Svolgimento del processo

Con ricorso notificato il 23.1.1981, Miconi Adelino conveniva in giudizio avanti al Pretore di Ascoli Piceno Brandimarte Ivo, titolare della ditta Metronotte Istituto di Vigilanza Notturna e Diurna, per sentir dichiarare l’illegittimità della sospensione dal lavoro comminatagli ed il conseguente ripristino del posto di lavoro.

Con sentenza del 2.4.1981 l’adito Pretore accoglieva la domanda. Premesso che in presenza del provvedimento prefettizio di sospensione del Meloni dall’esercizio delle funzioni di guardia giurata il datore di lavoro aveva l’alternativa di licenziare il ricorrente per giusta causa o di considerarlo in malattia a norma dell’art. 28 dal C.C.N.L. per i dipendenti dai istituti di vigilanza dal 29.12.1970 con obbligo di corresponsione della retribuzione, il Pretore affermava l’illegittimità del provvedimento di sospensione a tempo indeterminato, essendo i casi di sospensione tassativamente previsti dalla legge, tanto più che il suddetto provvedimento di sospensione era stato revocato sulla base di un accertamento sanitario dal medico provinciale:

il datore di lavoro non poteva contraddittoriamente ritenere attendibile tale accertamento in fase di sospensione e inattendibile in fase di prosecuzione del rapporto, avendo egli la facoltà di controllare lo stato fisico-psichico del dipendente secondo la modalità prevista dall’art. 5 della l. 20.5.1970 n. 300.

Con sentenza del 16.12.1981 il Tribunale di Ascoli Piceno rigettava l’appello proposto dal Brandimarte.

Il Tribunale rilevava che, essendo pacifica la situazione di fatto, potevano condividersi le considerazioni svolte dal primo giudice in merito alla singolare e illegittima procedura, seguita dall’appellante.

In realtà costui di fronte al provvedimento prefettizio di revoca della sospensione, il quale peraltro faceva cenno alla visita medica escludente la permanenza di disturbi neuropsichici doveva ripristinare il rapporto di lavoro sospeso per effetto del provvedimento revocato.

Ove, poi, il Brandimarte avesse considerato il proprio dipendente non idoneo a svolgere le mansioni per le quali era stato assunto avrebbe potuto far ricorso al licenziamento dello stesso per giusta causa, ma non all’istituto della sospensione che nell’ordinamento positivo (come ben rilevato dalla sentenza impugnata) può essere utilizzato in casi limitati.

Avverso la predetta sentenza propone ricorso per cassazione il Brandimarte, formulando un unico complesso motivo di annullamento, in cui eccepisce pregiudizialmente la nullità assoluta dell’atto di notificazione della sentenza impugnata perché eseguito a cura del mezzo giudiziario di conciliazione anziché dall’Ufficiale Giudiziario dall’Ufficio Unico Notifiche del Tribunale di Ascoli Piceno, senza che sussistesse alcun impedimento di costui, neppure temporaneo e in difetto altresì di una qualsiasi delega ad opera del Presidente del Tribunale.

Il Miconi resiste con controricorso. Il ricorrente ha presentato memoria illustrativa.

Motivi della decisione

Si deve preliminarmente osservare che non sussiste il presupposto dell’eccepita nullità dell’atto di notificazione della sentenza impugnata perché eseguito a cura del messo giudiziario di conciliazione, anziché dello ufficiale giudiziario competente, senza il necessario provvedimento autorizzativo del capo dell’ufficio giudiziario a norma dell’art. 34 del D.P.R. 15.12.1959 n. 1229, mod.

con l. 11.6.1962 n. 546, giacché tale provvedimento risulta emesso ed apposto sull’originale dalla stessa sentenza secondo la prescrizione normativa.

Con l’unico motivo si denunzia difetto di motivazione per essersi il giudice di appello limitato a riprodurre la decisione del Pretore, omettendo qualsiasi motivazione sulle eccezioni proposte in primo e riproposte in secondo grado; per essere inoltre la sentenza impugnata erronea perché: il provvedimento di sospensione del Miconi per ragioni di salute dalle funzioni di guardia giurata e dall’autorizzazione a portare la pistola concretava un “factum principis”, determinante una impossibilità delle prestazioni; non poteva essere attuato, versandosi in ipotesi di sospensione del lavoro per forza maggiore, né il licenziamento, che sarebbe stato temporaneamente inefficace, né la sospensione per malattia; l’obbligo della corresponsione della mensilità e di ogni altra competenza durante il periodo di sospensione, in contrasto con i principi generali, estenderebbe le conseguenze economiche, con efficacia ex tunc, del provvedimento prefettizio di revoca della sospensione con addebito ed imputabilità esclusiva all’impresa per un fatto ad essa estraneo; la sopravvivenza del rapporto di lavoro non poteva discendere automaticamente dal provvedimento di revoca suddetto ignorando l’Istituto di vigilanza le conclusioni dal medico provinciale, che lo avevano determinato, e non avendo il lavoratore dato prova del riacquistato stato di salute in relazione alla particolare natura del rapporto.

Il motivo è infondato.

Non può ritenersi che la sentenza d’appello, essendosi limitata a recepire le argomentazioni della sentenza impugnata, sia priva di autonoma motivazione sui motivi di gravame.

Il giudice d’appello, infatti, non viene meno all’obbligo di motivare la propria decisione avente contenuto di “revisio prioris instantiae”, quando come nella specie condivida le argomentazioni della pronuncia di primo grado senza limitarsi a recepirle acriticamente, ma richiamandole e facendole proprie in relazione e nel contesto dell’esame delle censure, mosse dall’appellante: queste lo dispensavano perché assolutamente ripetitive delle deduzioni di primo grado, dalla specifica ulteriore considerazione delle stesse, abilitandolo ad indicare – come effettivamente indicato – gli elementi idonei a sorreggere il proprio autonomo convincimento con implicita esclusione degli altri con questi incompatibili.

Il rapporto di lavoro, che si instaura tra un istituto di vigilanza, gestito da un soggetto privato e le dipendenti guardie giurate, soggette alle particolari disposizioni di cui agli artt. 133-141 del t.u. della legge di P.S. e degli artt. 2 249-256 dal regolamento approvato con r.d. 6.5.1940 n. 635 nonché dal r.d.l. 26.9.1935 n. 1952, contenente la regolamentazione delle guardie particolari giurate, presenta profili di natura pubblicistica in quanto le relative mansioni implicano un tipico esercizio privato di pubbliche funzioni, e perciò l’esercizio di esse è condizionato alla licenza prefettizia e alla vigilanza del questore.

Nel suddetto rapporto la licenza prefettizia e l’autorizzazione del porto d’armi da parte del questore costituiscono presupposto indispensabile per la legittimità delle prestazioni per modo che, ove si verifichi l’ipotesi di revoca o di decadenza dal decreto autorizzativo, la prestazione della guardia giurata diventa illegittima, invalidando il rapporto, nonostante, i profili pubblicistici che, hanno rilevanza nel momento della sua costituzione e della sua estinzione resta regolata nei confronti del datore di lavoro e del lavoratore dalla disciplina generale privatistica del codice civile e dei contratti collettivi per quanto riguarda il suo svolgimento.

Secondo quanto ritenuto dalla sentenza impugnata nella specie era pacifico che il Miconi inviò al datore di lavoro idonea certificazione medica, attestante il suo stato di malattia; che trasmessa dallo stesso datore di lavoro, tale certificazione all’autorità prefettizia, intervenne la sospensione cautelare, motivata dallo stato di malattia della guardia giurata e che tale provvedimento fu revocato a seguito del riacquistato stato di salute, constatato dal medico provinciale secondo quanto espresso nella motivazione di esso.

In tale situazione, in cui la malattia, regolarmente denunciata, costituiva il presupposto di fatto, poi venuto meno del presupposto amministrativo di sospensione, lo stato di malattia, e non il provvedimento conseguente, concretava il fatto generatore della sospensione, che rimaneva regolata dalla specifica e particolare disciplina prevista dall’art. 2110 c.c. e dall’art. 28 della contrattazione collettiva.

Pertanto – come la sentenza impugnata implicitamente afferma – il datore di lavoro non poteva unilateralmente utilizzare la sospensione cautelare amministrativa, di carattere provvisorio in quanto connessa alla permanenza della malattia, attribuendo ad essa i sostanziali effetti definitivi di un licenziamento derogando all’ipotesi tipica di sospensione prevista dalle norme citate.

La norma dell’art. 2110 c.c. suddetta in deroga ai principi generali delle obbligazioni, trasferisce il rischio dell’impossibilità temporanea non imputabile al lavoratore al datore di lavoro finche perdura il periodo di confronto con il correlativo onere del pagamento delle retribuzioni, pur in mancanza della controprestazione, e, in costanza di malattia, non consente allo stesso datore di lavoro di parificare gli effetti di una sospensione cautelare amministrativa ed un factum principis e cioé ad una impossibilità definitiva delle prestazioni, che potrebbero verificarsi nei casi in cui, a seguito della revoca o della decadenza della abilitazione professionale, sia concretata una ipotesi di legittimità del licenziamento ovvero la sospensione indeterminata del rapporto assuma carattere di definitività (Cass. 7.7.1984 n. 3906).

Né d’altra parte il datore di lavoro può in sede di legittimità addurre una pretesa ignoranza della concessione dello stato di malattia giacché il lavoratore subordinato ha l’esclusivo onere di attestare il proprio stato morboso a giustificazione dell’assenza dal posto di lavoro e di certificare le eventuali proroghe, ma non di dimostrare la sua guarigione al momento in cui, prima della scadenza del termine di comporto offra la ripresa delle prestazioni lavorative, rimanendo salva la facoltà del datore di lavoro di promuovere all’inizio e nel corso della malattia, i controlli sanitari a norma dell’art.. 5 della L. 20.5.1970 N. 300 ed eventualmente alla fine della stessa malattia, ove abbia dubbi sulla riacquistata idoneità fisico-psichica al lavoro, di disporre gli opportuni accertamenti, che, peraltro nella specie erano stati di fatto eseguiti da un medico provinciale.

Il ricorso deve essere dunque rigettato.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla spese in L. 23.160 oltre L. 700.000 (settecentomila) per onorario.
Così deciso in Roma il 29.3.1985.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 2 GENNAIO 1986