, il principio, già da tempo consolidato nella giurisprudenza di questa S.C., secondo cui l’effetto sostitutivo, proprio della sentenza di riforma assolutoria, fa sì che la sentenza riformata perda immediatamente qualsiasi efficacia, tanto d’accertamento quanto di condanna, restando essa priva anche della idoneità a fungere da titolo esecutivo, nella ipotesi in cui sa provvisoriamente eseguibile “ope legis” od “ope iudicis”, il che implica l’impossibilità di proseguire nell’esecuzione in precedenza iniziata, poiché l’esistenza del titolo è richiesta in ogni momento del processo e la sua caducazione impedisce il compimento di altri atti esecutivi nello stesso processo.

Anche la provvisoria esecutività della sentenza (di primo grado) non si sottrae, perciò, a tale regola, esaurendo essa la sua funzione “lato sensu” cautelare ed anticipatoria con la pronuncia della sentenza d’appello, poiché questa, tanto di conferma quanto assolutoria, costituisce il naturale limite della sua efficacia.

Peraltro, l’effetto sostitutivo, secondo le menzionate decisioni, non interferisce, se non dal passaggio in giudicato della sentenza di riforma, sugli atti esecutivi compiuti prima di questa, sicché fino a tale momento, lascia fermi ed operanti, oltre alle situazioni di natura reale, anche i rapporti obbligatori di tipo continuativo che siano stati costituiti de iure o de facto in esecuzione volontaria o coattiva della pronuncia riformata.

Di tale enunciato questa Corte ritiene di dover condividere, come aderente ad una pressoché indiscussa interpretazione dell’art. 336 cpv. c.p.c., soltanto l’affermazione che sono conservati fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma, gli atti e provvedimenti dipendenti dalla sentenza riformata, compresi gli atti di provvisoria esecuzione di quest’ultima, come del resto lo stesso Tribunale nella impugnata sentenza non ha mancato di rilevare. Ulteriori approfondimenti, anche alla luce dei più recenti contributi dottrinali, non permettono, invece, di condividere l’assunto secondo cui gli atti compiuti in esecuzione volontaria o coattiva di sentenze aventi efficacia costitutiva ex art. 2908 c.c. (come la sentenza di reintegrazione ex art. 18 citato) sono idonei ex se a creare rapporti e situazioni di diritto sostanziale, identici a quelli già costituiti dalla sentenza riformata e tali da resistere, diversamente dai primi, alla sentenza di riforma, fino al passaggio in giudicato di questa.

Tale assunto, come già rilevato da questa Corte nelle due sentenze citate, contraddice, invero, al pur riconosciuto effetto sostitutivo, proprio della sentenza di riforma che travolge la pronuncia riformata e le statuizioni dipendenti, senza che nel sistema si rinvengano dati positivi tali da far definire istituzionale una deroga del genere.

Se, infatti la sentenza assolutoria d’appello si sostituisce, sotto ogni profilo, all’accertamento della sentenza riformata, la qualificazione giuridica, sul piano sostanziale, dei fatti dedotti in causa può essere desunta soltanto dalla sentenza di riforma, ne è possibile ipotizzare la coesistenza di due accertamenti contrastanti né, tanto meno, risolvere il conflitto riconoscendo all’effetto conservativo previsto dall’art. 336 cpv. c.p.c. una assoluta prevalenza sull’effetto sostitutivo che è proprio della sentenza di riforma e che toglie alla sentenza riformata l’efficacia di accertamento e la vis executiva (art. 336 prima parte).

Il coordinamento logico sistematico delle due disposizione porta, infatti, ad individuare, come limiti necessari di coesistenza, quelli che assegnano, da un lato, una prevalenza immediata all’effetto sostitutivo proprio della sentenza di riforma e, dall’altro, stabilità, fino al passaggio in giudicato di questa, ai soli atti e provvedimenti precedentemente compiuti ed emessi in esecuzione della sentenza riformata.

Né il regime così delineato va incontro a modificazioni nei rapporti giuridici continuativi o di durata, alla cui categoria appartiene anche il rapporto di lavoro, laddove l’esecuzione provvisoria della sentenza di accertamento del rapporto e di condanna ad adempiere le obbligazioni relative assolve alla sola funzione di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto già accertata.

Così, anche nelle varie ipotesi di esecuzione forzata in forma specifica (consegna o rilascio: artt. 2931 e 2933 c.c.) l’attività di adeguamento al comando giudiziale non produce effetti che non siano già previsti dalla sentenza di condanna restandosi, perciò; nei limiti di una attività meramente effettuale.

Analogamente, gli atti compiuti per l’esecuzione volontaria o coattiva di sentenze di accertamento o costitutive, recanti all’adempimento (quali, ad esempio, la distribuzione del ricavato; la consegna della cosa mobile; l’immissione nel possesso e nella detenzione dell’immobile) esauriscono in sé la loro funzione di mero adeguamento della realtà di fatto a quella giuridica, producendo gli effetti sostanziali tipici dell’adempimento, in conformità alla relazione di diritto sostanziale accertata dalla sentenza.

La norma dell’art. 336 cpv. prevede, appunto, il rinvio dell’effetto estensivo proprio della riforma, mantenendo integre le attribuzioni patrimoniali e le modificazioni sostanziali realizzate prima della riforma e procrastinando al passaggio in giudicato di questa l’attuazione del diritto della parte vittoriosa ad ottenere, in base ad essa, la restituzione di quanto dato o la riduzione in ripristino di quanto modificato.

Non può, pertanto condividersi il già richiamato asserto delle sentenze del 1982 e seguenti, secondo cui, in particolare, a) la temporanea paralisi dell’effetto estensivo proprio della sentenza di riforma rende inefficace la caducazione della sentenza riformata nell’ambito della fattispecie pregiudicata, questa restando provvisoriamente idonea a sorreggere l’effetto giuridico prodotto sulla base della sentenza riformata; b) nell’area dell’esecuzione n forma specifica l’inefficacia della riforma rende stabile non la mera attività materiale di adeguamento (consegna della cosa mobile; rilascio dell’immobile etc. ma l’effetto giuridico realizzato in conformità alla declaratoria iuris; c) dopo la riforma restano, perciò fermi e continuano a produrre effetti, oltre alle situazioni di natura reale, i rapporti obbligatori continuativi ripristinati o costituiti de iure o de facto in esecuzione volontaria o coattiva della sentenza riformata.

Neppure nell’ambito dell’esecuzione in forma specifica, osserva di contro, la Corte, è dato evidenziare alcuna attività esecutiva o di attuazione del comando giudiziale, idonea ad instaurare od a ricostruire rapporti obbligatori continuativi come autonome fattispecie sostanziali dipendenti dalla sentenza che le accerta, tali perciò da sopravvivere alla riforma di questa, fino al passaggio in giudicato della sentenza d’appello.

Né sembra valido il riferimento, d’ordine sistematico, alla esecuzione della sentenza che condanna il locatore a consegnare la cosa locata al conduttore, per potersi ritenere che, anche in tale ipotesi, l’esecuzione forzata o volontaria del comando giudiziale realizza un rapporto autonomo (di locazione) che resiste all’effetto estensivo proprio della sentenza di riforma (accertante l’inesistenza del rapporto locatizio) fino al passaggio in giudicato di essa.

L’unico effetto sostanziale reso stabile anche dopo la riforma, invero, consiste nella mera immissione del conduttore nella detenzione della cosa, poiché il rapporto locatizio, accertato con la sentenza e reso effettivo con la consegna, non sopravvive, come tale, alla riforma della sentenza.

D’altra parte, al consegna della cosa ne assicura, ex se, il godimento al conduttore, conformemente al dictum esecutivo e con effetti che permangono anche dopo la riforma della sentenza di 1° grado e fino al suo passaggio in giudicato, realizzandosi così una semplice situazione di vantaggio processuale a favore del consegnatario, per essersi la detenzione a titolo locatizio trasformata in situazione di mero fatto (peraltro non antigiuridica, poiché resa stabile “ope legis” fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma).

Del che trovasi conferma, d’ordine sistematico, nel regime della responsabilità per danni da ritardato rilascio, in cui, come si riconosce nelle stesse decisioni dalle quali ora si dissente, può incorrere il detentore che, nell’ambito della legalità formale, abbia continuato ad avvalersi della provvisoria esecutività della sentenza anche dopo la sua riforma e nonostante il prevedibile esito finale della lite.

Come è stato rilevato in dottrina, la sentenza non trasforma la relazione di diritto sostanziale fra parte vittoriosa e parte soccombente, restando essa regolata dal rapporto sostanziale accertato.

Si spiega, così, anche l’ipotesi di responsabilità aggravata per ingiusta esecuzione, qual’é regolata dall’art. 96 comma 2° c.p.c. sul presupposto che l’atto processuale efficace possegga una temporanea idoneità ad incidere in maniera illecita (dal punto di vista del diritto sostanziale) sulla sfera giuridica dell’obbligato.

Le considerazioni fin qui svolte portano, dunque, ad affermare che mentre, per un verso, il mero adeguamento materiale ad dictum esecutivo realizza l’attività necessaria e sufficiente, richiesta dalla legge affinché l’accertamento sostanziale possa produrre, nella realtà fenomenica, gli effetti che gli sono propri, per altro verso, soltanto tale attività esecutiva resta stabilizzata, con i suoi effetti sostanziali, fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma.

D’altra parte, come ancora si è rilevato in sede dottrinale, gli effetti sostanziali di un atto o provvedimento del processo sono previsti solo da specifiche norme del c.c. (artt. 2943; 2642 e segg.; 2908; 2818 e 2884; 2913; 2906) mentre agli atti di esecuzione volontaria e coattiva delle sentenze provvisoriamente esecutive il sistema normativo attribuisce, come già detto, la sola efficacia propria degli atti necessari e sufficienti ad adeguare la situazione di fatto a quella di diritto, a portare, cioé, ad effetto l’adempimento, essendo essi da soli inidonei a produrre effetti costitutivi, come quelli propri, invece, degli atti e provvedimenti di cui alle norme sopra citate.

La teoria della fattispecie autonoma che si costituisce in virtù degli atti di esecuzione della sentenza e che sopravvive alla fattispecie caducata dalla sentenza di riforma, come si osserva in dottrina, postula una astrazione del risultato del processo dalla sua base sostanziale, che non trova riscontro nel sistema normativo, ove all’esecuzione volontaria o coattiva del comando giudiziale è riconosciuta una funzione meramente attuativa del rapporto già ricostituito de iure dalla sentenza e, con essa, l’idoneità a produrre i limitati effetti tipici degli atti d’adempimento.

Le sopra svolte considerazioni generali, riferite al tema specifico di causa, non permettono di condividere l’assunto espresso dalle citate decisioni del 1982 e successive, secondo cui anche il solo pagamento della retribuzione dovuta per contratto al lavoratore non reimmesso nel posto di lavoro (art.18 comma 2°) costituisce atto idoneo a ripristinare in via autonoma il rapporto accertato con la sentenza, realizzandosi, così, una fattispecie che dipende da essa e che resta insensibile all’effetto estensivo proprio della sentenza d’appello assolutoria, fino a quando questa passi in giudicato.

Ed invero, l’adempimento dell’obbligo retributivo, come è dato desumere dalla formulazione dell’art. 18 comma 2° (…il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al comma precedente (cioé all’ordine di reintegrazione) è tenuto… a corrispondere al lavoratore la retribuzione dovutagli in virtù del rapporto di lavoro dalla data della sentenza fino a quella della reintegrazione) e, comma 3° (Se il lavoratore entro trenta giorni… non abbia ripreso servizio, il rapporto si intende risolto) è atto semplicemente finalizzato alla riattivazione funzionale del rapporto de iure ripristinato ex tunc, né ad esso si può, quindi, riconoscere l’effetto sostanziale della ricostituzione, questo derivando esclusivamente dalla sentenza che, appunto, ripristina la situazione di diritto già in atto prima del licenziamento dichiarato illegittimo.

Il pagamento della retribuzione, quale atto dipendente dalla sentenza che ordina la reintegrazione, resta, dunque, al di fuori della fattispecie ricostitutiva del rapporto, alla cui formazione la sola pronuncia giudiziale appare elemento necessario e sufficiente.

Con la rimozione di essa da parte della sentenza di riforma assolutoria, il licenziamento, dichiarato legittimo, riassume, a sua volta, l’originaria efficacia risolutiva del rapporto, senza che possa ulteriormente prodursi, ex art. 336 cpv. c.p.c., la sospensione dell’effetto estensivo proprio della sentenza di riforma.

Perciò, il pagamento della retribuzione, pur costituendo adempimento di un obbligo contrattuale (riprodotto dalla norma) i cui tipici effetti sostanziali sono conservati fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma, come è stato rilevato anche dalla impugnata sentenza, non può definirsi atto idoneo a protrarre l’obbligo retributivo oltre la pubblicazione della sentenza di riforma, accertante la legittimità del licenziamento.

Nemmeno può essere condiviso l’ulteriore assunto delle citate decisioni, secondo cui: a) l’obbligo retributivo costituisce un effetto permanente dell’inottemperanza all’ordine di reintegrazione, e perciò, datasi attuazione ad esso mediante il meccanismo dell’esecuzione indiretta, questa legittimamente è proseguita dopo la riforma essendosi in presenza di un effetto dipendente dalla pronuncia riformata; b) l’esecuzione indiretta, quale prezzo dell’inosservanza dell’ordine del giudice, non può dare luogo, per l’obbligato, a conseguenze meno onerose di quelle che egli subirebbe in caso di ottemperanza, cosicché l’obbligo retributivo è destinato ad operare fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma.

L’interpretazione della norma ed i dati del sistema in cui essa si inserisce non permettono, infatti, di ritenere che la fattispecie normativa del pagamento della retribuzione, realizzata mediante l’esecuzione volontaria o coattiva dell’obbligo, sia idonea a produrre effetti sostanziali diversi da quelli tipici della prestazione periodica che esaurisce in sé la sua limitata funzione satisfattoria e che, pertanto, non può valere a rendere l’obbligo retributivo operante anche dopo la sentenza di riforma che ne accerti, invece, l’inesistenza.

Né a diversa conclusione si può giungere attribuendo all’obbligo retributivo il valore di un effetto permanente previsto per l’inosservanza dell’ordine di reintegrazione, sicché l’attuazione volontaria o coattiva dell’obbligo stesso, una prima volta realizzata, possa proseguire dopo la sentenza di riforma, come effetto dipendente dalla sentenza riformata.

L’imposizione dell’obbligo retributivo, nella struttura della previsione normativa, diversamente da quanto deve dirsi dell’ordine giudiziale di reintegrazione, non si pone come comminatoria di condanna ma riproduce semplicemente quello che, secondo legge e contratto, costituisce l’obbligo principale del datore di lavoro (artt. 2094 e 2099 c.c.), che, come effetto della ricostituzione del rapporto, resta operante anche in mancanza di reintegrazione ma soltanto fino alla sentenza di riforma.

Diversamente da quanto si afferma nelle citate decisioni, una “enucleazione dell’obbligo retributivo dal complesso degli obblighi reciproci nascenti dal contratto”, la quale sia operata dalla norma dell’art. 18 comma 2° come effetto permanente dell’inottemperanza all’ordine giudiziale di reintegrazione, non si desume dalla formulazione né dalla ratio della stessa norma, ove l’imposizione formale dell’obbligo già nascente dal rapporto ricostituito non appare concepita come mezzo indispensabile affinché il dipendente possa conseguire anche “invito debitore” il pagamento della retribuzione, così da riattivare in concreto questo aspetto del rapporto.

Né l’imposizione dell’obbligo retributivo può ritenersi prevista dalla norma come sanzione compulsiva avente una specifica finalità di coercizione indiretta o di sanzione per l’inosservanza dell’ordine di reintegrazione, una attitudine del genere costituendo, semmai, un semplice effetto secondario della stessa dichiarazione di illegittimità del licenziamento.

Mentre infatti una finalità almeno in parte sanzionatoria deve riconoscersi al disposto dell’art. 18 comma 2° ove si attribuisce al lavoratore il diritto al risarcimento del danno causatogli dal licenziamento, in misura non inferiore a cinque mensilità di retribuzione, ciò peraltro non può valere anche per la contestuale previsione dell’obbligo retributivo a carico del datore di lavoro non ottemperante all’ordine di reintegrazione, obbligo che, secondo il costante indirizzo interpretativo di questa S.C., a differenza da quello di risarcimento del danno (presunto iuris et de iure in detta misura minima) è influenzato dagli eventuali guadagni altrimenti conseguiti dal lavoratore ed assume perciò una connotazione di incertezza e variabilità quantitativa, concettualmente incompatibile con la tipica funzione sanzionatoria.

Che alla imposizione dell’obbligo retributivo possa riconoscersi una apprezzabile funzione compulsiva alla reintegra o, addirittura, quella di sanzione per l’inosservanza del comando giudiziale, è escluso anche dall’ulteriore rilievo secondo cui l’adempimento dell’obbligo, ritenuto minore (quello retributivo) in assenza della controprestazione del lavoratore (rifiutata dal datore di lavoro) per definizione non può costituire sanzione per l’inosservanza dell’obbligo ritenuto principale (quello di riammettere al lavoro).

Né l’asserito carattere permanente dell’obbligo retributivo a carico del datore di lavoro inottemperante all’ordine di reintegrazione sembra potersi validamente desumere dall’argomento secondo cui l’inosservanza del comando giudiziale non può produrre conseguenze meno gravi di quelle cui va incontro il datore di lavoro che provvede a reintegrare il lavoratore.

Per effetto della riforma in appello, l’ordine di reintegrazione cessa, invero, di produrre ulteriori effetti ed il datore di lavoro può legittimamente dare esecuzione al licenziamento dichiarato legittimo, allontanando il lavoratore dal posto di lavoro e cessando di corrispondere la retribuzione.

Le conseguenze economico patrimoniali nel caso di inottemperanza al comando giudiziale risultano, dunque, per il datore di lavoro, addirittura più onerose di quelle cui egli va incontro quando abbia invece proceduto alla reintegrazione e si sia perciò avvalso della prestazione lavorativa.

La costruzione, da cui questa Corte ora dissente, dell’obbligo retributivo che sopravvive alla riforma, quale prezzo o quale sanzione dell’inottemperanza all’ordine giudiziale di reintegra, come si osserva in dottrina, postula, d’altra parte, una abnorme resistenza del provvedimento giurisdizionale divenuto illegittimo, la quale resistenza trova riscontro nel dato normativo e contrasta, inoltre, con i fondamentale principio del sistema secondo cui il processuale non può dare vita a situazioni di vantaggio processuale (come quella derivante dalla provvisoria esecutività della sentenza) che restino irreversibili dopo la caducazione del titolo e che precludano la ripetizione dell’indebito o il risarcimento dei danni, anche se il titolo sia costituito da un atto autoritativo (risultato poi illegittimo).

Con la pubblicazione della sentenza di riforma cessa, infatti, l’obbligo retributivo ed i precedenti atti, compiuti in esecuzione coattiva o volontaria di esso, come non possono costituire valida premessa alla prosecuzione della esecuzione stessa, così, restano inidonei, come prima, ad instaurare rapporti o situazioni sostanziali autonome che si sostituiscano a quelle accertate con la sentenza oggetto di riforma e che, a differenza da esse, possano resistere, come dipendenti dalla sentenza riformata, all’effetto estensivo, proprio della sentenza di riforma, fino al passaggio in giudicato di questa.

La reintegrazione nel posto di lavoro, è invero concepita, nelle citate decisioni del 1982 e seguenti, come complesso atto unitario idoneo a restituire effettività al rapporto ormai ripristinato de iure dalla sentenza, e che si realizza “uno puncto temporis” (anziché continuativamente “de die in diem”) ed attraverso l’esecuzione di atti materiali quali l’accesso del lavoratore al posto di lavoro; la consegna degli strumenti necessari per la prestazione lavorativa; la reiscrizione del nominativo nei libri obbligatori, mentre il complesso delle successive prestazioni troverebbe la sua fonte giuridica nel rapporto sostanziale così ripristinato.

Senonché, osserva la Corte, tale complesso unitario, in realtà consiste soltanto in una serie di comportamenti preparatori o introduttivi del successivo concreto svolgimento del rapporto ed intrinsecamente inidonei a produrne la riattivazione, cioé a porre in essere le condizioni necessarie per un effettivo normale svolgimento di esso, poiché come si rileva nelle sentenze n. 1232.

1233 e 3455-1976 di questa Corte l’esecuzione coattiva o volontaria degli obblighi a carico del datore di lavoro richiede un diuturno adeguamento della situazione di fatto alla complessa realtà giuridica costituita dal rapporto di lavoro.

L’assunto della riattivazione del rapporto di lavoro con effetti permanenti che, secondo la costruzione in esame, si realizza mediante la descritta serie di atti meramente introduttivi, o anche mediante il solo pagamento della retribuzione la lavoratore non reinserito o per effetto dell’azione giudiziaria promossa per conseguire il pagamento, non solo postula, come già rilevato, una inaccettabile configurazione di singoli atti esecutivi o d’adempimento aventi, essi stessi, e da soli, effetto di ricostituire il rapporto sostanziale in via permanente, ma porta anche a constatare come tale asserita riattivazione mediante reinserimento dipenda da una serie di atti intrinsecamente passibili di una esecuzione forzata che, peraltro, risulta al tempo stesso strumento giuridicamente inidoneo a riattivare il rapporto sostanziale nella sua diuturna effettività.

La reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, è invero, atto complesso essenzialmente incoercibile, secondo un principio pressocché indiscusso, richiamato nelle citate sentenze del 1982 e seguenti ed accolto dallo stesso art. 18 comma 2° attraverso la formale imposizione dell’obbligo retributivo a carico del datore di lavoro non ottemperante all’ordine di reintegrazione.

Resta, così, confermata, sotto questo ulteriore aspetto sistematico la inaccettabilità della teoria secondo cui la riattivazione del rapporto di lavoro si realizza, invece, “uno puncto temporis” e con effetti permanenti.

Per quanto, poi, riguarda il pagamento della retribuzione, che sia eseguito fino alla sentenza di riforma dal datore di lavoro inottemperante all’ordine di reintegrazione, devesi escludere, per quanto sopra rilevato, che da esso possano derivare allo stesso datore di lavoro conseguenze meno onerose di quelle cui egli andrebbe incontro qualora ottemperasse al comando giudiziale, perciò non ricorrendo, nemmeno il presupposto della necessità logico giuridica, ravvisata dalle citate sentenza del 1982 e successive, di avviare ad una disparità di trattamento, di cui ingiustamente godrebbe il datore di lavoro inottemperante all’ordine di reintegrazione, e ciò mediante l’imposizione di un obbligo retributivo che sopravviva alla riforma della sentenza di reintegrazione.

Al rifiuto di quest’ultimo di reimmettere il lavoratore nel posto di lavoro, che rende di fatto impossibile la prestazione senza far venire meno l’obbligo retributivo, il rapporto rimane, invero, operante fino alla sentenza di riforma che lo dichiara cessato, ex tunc, in forza di legittimo licenziamento, sentenza alla quale resistono soltanto gli effetti sostanziali degli atti compiuti in esecuzione, volontaria o coatta, della sentenza riformata, come tali inidonei, peraltro, a produrre effetti costitutivi.

Non merita, pertanto, alcuna censura l’impugnata sentenza, ove, in aderenza ai principi sopra enunciati, si è ritenuto che l’obbligo retributivo del datore di lavoro inottemperante all’ordine di reintegrazione cessa con la sentenza di riforma ancorché non passata in giudicato e che, pertanto, nel caso di specie il lavoratore non reintegrato non poteva, dopo di essa, agire in giudizio per la condanna della controparte al pagamento della retribuzione afferente a periodi posteriori alla stessa sentenza di riforma.

Il ricorso deve quindi essere rigettato, ma ricorrono giusti motivi di compensazione totale, fra le parti delle spese del presente giudizio avuto riguardo alla natura della causa ed alla evoluzione interpretativa in atto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese. Così deciso il 29 gennaio 1987. DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 1 DICEMBRE 1987