Svolgimento del processo

Con atto di citazione del 23 novembre 1978 Giuseppina ed Anna Maria Pacileo, rispettivamente proprietaria ed usufruttuaria di un terreno in Catanzaro Lido occupato, a seguito di decreto autorizzativo del presidente della giunta regionale del 3 maggio 1973, dall’Istituto autonomo per le case popolari, ed utilizzato per la costruzione di alloggi economico-popolari senza che, pur essendo scaduto il periodo di occupazione legittima, fosse stato mai emanato il decreto di espropriazione, convennero il predetto Istituto davanti al tribunale di Catanzaro chiedendone la condanna al risarcimento dei danni in misura corrispondente al valore del bene perduto per effetto dell’illegittima ed irreversibile occupazione.

L’Istituto si costituì deducendo che la procedura di espropriazione era in corso di perfezionamento e l’area risultava già vincolata per l’edilizia economica e popolare, e chiese il rigetto della domanda.

Il Tribunale, disposta consulenza tecnica, condannò l’Istituto al pagamento in favore della Pacileo della somma di L. 163.015.000, corrispondente al valore venale del terreno definitivamente occupato e di un fabbricato su di esso insistente, con gli interessi legali della data di scadenza del periodo di occupazione legittima.

La sentenza, impugnata da entrambe le parti, è stata integralmente confermata dalla Corte di appello, la quale ha osservato: a) che tenuto al risarcimento per l’illecita apprensione del bene era l’I.A.C.P. in quanto autore dell’illecito per avere proceduto all’occupazione, detenuto illegittimamente il bene e realizzato l’opera pubblica, a prescindere da ogni indagine sulla imputabilità del ritardo nella pronuncia del decreto di espropriazione e sul soggetto beneficiario dell’espropriazione stessa; b) che per la perdita del bene conseguente alla sua radicale trasformazione ed irreversibile destinazione all’opera pubblica, le proprietarie avevano diritto al risarcimento per un importo pari al valore venale del bene alla data della detta trasformazione, da rivalutarsi al momento della liquidazione; c) che ai fini del risarcimento sostitutivo del valore economico del bene occupato non doveva tenersi conto dell’influenza negativa su tale valore dei vincoli stabiliti da strumenti urbanistici e preordinati a successiva espropriazione; d) che il terreno in questione, come risultava dagli accertamenti del consulente, aveva carattere edificatorio, essendo ubicato in una zona posta nel centro abitato di Catanzaro Lido, nelle immediate vicinanze della stazione ferroviaria e di una scuola elementare, e dotata di tutte le opere di urbanizzazione primaria (reti di servizio pubblico di acqua, energia elettrica, telefono e fognature); e) che avuto riguardo alla giacitura pianeggiante del terreno, avente accesso diretto da una strada comunale, ed ai prezzi di compravendita di terreni della zona con analoghe caratteristiche, ed in particolare ad un rogito del settembre 1979 per un terreno limitrofo, correttamente il consulente aveva determinato in L. 30.000 al metro quadrato il valore unitario del suolo, a cui andava poi aggiunto il valore del fabbricato preesistente e demolito nel corso dell’occupazione.

Contro la sentenza propone ricorso l’I.A.C.P. di Catanzaro per due motivi; le intimate resistono con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo del ricorso, l’I.A.C.P. di Catanzaro, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 cod. civ.

e dei principi generali in materia di illecito aquiliano e difetto di motivazione, deduce: a) che erroneamente e con motivazione del tutto insufficiente la corte d’appello avrebbe ritenuto l’Istituto obbligato a risarcire il danno conseguente all’illegittima e definitiva occupazione dell’immobile delle attrici, senza considerare che detto ente era solo concessionario per l’attuazione di un programma di edilizia residenziale (P.E.E.P.) da parte del Comune, effettivo beneficio del decreto di occupazione di urgenza e della preconizzata (anche se non più disposta) espropriazione, e che l’ente stesso aveva costruito l’opera pubblica entro i termini di validità dell’occupazione; b) che proprio perché la realizzazione dell’opera pubblica, comportante l’estinzione del diritto di proprietà del privato, si era verificata nel corso della occupazione legittima, il danno in ogni caso si sarebbe dovuto rapportare al mancato perfezionamento della procedura espropriativa, e quindi al mancato conseguimento dell’indennità che sarebbe spettata secondo le disposizioni all’epoca vigenti.

La censura è infondata sotto ogni profilo.

Secondo il consolidato indirizzo della giurisprudenza di questa Suprema Corte inaugurato dalla fondamentale sentenza delle Sezioni Unite n. 1464 del 1983, e meditatamente riconfermato dalle stesse Sezioni Unite con la sentenza n. 3940 del 1988, nell’ipotesi di illegittima occupazione da parte della pubblica amministrazione di un fondo di proprietà privata, per mancanza del provvedimento autorizzativo o per decorso dei relativi termini, la radicale trasformazione del fondo, che denoti la sua irreversibile destinazione alla realizzazione dell’opera pubblica, con la conseguente perdita permanente da parte del privato di ogni facoltà di godimento e di disposizione del bene ed il sorgere di un nuovo bene immobile di natura pubblicistica che incorpora l’area occupata, comporta da un lato la (immediata) estinzione del diritto di proprietà del privato e la contestuale acquisizione, a titolo originario, della proprietà in capo all’ente cui appartiene l’opera pubblica, e dell’altro realizza un fatto illecito (istantaneo, con effetti permanenti) che fa sorgere nel privato, a norma dell’art. 2043 cod. civ., il diritto al risarcimento del danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, in misura corrispondente all’entità di tale (ingiusta) perdita, consistente nel valore del fondo al momento in cui la perdita si è verificata, rivalutato al momento della decisione.

La predetta situazione di radicale irreversibile trasformazione del fondo realizza immediatamente il fatto illecito estintivo-acquisitivo della proprietà ove essa intervenga durante l’occupazione illegittima, mentre, se essa si sia verificata entro il periodo di occupazione legittima, non impedisce che, finché duri tale periodo, nel corso del quale resta legittima la compressione del diritto di proprietà del privato, possa essere ancora validamente emanato il provvedimento di espropriazione con l’attribuzione al privato (soltanto) del diritto alla relativa indennità, ma viene anch’essa ad assumere la rilevanza dell’indicato fatto illecito, e ne determina la consumazione, con le esposte conseguenze risarcitorie, nel momento in cui il periodo di occupazione legittima venga a scadere senza che nel frattempo sia intervenuto il decreto ablatorio (cfr. Cass. 9173-87, 6070-85, 5530-85, 2872-85, 2369-85, 3659-84, 1859-84). Né, sia nell’una che nell’altra ipotesi, consumatosi ormai l’illecito e da esso sorto immediatamente il diritto del privato proprietario all’integrale ristoro del danno subito, questo potrebbe più essere limitato o posto nel nulla, nemmeno da una sopravvenuta emanazione del decreto di esproprio, non più idoneo ad incidere su un assetto proprietario già definitivamente, anche se illecitamente, modificatosi (cfr. Cass. 8344-87, 3201-86, 5231-85, 784-85, 2854-84, 7022-83).

Versandosi, nell’indicata ipotesi, in piena fattispecie di illecito aquiliano, atteso il carattere personale della relativa responsabilità, obbligato al risarcimento del danno nei confronti del titolare del diritto ingiustamente leso è, e non può che essere, l’autore dell’illecito, vale a dire l’ente che ha in concreto attuato l’occupazione e la radicale irreversibile trasformazione del fondo, cagionando l’ingiusto danno della perdita del diritto di proprietà del fondo stesso, e ciò indipendentemente dalla perdurante attualità del possesso o della detenzione, ed a prescindere da ogni indagine sull’imputabilità del mancato perfezionamento della procedura di espropriazione sull’ente che ne era o ne sarebbe stato l’effettivo beneficiario, rilevante solo ai fini di un’eventuale rivalsa verso quest’ultimo da parte del responsabile dell’illecito (cfr. Cass. 4916-87, 4739-86, 2369-85, 6106-83, 6159-82, 1206-79).

Nella specie, non è contestato che l’I.A.C.P. abbia proceduto all’occupazione del fondo ed alla realizzazione dell’opera pubblica senza che, scaduto il periodo di occupazione legittima, fosse stato emanato il decreto di espropriazione; correttamente, quindi, è stata affermata la sua responsabilità per il danno subito dalle attrici, tale responsabilità, nei rapporti con le stesse, non essendo esclusa dal fatto che il detto Istituto fosse “concessionario” o “affidatario” del programma di costruzione di alloggi di edilizia residenziale adottato dal comune di Catanzaro, e che in favore di quest’ultimo fosse stata autorizzata l’occupazione d’urgenza, tanto più ove si consideri che l’ente affidatario o concessionario della realizzazione di un’opera pubblica no è mero esecutore dei lavori, ma ha anche l’incarico di esercitare tutte le funzioni ed i compiti inerenti alla realizzazione dell’opera stessa, ed in particolare di provvedere all’acquisizione dell’aree necessarie, promuovendo e portando a compimento i relativi procedimenti ablatori.

Questa Suprema Corte, peraltro, ha già avuto modo di affermare in analoga fattispecie che il legittimo passivo all’azione risarcitoria promossa dal proprietario di un fondo per l’occupazione di esso divenuta illegittima ed irreversibile, va identificato non con riferimento al soggetto che abbia chiesto ed ottenuto il decreto autorizzativo dell’occupazione, ma a quello che abbia posto in essere il fatto causativo del danno, e concretamente attuato l’occupazione stessa; per cui, in ipotesi di occupazione d’urgenza ottenuta da un comune per la realizzazione di case per i lavoratori, la detta legittimazione passiva va affermata nei confronti dell’Istituto autonomo per le case popolari cui sia stata affidata la realizzazione dell’opera, ove risulti che esso sia l’autore dell’occupazione medesima, in esecuzione del decreto autorizzativo (cfr. Cass. 3780-79), non potendo in contrario invocarsi la disciplina posta dagli art. 35 e 57 della l. 22 ottobre 1971 n. 865, in ordine all’attribuzione ai comuni (od ai loro consorzi) della proprietà, ed agli enti costruttori di un mero diritto di superficie sui suoli espropriati per l’attuazione di un programma di edilizia residenziale pubblica, la quale presuppone appunto il legittimo svolgimento della procedura espropriativa e non può trovare applicazione nell’ipotesi di occupazione illegittima (cfr. Cass. 4061-86).

Il primo motivo del ricorso va pertanto rigettato. Con il secondo motivo, l’I.A.C.P. si duole che i giudici del merito, nel determinare il valore del fondo occupato ai fini della liquidazione del danno: a) erroneamente non abbiano tenuto conto della situazione urbanistica del terreno siccome destinato all’edilizia economica e popolare e dei vincoli che ne derivavano, non preordinati ad espropriazione ma riguardanti il regime di edificabilità del suolo medesimo; b) erroneamente e senza adeguata motivazione avrebbero determinato il valore unitario del fondo sulla base di un solo contratto di permuta relativo a suolo vicino, ma non avente le stesse caratteristiche, e senza considerare l’incidenza delle spese di urbanizzazione; e) erroneamente avrebbero liquidato il danno anche relativamente ad un fabbricato preesistente sul fondo, che doveva pur sempre essere demolito per l’utilizzazione edificatoria del suolo.

Tutte le censure debbono essere disattese.

Sul primo punto, va anzitutto osservato che la censura si risolve su una mera astratta enunciazione dei principi affermati nella giurisprudenza di questa Suprema Corte in ordine alla computabilità o meno, per la determinazione del valore di un suolo, ai fini della liquidazione dell’indennità di espropriazione o del risarcimento del danno per l’occupazione e l’apprensione illegittima, dei vincoli urbanistici gravanti sul suolo medesimo, a seconda che si tratti di vincoli relativi alla disciplina in generale dell’edificabilità dei suoli ovvero di vincoli specifici di destinazione preordinati a successiva espropriazione, ma senza che il ricorrente indichi specificamente di quali vincoli in concreto i giudici del merito non abbiano tenuto conto.

Ché se poi, come sembra, il ricorrente intende riferirsi ai vincoli ed alla prescrizioni del piano di edilizia economica o popolare per la cui attuazione nella specie si è proceduto all’occupazione del terreno, la censura è sicuramente infondata.

Come questa Suprema Corte ha invero ripetutamente precisato, per la determinazione dell’indennità di espropriazione di aree disposta per l’attuazione di un piano di zona per l’edilizia economica e popolare, ed a maggior ragione per la liquidazione del danno da occupazione attuata per gli stessi scopi e divenuta illegittima ed irreversibile, il valore del bene deve essere accertato indipendentemente dall’influenza, sia essa positiva o negativa, dei vincoli e delle prescrizioni del piano medesimo, anche se relativi ai limiti di edificabilità in esso disposti, considerando cioé l’attitudine edificatoria preesistente al piano e non quella derivante da esso (cfr. Cass. 6257-79, 3627-79, 19-78, 1152-77, 3179-72, 3064-72); e ciò perché il detto piano, nella disciplina della l. 18 aprile 1962 n. 167 e più ancora in quella della L. 22 ottobre 1971 n. 865, è uno strumento diretto di attuazione del programma residenziale pubblico, avente valore di piano particolareggiato di esecuzione e di indifferibilità e urgenza di tutte le opere, impianti ed edifici in esso contemplati (cfr. Cass. 7205-87, 4291-87, 4784-85, 3710-77), ed è uno strumento interamente espropriativo, in quanto tutte le aree comprese nel piano vanno acquisite alla mano pubblica. Di modo che tutte le previsioni e le prescrizioni del piano sono in effetti preordinate all’espropriazione, anche quelle che contemplano limiti di edificabilità, di conformazione o di densità edilizia, nel senso che anche queste attengono non già alla disciplina in generale dell’utilizzazione edilizia dei suoli da parte dei proprietari, ma alle caratteristiche ed al modo di essere proprio della complessa opera pubblica di edilizia residenziale da attuarsi attraverso l’intervento pubblico, e come tali perciò non possono incidere né sulla determinazione dell’indennità di espropriazione, né, tanto meno, sulla liquidazione del danno da occupazione illegittima.

Sul secondo punto, la censura investe apprezzamenti e valutazioni tipicamente di fatto, in ordine all’accertamento del valore del suolo illecitamente appreso, riservate esclusivamente al giudice del merito ed insindacabili in sede di legittimità se congruamente e correttamente motivati. E nella specie la corte d’appello ha dato ampio ed adeguato conto delle ragioni del suo convincimento e dei motivi per cui ha prestato adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, ponendo in evidenza la felice ubicazione del terreno in una zona posta nel centro abitato di Catanzaro Lido, nelle immediate vicinanze della stazione della F.F.S.S. e di una scuola elementare, e dotata di tutte le opere di urbanizzazione primaria, ed il particolare pregio del suolo stesso, avente giacitura pianeggiante ed accesso diretto da una strada comunale, e come il valore netto, comprensivo cioé anche di eventuali oneri di urbanizzazione, indicato dal consulente in L. 30.000 al mq., trovasse preciso riscontro anche in un atto di permuta stipulato per un fondo vicino.

Il ricorrente si limita a contestare i risultati di dette valutazioni, che si presentano logicamente congruenti e giuridicamente corrette, senza indicare quali concrete circostanze e quali precisi elementi acquisiti o dedotti in causa la corte di appello avrebbe pretermesso o trascurato nel suo esame, e che avrebbero potuto portare ad una decisione diversa da quella adottata.

Sul terzo punto, relativo all’autonoma liquidazione del danno relativo ad un fabbricato che insisteva sul suolo occupato, va rilevato che un fabbricato costituisce un’entità economica a sé stante rispetto al fondo in cui sia ubicato, per cui, ove anch’esso venga occupato insieme al suolo e, come nella specie, illecitamente appreso e demolito, nella liquidazione del danno non può non ricomprendersi distintamente e il valore del suolo e quello del fabbricato; una valutazione che escluda il valore del fabbricato come bene autonomo sarebbe possibile solo se esso sia privo di autonomia funzionale o abbia scarsa consistenza rispetto al suolo in modo che il suo valore possa ritenersi inglobato in quello del terreno, ovvero sia in condizioni talmente fatiscenti da consigliare una sua demolizione e riedificazione, ovvero ancora che l’utilizzazione e riedificazione, ovvero ancora che l’utilizzazione edificatoria del suolo, in relazione alla quale sia stato determinato il valore dello stesso, risulti incompatibile con la presenza della precedente costruzione e ne postuli la demolizione (cfr. Cass. 4742-79, 4228-78, 3668-78, 3019-789. Ma nessun elemento in tal senso risulta dedotto dal ricorrente, come prospettato in sede di merito e quivi trascurato o insufficientemente valutato, per cui l’apprezzamento del giudice del merito che ha liquidato il danno sia per la perdita (della proprietà) del terreno che per quella del fabbricato su di esso preesistente, si sottrae ad ogni sindacato in questa sede di legittimità.

Il ricorso in conclusione deve essere rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione rigetta il ricorso, e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in L. 2.52.000 di cui L. 2.00.000 per onorario.
Così deciso in Roma il 30 maggio 1988.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 27 LUGLIO 1989