Svolgimento del processo

Con ricorso depositato il 21.3.1981, la I.E.M.S.A. S.P.A. proponeva opposizione avverso la ingiunzione, emessa dal Pretore di Caserta, per il pagamento a favore dell’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro – I.N.A.I.L. – di L. 4.220.075 a titolo di contribuzione assicurativa, nella misura integrale anzichè in quella ridotta al 50%, sulla indennità fissa, corrisposta ai propri dipendenti trasferisti. A sostegno della proposta opposizione la società suddetta deduceva che per sopperire alle esigenze dell’attività sociale, consistente nella progettazione, costruzione e montaggio di grandi complessi industriali, che venivano eseguiti in tutto il territorio nazionale, inviava i lavoratori, assunti presso la sede di (OMISSIS), nei singoli cantieri, quando se ne presentava la necessità e per periodi limitati e mai, comunque, con carattere di definitività e di stabilità, e che essi in relazione a tale loro dislocazione temporanea erano costretti a sopportare spese di vitto e di alloggio, ulteriori rispetto a quelle sostenibili nel luogo di assunzione, residenza o dimora: la indennità, corrisposta ai lavoratori suddetti, aveva, pertanto, carattere restitutorio e come tale era assoggettabile alla contribuzione del 50%.

L’I.N.A.I.L., costituitosi in giudizio, individuando i caratteri differenziali tra trasferta e trasferimento nella provvisorietà ed occasionalità della prima rispetto alla definitività del secondo, rilevava che i trasferisti risultavano assunti in base ad un particolare contratto di lavoro in cui era pattuito che i lavoratori erano tenuti a svolgere le loro mansioni in modo continuativo e costante in località diverse da quella in cui si trova la sede della società, per modo che difettavano nella specie i requisiti della trasferta.

Con sentenza dell’1.2.1982 l’adito Pretore accoglieva la proposta opposizione.

Il Tribunale di S. Maria Capua Vetere con sentenza del 22.11.1982 accoglieva l’appello, proposto dall’I.N.A.I.L., dichiarando l’integrale assoggettamento a contribuzione assicurativa dell’indennità fissa corrisposta dalla I.E.M.S.A. ai propri dipendenti trasferisti.

Il Tribunale, richiamati i caratteri differenziali tra trasferta e trasferimento, elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema (Cass. n. 4697 del 1976 e 1716 del 1978), dava atto che la società I.E.M.S.A. dislocava i propri dipendenti trasferisti nei diversi cantieri di lavoro ubicati in tutto il territorio nazionale per la durata di mesi, spostava quindi i detti dipendenti da un cantiere ad un altro in relazione a sopravvenute esigenze di lavoro, concedendo per tale particolare tipo di attività una indennità non per rimborsare spese sostenute per conto del datore di lavoro, ma per alleviare il disagio dagli stessi incontrato sia per le spese di alloggio che per una maggiore spesa differenziata per il vitto; in tal modo, come poteva arguirsi dalla narrativa dell’opposizione e dalla memoria illustrativa dell’appellata, l’invio dei dipendenti in località sempre diverse rientrava nelle previsioni contrattuali. In base a tali premesse il Tribunale riteneva in sintesi che l’indennità in questione non avesse natura di rimborso di spese sostenute per conto della società, ma di retribuzione, atteso che essa, finalizzata a compensare il prestatore d’opera del tempo perduto ed a soddisfare le sue esigenze di vita nelle località in cui veniva di volta in volta inviato, non era strettamente collegata al valore economico del lavoro svolto, ma conteneva un quid pluris compensativo del disagio incontrato dal dipendente nell’eseguire la prestazione di lavoro in sede diversa da quella abituale, ove aveva sede la società.

Rilevava, poi, il Tribunale, in relazione a specifico mezzo di gravame, che nell’ordinario giudizio di cognizione, conseguente all’opposizione a decreto ingiuntivo, ciascuna delle parti conserva l’originaria posizione processuale con i connessi oneri di prova, per modo che restava a carico del creditore opposto (che conserva la veste di attore per avere richiesto l’ingiunzione) la prova dell’esistenza del credito, mentre restava a carico dell’opponente l’onere di dimostrare che la documentazione esibita dal ricorrente non era idonea a suffragare l’emissione del decreto. Il verbale di accertamento, seguito dai funzionari degli istituti previdenziali costituiva prova idonea all’emissione del decreto ingiuntivo, mentre l’opponente (la soc. I.E.M.S.A.) non aveva prodotto nella successiva fase di cognizione documentazione idonea a contrastarne le risultanze, basate sull’esame di tutta la situazione aziendale, limitandosi a richiedere una prova testimoniale, che riguardava soltanto in modo ridotto e marginale il nucleo centrale della controversia ed era per di più articolare in maniera tale da lasciare ai testi ampio margine di esprimere la loro opinione sulla natura dell’indennità corrisposta anzichè di riferire fatti storici.

Avverso la suddetta sentenza propone ricorso per cassazione la società I.E.M.S.A., formulando due motivi di annullamento.

L’I.N.A.I.L. resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno presentato memorie.

Motivi della decisione

Con il primo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione della L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 12 in relazione agli artt. 2094, 2099 e 2121 c.c. e degli artt. 1362 e ss. c.c. nonchè della L. n. 300 del 1970, art. 13 anche in relazione all’art. 27 del contratto collettivo per le aziende metalmeccaniche private nonchè dell’art. 2103 c.c. per avere erroneamente affermato la natura retributiva dell’indennità di trasferta. Omessa ed insufficiente motivazione e violazione e falsa applicazione degli artt. 1322, 1372 e 1362 e ss.

c.c. nonchè vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

Si deduce che: a) Premesso che il Tribunale ha erroneamente presupposto l’esistenza di un obbligo contrattuale a carico del lavoratore di prestare la propria opera in qualsiasi località egli dovesse essere inviato, un obbligo siffatto, quale espressione dei poteri conferiti all’imprenditori dalla L. n. 300 del 1970, art. 13 (nuovo testo dell’art. 2103 c.c.) doveva implicare l’esame circa la validità di tale patto, stante l’espressa previsione di nullità della deroga alla disciplina legale dei trasferimenti e delle trasferte; b) lo stesso Tribunale e caduto in contraddizione nel ritenere da un lato che l’invio temporaneo nei vari luoghi (non coincidenti con quelli della assunzione, della sede dell’impresa o di residenza) è in funzione dell’attività dell’imprenditore e connessa e dipendente dall’oggetto sociale e dalla struttura tecnico- organizzativa dell’azienda, mentre dall’altro ha dichiarato che la pretesa trasferta “costituisce una indennità riferita alle modalità della prestazione, come propria del lavoratore”. Se l’invio in trasferta è, poi, determinato da “esigenze di lavoro attinenti alla peculiare attività propria del datore di lavoro” è a questo che devono far carico le relative obbligazioni e quindi le spese fatte dal lavoratore, che pertanto costituiscono anticipazioni per conto del datore di lavoro; c) Dalla continuità degli spostamenti dei lavoratori da un luogo ad un altro il Tribunale ha desunto l’impossibilità del verificarsi della trasferta, mentre, identificata la caratteristica del trasferimento nel mutamento definitivo a priori del luogo di lavoro (come dato geografico) e quella della trasferta nel mutamento solo temporaneo dello stesso, la provvisorietà o definitività sussiste con riferimento ad un luogo “luogo determinato” e non certo a tutti i “luoghi possibili” per modo che, essendo pacifico che i lavoratori dipendenti dalla società I.E.M.S.A. si fermano in un cantiere per periodi assolutamente limitati, deve ritenersi incontroverso l’elemento della temporaneità rispetto ad ogni luogo di lavoro, idonea a concretare la trasferta.

Una conferma di tale assunto si sarebbe potuta trarre dall’art. 27 c.c.n.l. 1.5.1976 per i metalmeccanici dipendenti dall’industria privata, prevede espressamente la figura del lavoratore inviato in trasferta sia dalla sede che dallo stabilimento, dal laboratorio ed anche da un cantiere all’altro; d) E’ erroneo ritenere che per aversi trasferta sia indefettibile l’esistenza del luogo abituale e normale di lavoro, al quale si contrapponga il luogo provvisorio della trasferta: tale contrapposizione è superata dalla contrattazione collettiva in relazione alle peculiarità proprie delle aziende di montaggio; e) il Tribunale non ha seguito i criteri legali di distinzione della retribuzione dal rimborso di spese, dovendosi in proposito fari riferimento al luogo ove il lavoratore è costretto a rimanere per svolgere il suo lavoro in funzione delle esigenze aziendali dell’interesse del datore di lavoro nonchè alla funzione di accrescimento patrimoniale della retribuzione rispetto alla funzione riparatrice del rimborso di spese. La mera circostanza che l’indennità di trasferta venga versata in cifra forfetaria impone comunque, secondo la presunzione legale posta dal citato 12, che la quota di essa, fissata nel 50%, venga sottoposta a contribuzione a prescindere dall’esistenza o dalla reale percentuale della quota retributiva.

Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2721 e 2724 c.c. e vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5) e si sostiene che, se non può essere contestato il principio che i verbali ispettivi sono validi fino a querela di falso nel punto in cui indicano i fatti compiuti dal verbalizzante o da lui contestati, non è dubbio però che essi devono contenere l’indicazione di documenti, atti o accadimenti, mentre nella specie il verbale ispettivo esprime una valutazione con formula stereotipa, priva di obiettivo sostegno. Doveva pertanto far carico all’Istituto assicurativo la prova dei fatti, costituenti il fondamento della pretesa, e, se il Tribunale non avesse ritenuto dimostrato l’assunto della I.E.M.S.A. sulla non continuità dell’invio ed anche sul non invio in trasferta di una parte del personale dipendente, avrebbe dovuto ammettere la prova in argomento richiesta.

I due motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per le loro correlazioni logiche, sono fondati nei limiti delle seguenti considerazioni.

La questione, sottoposta all’esame delle Sezioni Unite, riguarda la natura, retributiva, o risarcitoria, dell’indennità, denominata di trasferta, corrisposta ai lavoratori, che prestano la loro opera fuori sede, ai limitati e specifici inerenti all’assoggettamento di essa alla contribuzione previdenziale a norma della L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 12; nella misura intera (100%) nel caso che se ne riconosca la natura totalmente retributiva ovvero dimezzata nel caso che se ne riconosca, invece, la natura risarcitoria, soccorrendo in tale ipotesi la presunzione legale posta dal comma 3, n. 1, norma cit., che assegna all’interno dell’indennità di trasferta corrisposta in cifra fissa una quota a retribuzione ed una quota a rimborso di spese.

La risoluzione dell’alternativa tra natura retributiva e natura restitutoria degli emolumenti, comunque denominati, corrisposti in misura fissa per lavori fuori sede, è stata costantemente rimessa da questa Corte Suprema all’accertamento del giudice di merito, il quale deve di volta in volta stabilire se le somme versate al lavoratore siano destinate, in tutto o in parte, a compensare il disagio prodotto dall’anormalità e particolarità del luogo della prestazione lavorativa oppure a rimborsarlo semplicemente delle sue maggiori spese (Cass. n. 1817 del 1968; n. 1455 del 1971; 2912 del 1982; 6144 del 1983; 43 del 1984).

La prevalenza attribuita al momento dell’accertamento della funzione concreta dell’emolumento da parte del giudice del merito ha determinato nelle numerose sentenze, pronunciate in argomento della Corte di Cassazione alcune differenze di impostazione. Possono così enuclearsi due orientamenti fondamentali: il primo, secondo cui è sufficiente il fatto oggettivo dello spostamento da un luogo ad un altro a determinare oneri aggiuntivi per il lavoratore, che per ciò stesso comporta nell’ambito dell’emolumento corrisposto in cifra fissa l’esigenza di isolare la quota, che non ha funzione retributiva, ma semplicemente restitutoria (Cass. 3^ pern. 10.3.1978 n. 2624; Cass. sez. lav. 8.3.1979 n. 4515; 8.7.1982 n. 4062); il secondo, che attribuisce, invece, rilevanza al regolamento contrattuale del rapporto di lavoro o al concreto svolgimento di questo, e precisa che in presenza di un patto di mobilità, che obbliga il lavoratore a mettersi in condizione di rendere la prestazione continuamente in luoghi sempre diversi, per lo più determinati dal tipo di attività, non può verificarsi alcuna trasferta, con la conseguenza che il compenso corrisposte in cifra fissa ha natura retributiva e non restitutoria (Cass. n. 2912 del 1982; n. 6697 del 1983; n. 4 e 1057 del 1984).

Al fine di pervenire ad unità concettuale in subiecta materia occorre determinare la nozione di retribuzione, considerata dal legislatore ai fini contributivi, e quella, correlativa e contrapposta, di rimborso di spese, e quindi, data la correlazione sussistente tra di esse, la nozione di trasferimento, a cui è normalmente collegata la retribuzione, e quella di trasferta, a cui è normalmente collegato il rimborso di spese.

Il T.U. delle norme sugli assegni familiari, approvato con D.P.R. 30 maggio 1955, n. 797, art. 27, disponeva che “agli effetti del calcolo del contributo per retribuzione s’intende tutto ciò che il lavoratore riceve, in denaro o in natura, direttamente dal datore di lavoro per compenso dell’opera prestata, al loro di qualsiasi ritenuta” e quindi elencava le voci che, nella determinazione della retribuzione e, dovevano essere aggiunte al salario o allo stipendio, tra le quali menzionava (comma 3, n. 5) la diaria e l’indennità di trasferta in cifra fissa, limitatamente al 40% del loro ammontare, esclusi i rimborsi a piè di lista “come ogni altro compenso o somma qualsiasi che abbia carattere di rimborso spese sostenute dal lavoratore per l’esecuzione o in occasione del lavoro”. Il T.U. delle disposizioni contro gli infortuni e le malattie professionali, approvato con D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 29, prevedeva che ai fini del calcolo dei premi e dei contributi e delle indennità per inabilità temporanea e puramente e per i casi mortali … “per retribuzione s’intende tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro in denaro o in natura in dipendenza del rapporto di lavoro anche nel periodo di ferie e in occasione di festività nazionale e infrasettimanali, al lordo di qualsiasi ritenuta”. La L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 12, ha così testualmente modificato entrambe le norme citate: “per la determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi di assistenza e di previdenza sociale si considera retribuzione tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro, in denaro o in natura, al loro di qualsiasi ritenuta, in dipendenza del rapporto di lavoro” e poi ha escluso con elencazione dichiarata espressamente tassativa (comma penultimo) le somme corrisposte al lavoratore a vari titoli, tra cui al comma 3, n. 1, a titolo “di diaria o di indennità di trasferta in cifra fissa, limitatamente al 50% del loro ammontare”. L’art. 12 ha così ampliato la nozione di retribuzione imponibile, data dalle norme sostitutive, da una parte determinandola in modo più rigido mediante la tassativa elencazione degli emolumenti esclusi e dall’altra eliminando dal novero di questi gli altri compensi o somme qualsiasi “aventi carattere di rimborso di spese sostenute dal lavoratore per l’esecuzione o in occasione di lavoro”: compensi e somme, che, per la genericità della loro indicazione, avevano dato luogo a notevoli dubbi interpretativi.

A norma delle esaminate disposizioni la retribuzione, considerata dal legislatore ai fini contributivi, non coincide con quella generalmente data ai fini della disciplina del rapporto di lavoro subordinato (art. 2099 c.c.).

Il legislatore, mediante il richiamo nella 1^ p. dell’art. 12 citato alla nozione codicistica della retribuzione, la cui determinazione rientra nella sfera di autonomia privata con il limite di ordine costituzionale previsto dall’art. 36 Cost., ha evidentemente presupposto l’avvenuta formazione della stessa, che nei contrasti collettivi e individuali assume una struttura composita in quanto normalmente costituita, in concreto, da un coacervo di emolumenti, variamente denominati ed ancorati ciascuno a specifici presupposti – qualifica, mansioni, anzianità, prestazione straordinaria, ternaria, fuori sede, notturna, indennità speciali, etc. – valorizzato dalle leggi e dalla contrattazione collettiva per adeguare nel modo migliore, in aderenza al precetto costituzionale la remunerazione alle peculiari situazioni personali ed ambientali in cui viene eseguita la prestazione lavorativa.

Ma, in sede previdenziale, in cui si tratta di raggiungere la finalità di assicurare agli enti del settore, nella maniera più semplice e più spedita, la provvista occorrente all’assolvimento dei loro scopi istituzionali, il legislatore ha seguito i criteri fiscali della predeterminazione delle regole di individuazione della base imponibile e della sottrazione di questa, una volta che sia stata formata, alla disponibilità delle parti: queste, in buona sostanza, possono stabilire il trattamento economico spettante al lavoratore e quindi il presupposto, da cui deriva la formazione della base assoggettata a contribuzione, la quale dipende poi dal valore che la legge, con propria valutazione, attribuisce ai singoli elementi.

In tale valutazione della retribuzione, considerata ai fini contributivi (il cpv. dell’art. 12 usa l’espressione “si considera retribuzione), il legislatore con la locuzione “tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro in dipendenza del rapporto di lavoro”ha adottato il principio di causalità, ampliando sostanzialmente il normale concetto di retribuzione, dato ai fini della disciplina del rapporto di lavoro subordinato, talchè è stato ritenuto da questa Corte Suprema che il concetto di retribuzione imponibile, di cui al citato art. 12, supera il principio di mera corrispettività, perchè comprende non soltanto gli emolumenti corrisposti in funzione dell’esercizio di attività lavorativa, ma anche gli importi, che, pur senza trovare riscontro in una precisa ed eseguita prestazione lavorativa, costituiscono adempimenti di obbligazioni pecuniarie imposte al datore di lavoro da leggi e da convenzioni nel corso del rapporto di lavoro ed aventi titolo ed origine dal contratto di lavoro, restando esclude le erogazioni derivanti da causa autonoma (tra le altre Cass. 14.11.1983 n. 675).

Nel contempo il legislatore ha indicato, con elencazioni a cui ha espressamente attribuito carattere tassativo (art. 12, comma 3) le ipotesi eccettuative, per modo che al di fuori di esse non ne sono ammesse altre: nelle ipotesi eccettuative sono state specificamente comprese le indennità di trasferta in cifra fissa limitatamente al 50%. Ne risulta un sistema di chiusura, che mentre consente al giudice del merito di verificare se gli emolumenti, previsti dalla contrattazione collettiva e individuale, rientrano nel concetto di retribuzione previdenziale, come voluto dal legislatore, impedisce alle parti, collettive e individuali, di attribuire direttamente ad un emolumento natura difforme da quella conferita ex lege mediante previsioni o denominazioni, mistificatorie, essendo riservata al giudice la facoltà di utilizzare la regola patrizia contrattuale, concreta funzione svolta dall’emolumento pattuito. Data la necessaria opera di mediazione interpretativa del giudice, dev’essere esclusa, sotto questo profilo, l’opponibilità agli enti previdenziali e assicurativi della disciplina collettiva o individuale. Si può aggiungere, per un ulteriore contributo chiarificativo, che se, in assenza di un principio di onnicomprensività, che abbia valore di regola generale dell’ordinamento positivo, rimane affidata all’autonomia collettiva, e, nell’ambito di questa, all’autonomia individuale – anche attraverso la previsione delle singole componenti, delle modalità e dei termini dell’erogazione – la determinazione della retribuzione da considerare nel computo degli istituti legali e contrattuali, fino a quando non ne derivi la violazione dei criteri fondamentali, enunciati dall’art. 36 Cost. o in altre norme legislative (Cass. S.U. 13.2.1984 n. 1074, 1075, 1080, 1081 4.2.1984 n. 2182 e 2183), non può altrettanto ritenersi per quanto riguarda la retribuzione previdenziale, che, per essere determinata ex lege, tranne eccezioni tassative, non lascia adito all’autonomia collettiva, o individuale di escludere o comprendere in essa voci generalmente comprese o tassativamente escluse, una volta che essa abbia formato la retribuzione nella specifica disciplina del rapporto di lavoro subordinato, che costituisce poi il presupposto della base imponibile.

Il rimborso di spese viene “a contrario” qualificato come una erogazione, che trova fondamento in una causa autonoma rispetto a quella della retribuzione. Anche se occasionato dal rapporto di lavoro il rimborso di spese non rientra infatti nella causa tipica e normale di esso, costituendo non già un incremento patrimoniale dipendente dalla prestazione lavorativa, bensì una reintegrazione di una diminuzione patrimoniale, che il lavoratore sopporta nell’esclusivo interesse del datore di lavoro, tenuto perciò a riparare la lesione subita.

In tal modo il rimborso di spese, a differenza della retribuzione, ha come fine unico ed essenziale l’eliminazione di un danno, derivante da un esborso, effettuato dal lavoratore nell’interesse del datore di lavoro in occasione di esigenze aziendali straordinarie e spesso imprevedibili.

Sussiste una indubbia correlazione tra la retribuzione ed il trasferimento da una parte e tra il rimborso di spese e la trasferta dalla altra, avendo la giurisprudenza di questa Corte Suprema costantemente collegato la retribuzione alla prestazione lavorativa, eseguita dal dipendente nella sede dell’azienda o di un suo stabilimento, cui egli sia abitualmente destinato, ed il rimborso di spese agli esborsi sopportati dal lavoratore fuori di tali luoghi.

E’ però preliminare la determinazione del luogo della prestazione lavorativa, che, costituendo un comune presupposto, è utile alla distinzione concettuale del trasferimento e della trasferta.

Il luogo della prestazione lavorativa, come in genere il luogo di adempimento dell’obbligazione, costituisce una modalità determinata o determinabile di un elemento contrattuale a norma dell’art. 1182 c.c., comma 1, il quale prevede che la prestazione dev’essere eseguita nel luogo determinato dalla convenzione e dagli usi o in quello che può desumersi dalla natura della prestazione o da altre circostanze.

Nell’ipotesi di accordo delle parti, sia esso inizialmente espresso nell’atto costitutivo del rapporto o comunque tacitamente assunto, inizialmente o anche nel corso del rapporto stesso, la reale intenzione delle parti relativamente alla indicazione del luogo della prestazione lavorativa dev’essere ricostruita dal giudice del merito, al di là di quanto esse abbiano apparentemente disposto, secondo le regole di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., tra cui può assumere preminente rilievo il comportamento complessivo delle parti stesse anche posteriore alla stipulazione del contratto.

Nella ipotesi di supplenza dell’accordo mancante può assumere rilevanza il tipo di lavoro affidato al dipendente oltre che l’organizzazione aziendale (come avviene nei casi di imprese funzionati in luoghi sempre diversi con squadre specializzate): in tale ambito possono essere considerati i dati normativi, indubbiamente esigui ma certi, desumibili dall’art. 2094 c.c. e dalla L. n. 300 del 1970, art. 13, il primo dei quali indica l’impresa in senso oggettivo come complesso aziendale, in cui si svolge la produzione (luogo della produzione), ed il secondo dà rilievo all’unità produttiva, tutelando lo spostamento da una unità produttiva all’altra nell’ipotesi in cui sussistano dimensioni aziendali frazionabili in unità produttive (luogo in cui opera l’unità produttiva).

Ciò posto, se il trasferimento, e la trasferta presuppongono la determinazione di un luogo fisso, come sopra determinato, dal quale si avvia il lavoratore in altro luogo, divergono però per specifici caratteri inerenti alla loro origine e alla loro funzione. Secondo la prassi collettiva e la citata norma della L. n. 300 del 1970, art. 13 il trasferimento è costituito dal mutamento definitivo di tale luogo per effetto dell’esercizio del potere dell’imprenditore di richiedere la normale prestazione di lavoro in luogo diverso da quello convenuto con il limite delle “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”, per modo che mediante esso si attua un dislocamento senza previsioni di durata, che, comportando una rilevante modifica di un elemento contrattuale, richiede una congrua tutela del lavoratore.

La trasferta non implica, invece, uno spostamento definitivo dallo stesso luogo, ma provvisorie e temporaneo, per il sopravvenire di esigenze di servizio di carattere transitorio e contingente, non previste per lo più al momento dell’assunzione, che rendono necessario, per effetto dell’esercizio del potere unilaterale di direzione aziendale attribuito all’imprenditore (art. 2094 c.c.), il dislocamento nella località in cui sono sorte le esigenze stesse e fintanto che queste siano soddisfatte: in tal modo è connaturale alla trasferta la normale predeterminazione dei limiti temporali della dislocazione o in modo assoluto o con riferimento alla particolare attività per la quel la dislocazione stessa viene attuata. Gli attributi di definitività e di provvisorietà dello spostamento del dipendente, che caratterizzano rispettivamente il trasferimento e la trasferta, devono essere peraltro intesi in senso relativo, nel senso cioè che, sebbene determinati “a priori”, avendo riguardo al momento in cui è stata la volontà di destinare il dipendente ad altra sede, non può escludersi tuttavia che tale volontà possa essere individuata in base alle successive vicende del contratto (Cass. 27.11.1979 n. 6213) e nell’ulteriore senso che debbono, nei casi dubbi, intendersi riferiti ad un periodo di durata tale da imporre o non al dipendente la riorganizzazione della sua vita familiare e sociale.

Nella distinzione tra trasferimento e trasferta viene pertanto ad aggiungersi all’elemento spaziale quello temporale, così inteso, con la conseguenza che se difetta una delle due coordinate, spaziale e temporale, non è ipotizzabile nè il trasferimento, nè la trasferta, come avviene se il tipo di lavoro o l’organizzazione aziendale dimostrino l’inesistenza di una predeterminazione del luogo della prestazione e la disponibilità del dipendente a recarsi ogni giorno là dove viene richiesta la sua opera.

La normalità del collegamento tra trasferimento e retribuzione origina dalla considerazione che, essendo il luogo della prestazione lavorativa una modalità della prestazione, le spese sostenute nel luogo contrattualmente stabilito dalle parti fin dal momento iniziale del rapporto oppure nel corso di esso mediante una dislocazione definitiva in altro luogo per adempiere la prestazione lavorativa, sono a carico del debitore, presumendosi che esse siano state calcolate, talchè in presenza di un trasferimento l’eventuale emolumento aggiuntivo, pur se temporaneo, non rientra nella indennità di trasferta (indennità di prima sistemazione).

La normalità del collegamento tra questa ed il rimborso di spese, che il lavoratore sopporta nell’interesse del datore di lavoro, tenuto al rimborso di spese, che il lavoratore sopporta nell’interesse del datore di lavoro, tenuto al rimborso, è espressamente esclusa nella nozione di retribuzione imponibile per quanto riguarda l’indennità corrisposta in cifra fissa in occasione di trasferta in base all’adozione da parte del legislatore di un criterio presuntivo (L. n. 153 del 1969, art. 12), per effetto del quale una parte di essa è considerata elemento integrante della retribuzione ed un’altra parte (50%) come rimborso di spese a carattere restitutorio. La presunzione legale, introdotta al fine di superare la difficoltà di interpretare la volontà delle parti in presenza di una erogazione unitaria e indifferenziata opera però per quanto riguarda la misura quantitativa, da fissare all’interno di essa, una volta che ne sia accertata la natura, ma non implica che per volontà del legislatore debba necessariamente ritenersi come indennità di trasferta ogni somma corrisposta al lavoratore con la suddetta modalità in occasione di trasferta, per modo che rimane pur sempre necessario il preventivo accertamento del giudice del merito circa la reale natura, retributiva o restitutoria, dell’emolumento (Cass. n. 1455 del 1971; n. 5963 del 1981).

Posti i suddetti criteri distintivi il problema relativo ai cosiddetti “trasferisti” e cioè ai lavoratori, che solitamente prestano la loro attività con continuità fuori sede, che può coincidere con quella dell’azienda o di una sua unità produttiva, dev’essere inquadrato tra le due coordinate spaziali e temporali, che caratterizzano il trasferimento e la trasferta. Se pertanto, si tratta di un rapporto, che per il suo particolare oggetto richiede al dipendente di operare normalmente all’esterno (come il piazzista e il propagandista medico: Cass. n. 1342 del 1997 e n. 1156 del 1969) ovvero richiede l’assolvimento dell’obbligo contrattuale di spostarsi continuamente in cantieri ubicati in località diverse, determinabili sulla base delle opere da eseguire (Cass. n. 2248 del 1977; n. 1716 del 1978; n. 2912 del 1982; n. 43 del 1984) vengono meno entrambe le coordinate e quindi non può verificarsi nè l’ipotesi del trasferimento nè quella della trasferta, con la conseguenza che l’emolumento è correlato nella sua totalità alla causa tipica e normale del rapporto di lavoro in quanto diretto a compensare il lavoratore dei disagi e delle spese, che egli è tenuto a sopportare in adempimento del suo obbligo contrattuale, e quindi assume indubbio carattere retributivo: in tali casi l’oggetto della prestazione lavorativa comprende in buona sostanza il carattere dell’ambulatorietà, il cui onere rimane a carico del lavoratore. Se, invece, si tratta di un rapporto, che richiede l’assegnazione e la permanenza di un lavoratore in una sede determinata, che può essere la sede dell’azienda o di una unità produttiva in cui essa è articolata, con previsione contrattuale della retribuzione per l’attività prestata in quella sede, l’invio, anche frequente, del lavoratore stesso in luoghi diversi per assolvere a temporanee e contingenti esigenze imprenditoriali concreta entrambi i requisiti di tempo e di luogo, che sono presupposti della trasferta. In tali casi la frequenza della trasferta è irrilevante, perchè il rapporto di lavoro rimane identico in tutti i suoi connotati essenziali sia che il lavoratore rimanga nel luogo di lavoro predeterminato, anche eventualmente inattivo a disposizione del datore di lavoro, sia che si rechi, anche per una certa durata, in una pluralità continuativa di luoghi diversi dalla sede assegnatagli. La conseguenza, che ne deriva, è che il di più corrisposto al lavoratore oltre la retribuzione assume indubbio carattere restitutorio, in quanto ha il fine unico ed essenziale di ristorarlo delle maggiori spese a qualsiasi titolo sostenute nell’interesse del datore di lavoro, al di fuori della causa tipica e normale del rapporto di lavoro.

L’esigenza che per dar luogo alla trasferta sussistano entrambe le coordinate, di spazio e di tempo, con la predeterminazione di un punto fisso di riferimento, costituito dal luogo della prestazione lavorativa, come contrattualmente o legislativamente predeterminato, rende impossibile il verificarsi di essa nell’ipotesi prospettata, in cui i lavoratori si fermano in una cantiere per periodi limitati per passare poi ad altro cantiere giacchè in tal caso, pur sussistendo la coordinata temporale, difetta quella spaziale. Rimane tuttavia da verificare, anche alla stregua della contrattazione collettiva (e in ciò potrebbe cogliersi l’omissione di fatti decisivi, denunciata con il primo motivo) se in tale ipotesi possa essere effettivamente determinato il luogo della prestazione lavorativa con riferimento ad un singolo cantiere, che assuma per la sua stabilità le caratteristiche di una unità produttiva nell’organizzazione aziendale.

E’ opportuno precisare che la tutela, prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 13 si riferisce esclusivamente al trasferimento, che comporta un mutamento definitivo di un elemento contrattuale, ma non alla trasferta, che costituisce invece un mutamento provvisorio delle modalità contrattuali, e pertanto, non è conferente la censura relativa all’omesso esame di nullità del preteso patto derogativi all’iniziale obbligo imposto al lavoratore di prestare la propria opera in qualsiasi località egli dovesse essere inviato.

Date le suddette premesse, il giudice del merito, al fine di stabilire il carattere, retributivo e risarcitorio, dell’indennità corrisposta ai lavoratori, che svolgono la loro attività fuori sede, potrà trarre utili elementi anche dalle modalità della relativa pattuizione. Se, infatti, l’indennità sia pattiziamente riferita soltanto alla prestazione lavorativa, eseguita fuori della sede dell’azienda o di una sua unità produttiva, con esclusione della prestazione lavorativa in sede, essa potrà assumere carattere risarcitorio, tenuto conto che in tal caso non può ritenersi sussistente un obbligo prestabilito di corrispondere l’indennità stessa, la cui misura può variare secondo l’andamento dell’attività produttiva ed anche ridursi o venir meno per determinati periodi. Per la stessa ragione può assumere rilievo la pattuita esclusione della stessa indennità per i giorni di mancata prestazione lavorativa e, in generale, per i giorni in cui, con il rientro del lavoratore in sede, sia prevista la sospensione di essa in connessione con la disponibilità del lavoratore medesimo nel luogo di assegnazione definitiva. Può anche avere rilevanza quando dedotto nel secondo motivo di censura, come omissione di punto decisivo, e cioè che il personale era inviato nei diversi cantieri non in modo continuo e soltanto per una parte, restando da accertare il trattamento allo stesso riservato nei periodi di permanenza in sede: nei limiti di tale verifica tale secondo motivo può trovare accoglimento, riguardando per il resto la inammissibile rivalutazione di fatti riferiti dal verbalizzante.

Per quanto riguarda il valore probatorio dei verbali redatti dai funzionari degli enti di previdenza e di assistenza (o dai funzionari dell’Ispettorato del lavoro) in tema di omesso o irregolare versamento dei contributi non può che richiamarsi la costante giurisprudenza di questa Corte Suprema, secondo cui i suddetti verbali fanno fede, fino a querela di falso della provenienza dal pubblico ufficiale che li ha firmati e degli altri fatti che egli attesta essere avvenuti in sua presenza o essere stati da lui compiuti mentre, per quanto riguarda le altre circostanze di fatto che il verbalizzante segnali di aver accertato nel corso dell’inchiesta per averli appresi da terzi od in seguito ad altre indagini, i verbali stessi, per la garanzia connessa alla natura pubblica dell’organo da cui provengono, possiedono un grado di attendibilità che non può essere infirmato se non da una specifica prova contraria, e, se questa non venga offerta o non sia raggiunta, possono costituire da soli prova sufficiente di tutte le circostanze riferite dal pubblico ufficiale che li ha compilati.

La sentenza impugnata dal presupposto di fatto che la società I.E.M.S.A. dislocava i propri dipendenti nei diversi cantieri di lavoro aperti in tutto il territorio nazionale e li spostava quindi da un cantiere ad un altro in relazione a sopravvenute esigenze di servizio ha tratto la conclusione che l’invio del personale in località sempre diverse rientrasse nella previsione contrattuale, e, quindi, nell’impossibile verificarsi della trasferta, attribuiva natura esclusivamente retributiva all’indennità corrisposta. In tal modo però il Tribunale ha inquadrato la fattispecie nell’ipotesi normale, in cui la previsione contrattuale esclude almeno uno degli elementi della trasferta senza preventivamente accertare se, alla stregua dei principi enunciati, si fosse verificata una ipotesi di compatibilità tra di essa ed il lavoro itinerante o ambulatoriale in relazione all’eventuale predeterminazione di un luogo della prestazione lavorativa, valutando sia la norma collettiva (art. 27 del contratto collettivo) sia la concreta attuazione di essa sia le effettive modalità di svolgimento del rapporto.

Il ricorso, dev’essere pertanto accolto per le prevalenti ragioni considerate e la sentenza impugnata dev’essere cassata con rinvio ad altro giudice, il quale si atterrà al seguente principio: “Poste le nozioni di retribuzione previdenziale, desunta dalla L. n. 153 del 1969, art. 12, e quella correlativa e contrapposta di rimborso di spese, il giudice del merito deve coordinarle con quelle di trasferimento e di trasferta, e, nell’ambito di tale necessaria coordinazione, deve, ai fini contributivi, stabilire l’effettiva natura, retributiva o restitutoria, dell’indennità di trasferta corrisposta in cifra fissa ai lavoratori, che prestano solitamente la loro opera fuori della sede dell’azienda o di una sua unità produttiva, non soltanto mediante l’interpretazione del contratto, collettivo o individuale, ma anche alla stregua delle concrete vicende contrattuali, considerando nelle loro integrazioni tutti gli elementi ritenuti utili, inerenti all’oggetto del contratto e alle modalità della prestazione lavorativa con specifico riferimento alla predeterminazione o meno di un luogo fisso in cui questa dev’essere eseguita”. Quale giudice del rinvio si designa il Tribunale di Benevento, al quale può essere demandato anche il regolamento delle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte, a Sezioni Unite, accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese del giudizio di cassazione al Tribunale di Benevento.
Così deciso in Roma, il 22 novembre 1984.
Depositato in Cancelleria il 3 giugno 1985