Svolgimento del processo

Con atto notificato il 6 dicembre 1971 Mario e Renata Centanni, proprietari di un appartamento dell’edificio condominiale sito al n. 19 della via V. Brunacci, in Roma, citarono davanti al tribunale di questa città Giuseppe Vilella, proprietario di altro appartamento dello stesso edificio, chiedendo che fosse condannato a demolire le opere eseguite per la copertura di spazi liberi di sua proprietà perchélesivi del decorso architettonico dell’edificio e in contrasto con le previsioni, di rilevanza contrattuale, del regolamento di condominio, e perché inoltre costituenti causa diretta di apprezzabili danni alla loro proprietà contigua – per cui formularono ulteriore coordinata domanda di risarcimento.

Il tribunale adito, con sentenza in data 5 ottobre 1979, accolse parzialmente la sola domanda di demolizione; e tale statuizione, con rigetto delle impugnazioni in sensi opposti proposte dal Vilella, in via principale, e dai Centanni in via incidentale, fu integralmente confermata dalla Corte di appello di Roma, con sentenza depositata il 25 aprile 1983.

Contro questa sentenza il Vilella ha proposto ricorso deducendo tre motivi di cassazione.

I Centanni resistono all’impugnazione mediante controricorso.

Motivi della decisione

Con la sentenza impugnata il ricorrente, proprietario di un appartamento sito al piano attico di un edificio condominiale, è stato condannato, su domanda dei controricorrenti proprietari di un appartamento contiguo, a demolire le strutture mediante le quali aveva trasformato da terrazzo in veranda coperta una parte di sua proprietà dello spazio libero continuo compreso tra il parapetto esistente lungo il muro perimetrale esterno dell’edificio e la linea del corrispondente muro esterno dell’attico, costruito in arretramento.

Al riguardo la corte del merito ha per un verso ritenuto operante, e attuabile coattivamente in forma specifica a richiesta del condomino, il divieto di innovazioni sancito dall’art. 1120 del codice civile (ma in realtà, al caso, dall’art. 1122 in collegamento all’art. 1120 anzidetto), perché ha ravvisato nell’isolato “avancorpo” costruito dal ricorrente un’opera lesiva del decoro architettonico dell’edificio condominiale in quanto “interrompe bruscamente l’omogeneità della parte alta del fabbricato – realizzata (1) con semplice ma armonica linea di terrezzo – alterando l’originario aspetto architettonico dell’insieme” e rappresenta “sicuramente un elemento di estraneità per chi osserva l’edificio dalla strada o dai fabbricati vicini”; ed ha, in relazione alle difese del ricorrente, escluso che a diverso apprezzamento e a diverso giudizio potesse indurre “la circostanza che simile manufatto altri abbia eseguito sulla opposta fronte del palazzo”.

Sotto diverso profilo, poi, la corte del merito ha giudicato che, essendo sancito dal regolamento condominiale, di indiscussa natura e rilevanza contrattuale, “l’obbligo, per i condomini, prima di intraprendere nei locali di loro proprietà l’esecuzione di opere e lavori che, comunque, possano interessare la stabilità e l’estetica dell’edificio o di parte di esso,di attendere dall’amministrazione o di parte di esso, di attendere dall’amministratore il benestare per iscritto, autorizzato dall’assemblea dei condomini”, l’iniziativa di costruzione del ricorrente, comunque interessante l’aspetto estetico della particolare facciata dell’edificio quand’anche potesse ritenersi non lesiva del decoro architettonico, risultava egualmente in ogni caso illegittima perché era stata, pacificamente, posta in essere in difetto del benestare e della autorizzazione anzidetti, e per ciò costituiva inadempimento contrattuale lesivo di diritto degli altri condomini reprimibile a loro domanda, mediante ordine di ripristino della violata legalità.

Tali giudizi il ricorrente censura con i due primi motivi dell’impugnazione, denunciando, in relazione all’art. 360 n. 5 del codice di procedura civile, violazione degli articoli 1120, 1138 e 1453 del codice civile, nonché vizi di motivazione.

Così, il ricorrente sostiene anzitutto che la corte del merito ha contraddittoriamente, o almeno immotivatamente, negato che sul giudizio in ordine alla incidenza della sua opera sul decorso architettonico dell’edificio potesse influire la preesistenza di analoga opera da altri eseguita su diversa facciata dell’edificio stesso, e ha quindi ingiustamente affermata la illegittimità della sua iniziativa, per non avere considerato che invece per l’anzidetta opera anteriore l’originaria armonia e omogeneità strutturale della costruzione era già stata modificata (e compromessa), e che pertanto quella da lui eseguita, adeguando per l’aspetto l’una all’altra facciata, aveva in concreto realizzato una nuova equilibrata situazione estetica che in sé nel suo complesso avrebbe dovuto essere esaminata e valutata.

La censura non ha fondamento e va disattesa, perché, con inequivoca se pure concisa enunciazione, la corte del merito ha precisato di essersi riferita alla sola facciata dell’edificio interessata dall’opera del ricorrente per riguardo al suo modo di essere e di essere apprezzata per sé, quale appare dalla strada e dai fabbricati vicini, verso cui prospetta e da cui non è la contemporanea visione della facciata opposta; e in tal modo ha dato del convincimento raggiunto e del giudizio formulato coerente adeguata giustificazione, che appare in tutto conforme a diritto, perché l’alterazione del decoro dell’edificio condominiale (che in sé non è bene comune ma (2) al regime legale dei beni comuni è assoggettato) ben può derivare dalla alterazione (3) dell’originario aspetto di singoli elementi o di singole parti dell’edificio stesso che abbiano sostanziale o formale autonomia o siano comunque suscettibili per sé di autonoma considerazione.

Con le differenziate censure riferite alla alternativa ragione del giudizio impugnato, poi, il ricorrente sostiene che, per la portata dell’obbligazione gravante a suo carico in forza delle riprodotte prescrizioni del regolamento (contrattuale) del condominio relative alla esecuzione di opere nelle parti dell’edificio condominiale di proprietà individuale, e per considerazione dei poteri di deliberazione al riguardo attribuiti all’assemblea dei condomini, a sanzione dell’accertata sua inosservanza delle prescrizioni anzidette i condomini controricorrenti potevano in suo soltanto statuire, la condanna all’esatto adempimento della prestazione dovuta, e cioé a chiedere all’assemblea la approvazione delle opere eseguite, e non anche la condanna alla relativa demolizione, conseguibile invece esclusivamente dall’assemblea anzidetta – che peraltro, quelle opere avendo in via di fatto accettata in difetto di deliberazione di iniziative volte a reprimerle, aveva al riguardo espresso la propria volontà.

Anche simili censure – in quanto l’esame non resti assorbito da quanto si è detto – per sé sono prive di fondamento e debbono essere disattese: perché, secondo la corretta e in questa sede vincolante comprensione avutane dalla corte del merito, la prescrizione del regolamento contrattuale del condominio (riferita soltanto alle opere incidenti sulla estetica, e non anche sul decoro architettonico dell’edificio condominiale, sì che non attribuisce al riguardo di questi poteri dispositivi all’assemblea dei condomini) comporta il divieto di opere non preventivamente approvate e autorizzate in modi formali, cui per non derogato principio corrisponde il diritto di ciascun condomino contraente di chiedere e ottenere, in via di adempimento in forma specifica dell’obbligo di non fare, ai sensi dell’art. 2933 del codice civile, la demolizione delle opere eseguite senza l’osservanza delle prescrizioni. E in ogni caso la facoltà di delibere o consentire opere lesive del decoro dell’edificio condominiale, nella specie non attribuita contrattualmente, esula affatto dai poteri istituzionali dell’assemblea del condominio, e non può farvisi negozialmente rientrare, per l’inderogabile norma dell’art. 1138 del codice civile, detto in relazione al coordinato disposto degli articoli 1120 e 1122 dello stesso codice.

I due primi motivi del ricorso debbono essere, per le considerazioni esposte, egualmente respinti; e pari sorte è riservata anche al terzo e ultimo motivo, con il quale, improponibilmente per palese difetto di interesse, il ricorrente si duole perché con la sentenza impugnata, con sostanziale pronuncia per lui più favorevole, è stato respinto nel merito, e non dichiarato inammissibile per irrituale tardività, l’appello incidentale proposto dagli attuali controricorrenti contro le statuizioni del tribunale di parziale rigetto della loro iniziale domanda.

In applicazione del criterio legale di responsabilità e soccombenza il ricorrente deve essere condannato a rifondere ai controricorrenti le spese del giudizio di cassazione, oltre a lire 450.000 per onorari di avvocato.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare ai controricorrenti, per rifusione delle spese del giudizio di cassazione, la somma di lire 479.400, della quali lire 450.000 per onorari di avvocato.
Roma, 5 marzo 1985
(1) leggi: realizzata (2) leggi: al (3) delita due parole
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 15 GENNAIO 1986