Svolgimento del processo
Con citazione notificata il 18 aprile 1977 Pietro Ferrario chiese al Tribunale di Milano di condannare Ettore Pasca al pagamento della somma di lire 35.401.000 – prezzo residuo di un terreno che Ferrario, in nome e nell’interesse di altre persone che nel proprio, aveva venduto a pasca con scrittura del 20 agosto 1966 – nonché al pagamento degli interessi, al tasso convenzionale del 10%, dal 10 aprile 1969.
Costituitosi, Pasca eccepì, tra l’altro, la prescrizione e in riconvenzionale chiese la risoluzione del contratto, avendogli Ferrario venduto una cosa altrui, e al restituzione dell’anticipo; in subordine chiese che la condanna fosse limitata alla minor somma risultante da un più preciso calcolo del prezzo totale, sulla base del prezzo unitario stabilito nella scrittura in relazione alla superficie.
Intervennero in causa le sorelle Alda e Carla Galli, dichiarandosi creditrici di Pasca in solido con Ferrario, e chiesero che la condanna del primo fosse pronunciata anche a loro favore (aumentandosi però la somma capitale a lire 37.173.000, facendosi decorrere gli interessi dal 1° ottobre 1966, aggiungendosi gli interessi anatocistici dalla domanda di intervento e condannandosi il convenuto anche al risarcimento del maggior danno da svalutazione monetaria) “senza pregiudizio della successiva ripartizione agli aventi diritto”.
Pasca eccepì l’inammissibilità dell’intervento, l’improponibilità e l’infondatezza delle domande proposte dalle sorelle Galli, ed estese nei loro confronti le eccezioni e la riconvenzionale proposta contro Ferrario.
Il Tribunale, rigettando ogni altra domanda ed eccezione, condannò Pasca a pagare, “a Piero Ferrario e ad Alda e Carla Galli”, la minore tra le due somme di denaro, con gli interessi del 10% dal 10 aprile 1969 e, alle Galli, anche quelli anatocistici della domanda d’intervento.
Pasca Ferrario, e le sorelle Galli appellarono separatamente e la Corte milanese, in relazione ai vari motivi d’impugnazione:
a) dichiarò inammissibile l’appello delle Galli, qualificando il loro intervento come adesivo dipendente rispetto alla posizione di Ferrario, e dichiarando che, al più, l’appello era da considerarsi anch’esso semplicemente adesivo;
b) dichiarò che – comunque – le domande dal loro proposte con l’atto d’intervento erano improponibili e infondate;
c) rigetta l’eccezione di prescrizione sia quanto al credito del capitale sia quanto al credito degli interessi;
d) rigettò l’appello di Pasca quanto al motivo per cui a Ferrario avrebbe dovuto riconoscersi soltanto una quota del prezzo, in corrispondenza alla quota di sua proprietà sul terreno, statuendo che Ferrario era creditore solidale;
e) accertò, sulla base di una nuova consulenza tecnica d’ufficio, che il prezzo residuo era di sole L. 33.982.800 e condannò Pasca a pagare a Ferrario (che, con l’appello incidentale ne aveva chiesto l’attribuzione esclusiva nella qualità) tale somma con gli interessi del 10% dal 10 aprile 1969, in essi assorbito, perché convenzionali, l’ulteriore risarcimento ex art. 1224-2 c.c.;
f) regolò, infine, le spese, ponendo a carico di Pasca quelle sostenute da Ferrario ed a carico delle Galli quelle sostenute da Pasca.
Ricorrono, separatamente, Ferrario, Pasca e le sorelle Galli. Pasca risiede al ricorso di Ferrario ed al ricorso delle Galli ed ha proposto contro queste ricorso incidentale – dichiarandolo condizionato all’accoglimento del ricorso loro – per gli stessi motivi formulati nel ricorso contro Ferrario. Quest’ultimo resiste al ricorso di Pasca.
Motivi della decisione
In ordine di pregiudizialità preliminarità la precedenza va data al primo motivo del ricorso Galli, col quale si denuncia la violazione degli artt. 105 c.p.c., 1306 e 1316 c.c. e contraddittorietà di motivazione e si deduce che la Corte avrebbe dovuto ritenere ammissibile il loro appello, dovendo l’intervento da loro spiegato in primo grado qualificarsi come adesivo autonomo.
Non può negarsi che la statuizione della Corte sul punto sia erronea in diritto. Il primo giudice qualificò come adesivo autonomo l’intervento, spiegato dalle sorelle Galli, in base alla solidarietà che ritenne sussistere tra loro e Ferrario quanto alla posizione soggettiva soggettiva attiva del rapporto da questi dedotto in giudizio. Il giudice d’appello ribadì l’opinione del Tribunale in ordine alla solidarietà, ma, proprio in virtù di essa, escluse che l’intervento potesse qualificarsi adesivo autonomo, ritenendolo adesivo dipendente, ex art. 105-2 c.p.c. Le ragioni addotte per ritenere la solidarietà – dopo l’enunciazione del principio per cui, a differenza della solidarietà passiva che si presume (art. 1294 c.c.) quella attiva deve risultare dalla legge o dal titolo – si sostanziano, principalmente, nell’assunto che, in base agli atti e allo stesso contratto di vendita dell’agosto 1966, Ferrario aveva venduto lo immobile in nome e nell’interesse degli altri comproprietari oltre che in proprio. Così facendo, però, i giudici disapplicarono l’altro principio, ugualmente fermo in giurisprudenza, per cui, con riguardo al contratto costitutivo di rapporti obbligatori fra una pluralità di parti, il vincolo di solidarietà fra i creditori richiede uno specifico patto e non può essere ricavato dalla clausola che si limiti a conferire a uno dei creditori il potere di rappresentare gli altri (C. n. 3524-83).
L’errore della Corte d’appello è perciò duplice: da un canto essa ritenne che la solidarietà possa farsi derivare dal vincolo di rappresentanza (mentre i due istituti sono diversi, e se nella specie gli effetti potevano essere identici sul piano pratico -il pagamento a mani di Ferrario era comunque liberatorio rispetto agli altri comproprietari – ciò dipendeva non dal rapporto di solidarietà tra questi e Ferrario ma dal rapporto di rappresentanza, in forza del quale questi era autorizzato da quelli a riscuotere il prezzo) dall’altro ritenne che l’intervento spiegato dal creditore solidale abbia natura di intervento adesivo dipendente (mentre il caso è addirittura citato come esempio classico di intervento adesivo autonomo: il creditore solidale vanta un diritto di credito, al pari del concreditore attore, e non semplice interesse, e il diritto egli lo fa valere in confronto, non di tutte le parti già in causa, come nell’intervento principale, ma soltanto di taluna di esse, ex art. 105-1).
Tuttavia questa Corte deve limitarsi a correggere l’errore ex art. 384 c.p.c senza bisogno di cassare con rinvio la sentenza sul punto, cassazione a cui le Galli non hanno alcun interesse in quanto i giudici di merito, pur negando l’ammissibilità del loro appello, ne esaminarono contemporaneamente il merito e su entrambe le statuizioni
– ricavabili dal confronto fra motivazione e dispositivo – le Galli si sono dolute e pertanto, dovendosi esaminare il loro ricorso anche sotto questo secondo profilo, la necessità del rinvio si porrebbe esclusivamente in funzione della fondatezza di esso (di cui “infra”).
Da quanto precede consegue pure l’infondatezza del primo motivo del ricorso Pasca, con cui si denuncia la violazione degli artt.a 1292 segg., 1314 e 1363 c.c. nonché difetto di motivazione e si deduce che la Corte non avrebbe dovuto accogliere la domanda di Ferrario se non per la sola parte del prezzo relativa alla sua quota di proprietà, poiché né dalla scrittura del 1966 né dalla lettera del 1969 né “aliunde” era desumibile un vincolo di solidarietà fra i creditori. La doglianza, sotto il profilo concernente la qualificazione giuridica adottata dalla Corte in punto solidarietà, è, sul piano teorico, fondata per le ragioni già esposte, ma, sotto il profilo dell’annullamento, a cui tende, della statuizione fatta dai giudici di merito a favore di Ferrario, non coglie nel segno, avendo essi accertato che Ferrario (in tanto poteva pretendere il pagamento dell’intero in quanto era creditore solidale ma era creditore solidale siccome) aveva ricevuto mandato dagli altri comproprietari di vendere l’intero immobile e di esigere l’intero prezzo anche nel loro nome e interesse.
In altre parole la statuizione, depurata dall’erronea qualificazione giuridica (anche qui ai sensi dell’art. 384 c.p.c.) conserva la sua forza decisoria per avere la Corte Attribuito a Ferrario l’intera somma considerandolo in punto di fatto rappresentante degli altri proprietari e tale accertamento non è censurato da Pasca, teso a dimostrare soltanto l’incongruenza giuridica di quella qualificazione.
Va poi esaminato il secondo motivo del ricorso Pasca con cui si denuncia la violazione degli artt. 2935, 2944, 2945 e 2946 c.c. e difetto di motivazione e si deduce che la Corte avrebbe dovuto dichiarare prescritto il credito in quanto il “dies a quo” del termine decennale doveva farsi coincidere, se non con la data del contratto (20.8.66) almeno con la data del 30.9.66, giorno in cui egli si era obbligato a rilasciare delle cambiali in pagamento (“pro soluto”) anche se poi non le aveva più rilasciate. Il motivo è infondato perché i giudici di merito, con valutazione incensurabile in quanto immune da vizi logici e da errori giuridici, ritennero che Pasca avesse effettuato pagamenti parziali fino al settembre 1977 e che in tal modo, tacitamente ma inequivocamente, avesse riconosciuto il diritto di credito poi azionato, con l’effetto dell’interruzione del termine ex art. 2944 c.c. (in tal senso C. n. 4315-77, tra le altre). L’apprezzamento – decisivo – fu fatto dal Tribunale (pag.
16-17) non fu smentito dalla Corte d’Appello e non lo è stato neanche dal ricorrente, il quale in proposito invano si limita ad assumere (e ciò è sintomatico) che la Corte avrebbe “implicitamente disatteso le diverse motivazioni” del tribunale (pag. 15 del ric.). In realtà la corte non vece che aggiungere, a queste, altre argomentazioni (ammissioni in senso ricognitivo del legale di Pasca, contenute in una lettera del 10 aprile 1969 e utilizzate in via indiziaria) e non tolse rilievo alle prime che in tal modo implicitamente ribadì.
Col terzo motivo del suo ricorso Pasca denuncia la violazione dell’art. 2948 n. 4 c.c. e difetto di motivazione e deduce che (anche) gli interessi si erano prescritti, nel termine quinquennale.
La censura è infondata.
A norma dell’art. 2948 n. 4 c.c. si prescrivono in cinque anni “gli interessi e, in generale, tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi”.
In base all’elemento ermeneutico sistematico, che si rifà alla tecnica usata nella parte codificata del nostro ordinamento (aggruppamento di più istituti, per i quali si dettano regole comuni, entro lo stesso Libro o Titolo o sezione o articolo o comma o numero; individuazione del criterio o “ratio” per cui più istitutivi vi sono raggruppati) sembra anzitutto che, siccome nel n. 4 gli “interessi” sono accumunati a “tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi”, ne debbano condividere la periodicità (altrimenti l’aggruppamento non si spiegherebbe) connotato che è peraltro comune ai crediti elencati nei primi tre numeri (annualità delle rendite; annualità delle pensioni alimentari; pigioni delle case, fitti dei beni rustici e ogni altro corrispettivo di locazioni).
Rafforza tale interpretazione l’elemento storico-comparativo: il codice del 1865, all’omologo art. 2144, accomunava, ai fini della prescrizione quinquennale, (1) per quelli di cui al n. 4, un’espressione affatto equivalente (“gli interessi delle somme dovute e generalmente tutto ciò che è pagabile ad anno o a termini periodici di più brevi”). Non può indurre a conclusione diversa l’inserimento, al n. 5 dell’attuale art. 2948, delle “indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro”, che non erano comprese nello art. 2144, inserimento che sminuirebbe la lettura del testo sotto il segno della periodicità (ma questo rimarrebbe almeno per il n. 4) se non si potesse giustificare con la parallela esigenza di una normazione unitaria, sempre ai fini della prescrizione, delle spettanze lavorative, quelle da corrispondersi ad anno o in termini più brevi essendo comprese nel precedente n. 4 (la norma convenuta nella quale è stata dichiarata incostituzionale solo nella parte in cui consente che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorre durante il rapporto di lavoro: Corte cost. n. 63-66).
Che anche gli interessi inclusi al n. 4 debbano condividere per ricadere nel termine breve di prescrizione, il connotato della periodicità comune a tutti gli altri crediti elencati nell’intero art. 2948 (fatta eccezione del n. 5) è opinione che, mutuata dalla giurisprudenza sorta sotto il vecchio codice,fu ribadita dalle prime decisioni di questa Corte sotto il nuovo: C. n. 2508-42 (secondo cui la formula “… e generalmente …” contenuta nell’art. 2144 c.c. 1865, allude, con formula riassuntiva, ad obbligazioni della stessa natura di quelle specificate nella prima parte dello stesso comma – “Gli interessi delle somme dovute … – cioé a “prestazioni periodiche costituenti accessorio di un debito principale. Tale interpretazione viene suffragata dalla formulazione dell’art. 2948 del nuovo codice che, sotto tale riguardo, ha portata meramente interpretativa”); C. n. 874-52 (per cui la prescrizione quinquennale prevista dall’art. 2948 c.c. trova applicazione solo per quanto attiene alle prestazioni di natura periodica e non per quelle prestazioni che abbiano (2) corresponsione avviene “una tantum”, salva l’ipotesi contemplativa nel n. 5).
A questo primo indirizzo segue una serie di massime dalla cui formulazione appare che l’enunciazione del principio per cui, ad eccezione del n. 5, il connotato comune a tutti i crediti è la periodicità (” il criterio informatore dell’art. 2948 nn. da 1 a 4 è quello di liberare il debitore dalle prestazioni scadute e non richieste tempestivamente dal creditore quando le prestazioni sono periodiche …”) è fatta seguire da una frase (“… in relazione ad una “causa debendi” continuativa”) che, in realtà, ha evidente scopo esplicativo del tutto pleonastico, non potendo esservi prestazione dovuta periodicamente se non con riferimento ad un rapporto in cui l’obbligo della periodicità sia preventivamente sorto e perduri e sostenga ogni singola prestazione futura. E che la locuzione aggiunta non avesse, nell’intenzione della Corte, alcun valore innovativo è dimostrato dal diniego opposto dalla prima di queste massime – C. n. 1105-62 – all’applicabilità della norma agli interessi sulla somma di denaro sostitutiva della cosa che il possessore di mala fede è tenuto a restituire, diniego giustificato dal rilievo che tali interessi sono, insieme con la somma, oggetto d’un’obbligazione di risarcimento alla cui base non v’é una “causa debendi” continuativa, cioé tale da dar luogo a prestazioni periodiche.
C. n. 621-65 è nello stesso senso: in analogia fattispecie (rendiconto tra coeredi, in cui i giudici di merito avevano commesso l’errore di riferire la periodicità, presupposto per l’applicazione del termine breve, non al rapporto obbligatorio tra il coerede tenuto e il coerede avente diritto al rendiconto bensì al rapporto obbligatorio fra il primo e il terzo dal quale questi aveva riscosso periodicamente pigioni, rendite e fitti il cui coacervo era oggetto del rendiconto) essa ribadì che l’art. 2948 richiede la periodicità delle prestazioni, e ciò non ricorreva nella specie.
Nonostante tale puntualizzazione di concetti, in altre successive decisioni la formula, a stare alle massime trattenne, appare completata con quella frase come se questa ne facesse parte integrante e necessaria (così in C. n. 1909-68: l’art. 2948 n. 4 si applica quando le prestazioni, scadute e non richieste tempestivamente, “siano periodiche e dipendano da una “causa debendi” continuativa”; la Corte disse che nella specie la norma non era applicabile essendo gli interessi “de quibus” parte integrante del danno) sicché, tranne qualche ripensamento (C. n. 2080-69, letta “in extenso”: “l’inciso “… e in generale tutto ciò che deve pagarsi ad anno o in termini più brevi” posto dopo la dizione “gli interessi …”, appare riferibile, oltre che alle prestazioni periodiche di carattere accessorio, quali quelle relative agli interessi, anche alle obbligazioni periodiche di carattere principale, sempre che siano in dipendenza di una “causa debendi” continuativa”) alla fine, alla periodicità delle prestazioni intesa come connotazione anche egli interessi è stata fatta equipollente la “continuità della “causa debendi” indipendentemente dalla periodicità della corresponsione degli interessi.
In questo senso è C. n. 834-70 (in una fattispecie di risarcimento danni da abusiva occupazione d’immobile da parte delle P.A.: la norma di cui all’art. 2948 n. 4 si applica quando le prestazioni scadute e non richieste “siano periodiche o dipendano da una “causa debendi” continuativa” e pertanto non si applica quando la domanda di interessi è “congiunta a quella di risarcimento”) e C. n. 1884-77 (secondo cui gli interessi relativi a somme indebitamente precette dall’amministrazione finanziaria, avendo una “causa debendi” autonoma rispetto a quella su cui è fondata la “condictio indebiti” e quindi potendo rispetto ad essa verificarsi “una inerzia del creditore, cui può ricollegarsi l’effetti estintivo della prescrizione”, sono soggetti alla prescrizione quinquennale; opinione condivisa da C. N. 935-84) e, da ultimo, C. nn. 687-80 e 4682-81 (secondo cui – in una fattispecie di domanda di ripetizione di imposta indebitamente riscossa dall’amministrazione finanziaria – si è sottolineato – dichiarandosi di prescindere da questioni, estranee alla causa, relative ad eventuali peculiarità dell’obbligazione fiscale – che “qualsiasi credito di capitale, diverso da quello per risarcimento di danno aquiliano …., costituisce rispetto all’obbligazione di interessi … quella “causa debendi” continuativa correttamente ravvisata come il “proprium” della fattispecie legale dell’art. 2948 n. 4″ e “rispetto al credito per interessi da essa nascente è configurabile una sua propria, autonoma e distinta possibilità d’azione o di inerzia, e, correlativamente a questa secondo alternativa, di prescrizione”).
Ma tant’é: il “proprium” della fattispecie di cui all’art. 2948 n. 4 (ed anzi, come si è visto, di tutte le fattispecie di cui ai nn. 1-4, mutuate pari pari dal vecchio art. 2144)non è (soltanto) la continuità della “causa debendi” (ipotesi che, se vuole esprimere il concetto per cui fin quando è dovuto il capitale sono dovuti gli interessi, contraddice la tesi – e infatti, facendo identico il “dies a quo”, passati i cinque anni gli interessi non sono più dovuti perché estinti e il capitale continua ad esserlo – e se vuol significare che in tanto gli interessi sono dovuti in quanto è dovuto il capitale, non fa che descrivere il pacifico legame di accessorietà che è a monte e quindi fuori della questione che si vuol risolvere) ma è la periodicità degli interessi, a favore della non necessità del cui connotato, al fine dell’applicabilità della prescrizione breve, nulla si dimostra.
Si parla generalmente, con riguardo agli interessi, di accessorietà e di autonomia, la prima riferibile al momento genetico dell’obbligazione di cui sono oggetto, l’altra allo svolgimento ed esecuzione di questa dopo che è sorta, con la conseguenza che la contestazione sul sorgere dell’obbligazione principale coinvolge necessariamente il sorgere dell’obbligazione degli interessi, mentre, una volta validamente nata, questa può avere una sorte diversa da quella e ad es. estinguersi per causa indipendente (il debitore, d’accordo col creditore – art. 1194 c.c. – può adempiere l’una prima dell’altra indifferentemente e l’una può estinguersi prima della altra). L’accessorietà è la regola (e si applica il principio “accessorium sequitur”) l’autonomia l’eccezione.
Ora, con riguardo alla prescrizione, che matura a cominciare dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935) e restrigendo l’indagine all’ipotesi in cui tale giorno coincida con quello della scadenza, l’accessorietà cede all’autonomia se il debito degli interessi abbia una scadenza diversa da quella del debito principale. Da tale scadenza, comunque diversa dall’altra, decorre il termine che è quello stabilito invia generale per qualsiasi diritto dall’art. 2946 (“Salvi i casi in cui la legge dispone diversamente …”) così come, se la scadenza è uguale per entrambe le obbligazioni o è identico il giorno del quale possono entrambe farsi valere, è sempre il termine ordinario che si applica.
E la norma di cui all’art. 2948 n. 4 è, quanto agli interessi, norma eccezione anche perché deroga al principio “accessorium sequitur”, e per la sua applicabilità agli interessi richiede imprescindibilmente la periodicità dei medesimi come per qualsiasi altro dei crediti elencati ai nn. 1-4, periodicità annale o infrannale la cui brevità costituisce la “ratio” della imposizione del termine prescrizionale minore.
E nella specie né si faceva valere, quanto agli interessi, una scadenza diversa da quella dell’obbligazione principale, Ferrario agendo contro Pasca per il pagamento del prezzo residuo in una agli interessi (ragion per cui il “dies a quo” era identico) né, tantomeno, si faceva valere periodicità alcuna, donde l’inapplicabilità della prescrizione breve. La Corte di merito, con apprezzamento di fatto insindacabile perché immune da vizi logici ed errori giuridici, ritenne che l’obbligazione d’interessi non fosse autonoma ma costituisse un tutt’uno con l’obbligazione principale e perciò legittimamente negò che si fossero prescritti; e se parlò di periodicità, lo fece (e non rileva) con riguardo soltanto ad un’apposita clausola contrattuale – poi rimasta, com’é pacifico, concordemente inattuata – che originariamente prevedeva una forma rateale di pagamento del debito principale.
Con la prima censura del secondo motivo del ricorso Galli si denuncia violazione degli artt. 1537-1541 c.c. e 346 c.p.c. nonché difetto di motivazione e si deduce che la Corte non avrebbe dovuto ammettere la consulenza tecnica sulla quale si era poi basata per la determinazione del prezzo in misura inferiore a quella che esse avevano dedotta in quanto vi ostava la prescrizione che esse avevano ex art. 1541 c.c. “tempestivamente” eccepita nella comparsa conclusionale di primo grado e ribadita in quella d’appello.
La questione,secondo quanto le stesse ricorrenti assumono, fu sollevata soltanto in sede di discussione e quindi né i giudici di merito potevano occuparsene, siccome non ritualmente dedotta, né può farlo questa Corte davanti alla quale è come nuova.
Con la seconda censura dello stesso motivo le Galli denunciano la violazione e falsa applicazione dell’art. 1283 c.c. e deducono che la Corte avrebbe dovuto liquidare gli interessi sugli interessi, essendo il credito certo, liquidato ed esigibile.
La censura è infondata.
A norma dell’art. 1283 c.c. gli interessi producono interessi alla duplice condizione che si tratti di interessi scaduti e che siano dovuti per almeno sei mesi. La scadenza è perciò distinta dalla debenza: questa riguarda il sorgere della obbligazione cioé il giorno dal quale gli interessi decorrono, quella il giorno in cui devono essere pagati.
Nei crediti di valore, poiché gli interessi ne sono parte integrante, essi hanno la stessa decorrenza del credito principale e la stessa scadenza, la quale coincide con la data in cui ne viene accertata l’entità (liquidità) e l’esigibilità, data che, per i crediti litigiosi, è quella della pronuncia del giudice: è in questo momento che gli interessi, calcolati dal giorno in cui sono dovuti, si assommano al capitale nella pronuncia di condanna del debitore al pagamento, sicché da tale data, essendosi a loro volta capitalizzati, producono (ulteriori) interessi (anatocismo).
Nei crediti di valuta la scadenza degli interessi può essere, per legge o per patto, diversa dalla scadenza del debito principale (e in tal caso, ricorrendo gli altri requisiti – semestralità, domanda giudiziale o convenzione posteriore alla scadenza – l’anatocismo ha modo di esplicarsi) oppure uguale ad essa (e in tal caso si ritorna all’ipotesi di cui sopra e la possibilità di applicazione dell’anatocismo resta (3) subordinata all’accertamento ed alla liquidazione effettuata dalla sentenza del giudice, dalla quale gli interessi composti decorrono. In tal senso: C. n. 2541-51, in una fattispecie di debito ritenuto di valuta; n. 2578-68 (in una fattispecie identica) che ribadì l’indirizzo seguito dalla prima superando le obiezioni poste da C. n. 2098-61 – secondo cui non osta al riconoscimento degli interessi composti, calcolati nella specie in base a c.t.u., la continuata maturazione degli interessi semplici in corso di causa – col mettere in evidenza che questa continua maturazione dal giorno dal quale sono dovuti non deve confondersi con la scadenza, cioé col giorno in cui devono essere pagati -; n. 2522-70 (in una fattispecie di risarcimento danni da risoluzione di contratto); n. 2290-74 (in una fattispecie di credito pecuniario incerto e illiquido); e, da ultimo, nn. 447-76e 4123-78.
Nella specie il credito, se non anche incerto (in convenuto aveva chiesto – e non ottenuto – la risoluzione del contratto) era almeno illiquido perché, avendo ad oggetto il prezzo che nel contratto era stabilito in ragione di un tanto per ogni unità di misura, e non essendo determinata – benché determinabile – l’estensione del fondo, fu necessario disporre apposita c.t.u. per accertarlo, ragion per cui, anche se gli interessi semplici continuavano a maturare nel corso del giudizio, non poteva dirsi che avessero una propria scadenza, in senso tecnico, prima della pronuncia giudiziale, e rettamente la Corte di merito rigettò la domanda.
La terza censura del secondo motivo del ricorso Galli va esaminata congiuntamente all’unico motivo del ricorso Ferrario, con entrambi denunciandosi la violazione dell’art. 1224 c.c. per avere la Corte milanese negato l’ulteriore danno da svalutazione monetaria a causa della pattuizione della misura degli interessi moratori, pattuizione che secondo i ricorrenti erea subordinata dalla condizione, non verificatasi, del pagamento del prezzo a rate. La doglianza è inammissibile perché concernente questione del tutto nuova in questa sede, come risulta, infatti, dalla formulazione delle domande in fase di merito, sia Ferrario che le Galli si limitarono a chiedere gli interessi della domanda nella misura, dichiarata pattizia, del 10%, senz’altro specificare in ordine alla questione attualmente sollevata, la cui delibazione richiederebbe, peraltro, accertamenti di fatto incompatibili col procedimento di cassazione.
Il ricorso incidentale di Pasca resta assorbito nel rigetto del suo ricorso principale, di cui riproduce alla lettera i motivi.
Il terzo motivo del ricorso Galli – infine – con cui si denuncia la violazione dell’art. 91 c.p.c. e si deduce che l’entità delle spese poste a loro carico è “sperequata” e che nella sentenza non si coglie il criterio seguito per la liquidazione, va rigettato perché i giudici di merito non violarono il limite oltre il quale la pronuncia sulle spese è ricorribile, rappresentato dal divieto di porre anche in parte le spese a carico della parte totalmente vittoriosa e, quanto al criterio seguito, esso fu quello della soccombenza, e le Galli erano chiaramente soccombenti.
Sussistono giusti motivi per compensare integralmente le spese.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta; compensa integralmente le spese del presente procedimento.
Così deciso in Roma, 11 aprile 1985
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 11 GENNAIO 1986