Svolgimento del processo

Con sentenza in data 10-26 marzo 1981 provvisoriamente esecutiva a norma dell’art. 18 L. 20.5.1970 n. 300 il Pretore di Arezzo in accoglimento della domanda proposta da Marino Baldini annullava, come illegittimo, con le conseguenziali pronunce, il licenziamento che per gravi inadempienze gli era stato intimato con lettera 11.8.1980 dalla Banca Popolare dell’Etruria. Con sentenza 29.11.1981-11.2.1982 impugnata per cassazione dal Baldini il Tribunale di Arezzo, in accoglimento dell’appello interposto dalla Banca Popolare dell’Etruria, dichiarava legittimo il licenziamento, con le conseguenziali pronunce, fra cui la condanna del Baldini a restituire tutte le somme percepite in forza della impugnata sentenza, contestualmente dichiarando compensate nella misura di L. 5.485.000 le competenze maturate dal Baldini in dipendenza del pregresso rapporto.

A seguito della intervenuta riforma della sentenza del Pretore ed in pendenza di ricorso per cassazione proposto dal Baldini, la Banca Popolare dell’Etruria cessava di corrispondere allo stesso Baldini la retribuzione che fini ad allora gli era stata versata senza reintegrazione nel posto di lavoro.

Con due successivi decreti provvisoriamente esecutivi il Pretore di Arezzo ingiungeva alla Banca Popolare dell’Etruria di pagare al ricorrente Baldini con rivalutazione monetaria ed interessi, la retribuzione afferente al periodo novembre 1981-giugno 1982 (posteriore alla sentenza di riforma) e che riteneva dovuta in forza della sentenza di reintegrazione.

Riuniti i due giudizi di opposizione promossi dalla B.P.E., il Pretore con sentenza 10.9-5.10.1982 rigettava l’opposizione in entrambi, richiamandosi ai principi affermati dalla sentenza n. 1669-1982 delle Sezioni Unite civili di questa Corte, in tema di ultra-attività dell’esecuzione della sentenza riformata con sentenza non passata in giudicato, ex art. 336 cpv. C.P.C..

Il Tribunale di Arezzo, in accoglimento dell’appello proposto dalla B.P.E., con sentenza 12.2-23.4.1983 revocava i due decreti ingiuntivi e condannava Marino Baldini a restituire, con gli interessi le somme riscosse in forza degli stessi.

Dissentendo dall’indirizzo interpretativo di questa S.C., consolidatosi a seguito della citata sentenza delle S.U., e conformi decisioni successive, il giudice d’appello osservava fra l’altro:

A) La tesi secondo cui la riforma non passata in giudicato della sentenza di reintegrazione ex art. 18 citato non era d’ostacolo alla prosecuzione dell’esecuzione, spontanea e coatta della stessa sentenza, iniziata anteriormente alla riforma, sul piano processuale e sostanziale, portava, in pratica, ad una inammissibile equiparazione fra la sentenza di conferma della decisione di I° grado che ordini la reintegrazione e la sentenza di riforma che dichiari legittimo il licenziamento, in entrambi i casi restando fermi sia gli effetti della reintegrazione “di fatto” sia gli effetti ormai irreversibili della sola retribuzione (del lavoratore) non accompagnata da riammissione al lavoro.

Tale risultato non era infatti aderente al sistema processuale che si ispira al principio di retroattività degli effetti anticipati del giudicato e che, lungi dal ritenere “ancora dubbia l’ingiustizia della sentenza di I° grado riformata”, fra l’altro, considera la sentenza di riforma da parte del giudice superiore, tanto più affidabile o più stabile dell’altra, da riconoscerle una immediata “vis executiva” prevalente sulla sua eventuale impugnazione. (art. 337 comma I° C.P.C.).

L’effetto sostitutivo, pur riconosciuto dalle S.U. alla sentenza d’appello, come conforme al disposto dell’art. 336 comma I° del C.P.C. (“La riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata”) risultava, peraltro contraddetto, con insanabile antitesi logico-giuridica, dalla successiva affermazione che restavano stabili fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma gli effetti della sentenza di I° grado provvisoriamente esecutiva, e ciò perché, secondo il Tribunale, non poteva essere conservata una situazione che era stata ritenuta antigiuridica dalla sentenza di riforma.

L’ordine di reintegrazione era provvedimento estraneo alla fattispecie costitutiva o ricostitutiva del rapporto di lavoro, e nemmeno sulla base della sola prestazione di fatto eventualmente eseguita era possibile configurare la ricostituzione del rapporto giuridico in applicazione analogica della norma dell’art. 2126 C.C. La restaurazione della “effettività del rapporto” quale asserita conseguenza della esecuzione spontanea o coatta dell’ordine di reintegrazione ovvero del solo pagamento della retribuzione, non aveva, cioé, alcuna efficacia sulla restaurazione del contenuto sostanziale tipico del rapporto di lavoro, costituendo essa un mero effetto della sentenza di reintegrazione, esclusivamente collegato a tale pronuncia e perciò destinato a cessare anche esso con la riforma.

La contestata interpretazione tradiva lo innegabile equivoco di fondo costituito dall’aver confuso l’effetto proprio ed esclusivo (art. 2908 C.C.) della sentenza riformata, cioé la ricostituzione del rapporto di lavoro, con l’effetto di un atto “dipendente” dalla sentenza riformata (la reintegrazione nel posto), facendone, perciò derivare non tanto la sopravvivenza, alla riforma, di tale atto “dipendente” (in pretesa applicazione dell’art. 336 2° co. C.P.C.) quanto, piuttosto, la sopravvivenza della stessa sentenza riformata, in violazione dello stesso art. 336, comma I°).

L’immediata efficacia della sentenza di riforma comportava invece la eliminazione altrettanto immediata, del rapporto sostanziale accertato con la sentenza riformata, autorizzando le parti ad adeguare il loro comportamento alla nuova regolamentazione data dal giudice d’appello.

C) Conseguentemente il datore non era più tenuto ad adempiere le obbligazioni nascenti dal rapporto sostanziale, ricostituito dalla sentenza riformata né gli si poteva chiedere in giudizio il pagamento della retribuzione posteriore alla sentenza di riforma, tanto meno con la procedura ingiunzionale esperita nella specie, essendo stato rimosso anche l’accertamento che il credito per retribuzioni era fondato su prova scritta.

Come era stato affermato dalla S.U, la sentenza di I° grado “per effetto della riforma perde subito ogni efficacia, tanto di accertamento quanto esecutiva, venendo meno anche al sua idoneità a fungere da titolo esecutivo, nelle ipotesi in cui sia provvisoriamente eseguibile “ope iudicis” o “ope legis” cosicché, caducatasi la sentenza di I° grado, sopravvive soltanto “il rapporto di lavoro restaurato” che continua ad essere “regolato dalla disciplina sua propria” e che si trasforma in rapporto di mero fatto “ex tunc” solo con il passaggio in giudicato della sentenza di riforma.

A prescindere dalla non accettabilità di tale conclusione, osservava il Tribunale, l’asserita sopravvivenza del rapporto non poteva dare fondamento giuridico al ricorso alla procedura ingiunzionale.

D) Il Baldini non era comunque in possesso di alcuno dei titoli che giustificano l’esecuzione provvisoria del decreto ex art. 642 C.P.C., poiché l’unico titolo “equiparabile” ad essi era costituito dalla condanna al pagamento della retribuzione, contenuta nella sentenza di reintegrazione ex art. 18 legge 20.5.1970 n. 300, sentenza che, secondo quanto affermato dalla S.U., aveva “perso la sua idoneità a fungere da titolo esecutivo”.

Contro tale decisione Marino Baldini ha proposto ricorso per cassazione notificato l’11 novembre 1983 e depositato il giorno 19 stesso mese, ricorso cui l’intimata resiste con controricorso, illustrato con successiva memoria, allegando, inoltre, copia della sentenza in data 26.7.1983 n. 5144, di questa S.C., che rigettato il motivo di ricorso in punto di legittimità del licenziamento cassava con rinvio, il capo della sentenza del Tribunale d’Arezzo con cui Marino Baldini era stato condannato a restituire alla B.P.E. le somme ricevute in forza della sentenza del Pretore.

La causa, discussa all’udienza del 10 aprile 1986, è stata decisa in data 14 giugno 1986.

Motivi della decisione

A) Con un unico motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 336 e 337, 431 e 642 del C.P.C., 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 in relazione all’art. 360 comma I° n. 3 del C.P.C., censurando, in particolare, la sentenza impugnata per avere ritenuto con riferimento al caso di specie, che a seguito della riforma in appello della sentenza pretorile dichiarativa della illegittimità del licenziamento, il datore di lavoro non sia più tenuto al pagamento della retribuzione da lui ripreso in parziale esecuzione della pronuncia di I° grado ed abbia diritto a ripetere quanto versato al lavoratore, e ciò sull’erroneo rilievo che la sentenza di riforma si sostituisce, con effetti immediati all’accertamento della sentenza riformata.

Tale pronuncia del giudice d’appello che, nel caso di specie, aveva avuta come conseguenza la revoca dei due decreti pretorili con cui si ingiungeva alla Banca Popolare dell’Etruria di pagare al ricorrente la retribuzione afferente al periodo novembre 1981-giugno 1982 (posteriore alla sentenza di riforma) si poneva in contrasto con l’ormai consolidato indirizzo interpretativo di questa S.C. secondo cui: 1) se la reintegrazione nel posto di lavoro ordinata dal Pretore che accerta la illegittimità del licenziamento non sia spontaneamente eseguita dal datore di lavoro condannato, si rende operante nei suoi confronti l’obbligo retributivo previsto dall’art. 18 comma II° legge 20 maggio 1970 n. 300, obbligo che, rappresentando un modo per ripristinare, almeno in parte, l’effettività del rapporto de iure ricostituito dalla sentenza di reintegrazione sopravvive fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma;

2) l’obbligo retributivo sorge “ex lege” quale effetto permanente prodotto dalla inosservanza dell’ordine di reintegrazione, cosicché, l’adempimento spontaneo o l’attuazione coatta dello stesso obbligo deve proseguire dopo la riforma, essendosi in presenza di un effetto dipendente dalla pronuncia riformata, che resta stabile fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma (art. 336 comma II° C.P.C.); 3) il lavoratore che ha diritto alla retribuzione fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma, non è tenuto a restituirla neppure nel caso in cui, per effetto di essa, risulti definitivamente accertata la legittimità del licenziamento. (S.U. 1982 n.ri 1669, 2972, 2873 e 2874 e successive sentenze della Sezione Lavoro di questa Corte). Il ricorso ‘ infondato, sembrando invece meritevoli di essere condivise le argomentazioni della sentenza impugnata e della difesa della controricorrente; argomentazioni che vengono di seguito, necessariamente sviluppate e approfondite.

B) La presente causa, osserva preliminarmente la Corte, pur nella sua formale autonomia costituisce in sostanza una derivazione di quella definita con sentenza 10-26 marzo 1981 del Pretore di Arezzo che dichiarava illegittimo il licenziamento intimato al ricorrente ed ordinava alla datrice di lavoro B.P.E. di reintegrarlo nel posto di lavoro, sentenza poi totalmente riformata dal Tribunale di Arezzo e, sul punto, passata in giudicato nelle more del presente giudizio, con il rigetto del ricorso da parte di questa Corte (Sent. 26.7.1983 n. 5144).

Pendendo il giudizio di cassazione l’attuale ricorrente ha, infatti, ottenuto, in forza di due decreti ingiuntivi del Pretore di Arezzo, il pagamento, anche per il periodo successivo alla suddetta sentenza di riforma, della retribuzione che il datore di lavoro gli aveva già corrisposta, pur non ottemperando all’ordine di reintegrazione.

Il giudice d’appello, con la impugnata sentenza, ha invece dichiarato non dovuto e perciò ripetibile quanto ricevuto dal ricorrente dopo la sentenza di riforma da cui era stata la legittimità del licenziamento.

Il particolare quesito, cui tale sentenza risponde negativamente e che questa S.C. ritiene di dover risolvere negli stessi termini, consiste nello stabilire se il lavoratore al quale il datore di lavoro, pur non ottemperando all’ordine giudiziale di reintegrazione immediatamente esecutivo (art. 18 legge 20 maggio 1970 n. 300) ha corrisposta la retribuzione soltanto fino alla pubblicazione della sentenza di riforma, abbia diritto alla retribuzione fino al passaggio in giudicato di questa ed a trattenere quanto “medio tempore” percepito.

La questione s’inquadra, peraltro, nel più ampio problema se gli effetti sostanziali degli atti compiuti in esecuzione, volontaria o coattiva, della sentenza di reintegrazione nel posto di lavoro, quali “atti dipendenti dalla sentenza riformata” in appello sopravvivano alla sentenza riformata, fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma.

Si devono perciò definire, in linea interpretativa e sistematica, i limiti di compatibilità che l’ordinamento positivo stabilisce nel rapporto fra l’effetto sostitutivo immediato proprio della sentenza di riforma, regolato dal primo comma dell’art. 336 C.P.C. (“la riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata”) e la stabilità che, fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma, è riconosciuta agli atti e provvedimenti dipendenti dalla sentenza riformata (tipicamente, gli atti d’esecuzione o di attuazione), effetto, questo, regolato dallo stesso art. 336 al 2° comma (“La riforma con sentenza passata in giudicato o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata”).

La tematica degli effetti prodotti dalla esecuzione dell’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro è, peraltro, estranea a quella, qui in esame, degli effetti che produce l’esecuzione dell’obbligo di corrispondere la retribuzione al lavoratore non riammesso al lavoro (art. 18 comma 2) e sarà affrontata soltanto laddove si presentino aspetti comuni e nei limiti di questi.

C) Ciò premesso e rilevato, ritiene la Corte che il ricorso sia privo di fondamento, non ravvisandosi nella impugnata sentenza la denunciante violazione di legge.

Con sostanziale aderenza alle norme ed ai principi che regolano gli effetti degli atti compiuti anteriormente alla riforma, in esecuzione od attuazione della sentenza che ordina la reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18 citato, l’impugnata sentenza, invero, afferma che, a seguito della riforma in appello di tale pronuncia, cui il datore di lavoro non abbia ottemperato, preferendo erogare la retribuzione senza il corrispettivo dovutogli, il lavoratore nel periodo successivo alla pubblicazione della sentenza di riforma e fino al passaggio in giudicato di questa non ha più condannato a restituire le somme percepite in ottemperanza alla decisione riformata.

Condividendo tale assunto questa Corte per la prima volta ritiene di discostarsi radicalmente dall’indirizzo interpretativo consolidatosi con le sentenze 15.3.1982 n. 1669, 10.5.1982 n. 2872, 2873 e 2974 delle Sezioni Unite e successive conformi della Sezione Lavoro, per riassumere, con alcune varianti marginali, il contrario orientamento espresso dalle precedenti sentenze 8.4.1976 n. 1322 e 1233; 14.8.1976 m. 3455.

A questo proposito ritienesi opportuno rilevare che non costituiscono precedenti da cui poter trarre utili elementi a confronto della presente decisione (i cui limiti sono stati già definiti) le seguenti sentenze di questa S.C., indicate da parte della dottrina e così anche nel presente giudizio, come sostanzialmente devianti dal consolidato indirizzo e sintomatiche inoltre di un crescente disagio interpretativo, per avere le stesse progressivamente limitato l’ambito della irripetibilità di quanto pagato per retribuzioni dal datore di lavoro inottemperante all’ordine di reintegrazione:

1) Sez. Lav. 4.3.78 n. 1094 che dichiara ripetibili le somme pagate dal datore in risarcimento di danni conseguenziali a licenziamento dichiarato legittimo dalla sentenza di riforma;

2) Sez. Lav. 7.2.83 n. 1030 e 15.3.83 n. 1095 che, nella ipotesi di specie dichiarano irripetibili le somme versate per retribuzioni nel periodo compreso fra la sentenza di reintegrazione e la sentenza di riforma, senza trattare, ex professo, della ripetibilità di quanto pagato allo stesso titolo posteriormente;

3) Sez. Lav. 4.7.83 n. 4474 che ritiene non esperibile alcuna azione di pagamento delle retribuzioni, dopo la sentenza d’appello assolutoria, da parte del lavoratore non reintegrato e che non siasi prima di allora avvalso dell’ordine giudiziale di reintegrazione;

4) Sez. Lav. 26.7.83 n. 5141 che dichiara ripetibile, dopo la sentenza d’appello accertante la legittimità del licenziamento, quanto pagato per retribuzioni dal datore di lavoro in forza di sentenza di reintegrazione emessa senza che sussistessero i presupposti di applicabilità della tutela ex art. 18 l. 20.5.1970 n. 300.

Per quanto riguarda, la particolare ipotesi in esame, di retribuzione corrisposta senza reintegrazione nel posto di lavoro, il pensiero sinora espresso da questa S.C. può essere così sintetizzato.

L’obbligo retributivo dall’art. 18 comma 2 L. 300-1970 posto a carico del datore di lavoro non ottemperante alla reintegrazione costituisce un modo sia pure parziale di ripristino effettivo del rapporto accertato dalla sentenza stessa e l’esecuzione volontaria o coattiva di esso realizza una autonoma fattispecie sostanziale dipendente dalla sentenza su cui l’effetto sostitutivo proprio della sentenza di riforma può operare soltanto dopo che questa abbia acquistata autorità di giudicato (art. 336 cpv.). Poiché tale obbligo consegue come effetto permanente alla inottemperanza dell’ordine giudiziale di reintegrazione l’adempimento volontario o coattivo dello stesso obbligo attiva il meccanismo della esecuzione indiretta che è legittimamente proseguita dopo la sentenza di riforma, come effetto dipendente dalla pronuncia riformata.

Pertanto, in caso di mancato reinserimento del lavoratore non deve restituire la retribuzione “medio tempore” ricevuta ad ha diritto a percepirla anche dopo la riforma e fino al passaggio in giudicato di essa.

La ragione di fondo del dissenso che questa Corte ora esprime dai precedenti enunciati sta in ciò che essi postulano come loro premessa necessaria una costruzione teorico-dogmatica in materia di effetti sostanziali permanenti degli atti d’esecuzione dipendenti dalla sentenza riformata, costruzione in cui si giunge fino alla individuazione di atti esecutivi del comando giudiziale aventi efficacia costitutiva e che, a giudizio di questa Corte non trova riscontro nei dati del sistema positivo.

Nell’affrontare la complessa tematica relativa ai limiti di compatibilità fra l’effetto sostitutivo immediato della sentenza di riforma sulle parti direttamente investite e sulle parti che ne dipendono, qual’é regolato dall’art. 336 comma I° C.P.C. (e la stabilizzazione degli atti compiuti in esecuzione della sentenza poi riformata (336 comma 2) le citate decisioni, invero, riaffermano, come premessa d’ordine generale, il principio, già da tempo consolidatosi nella giurisprudenza di questa S.C. (cfr. fra le altre le sentenze 7.5.1979 n. 2591; 18.XII.1978 n. 6075; 14.x.1976 n. 3455) secondo cui l’effetto sostitutivo prodotto dalla sentenza di riforma assolutoria fa sì che la sentenza riformata perda immediatamente ogni efficacia tanto di accertamento quanto di condanna restando priva anche della idoneità a fungere da titolo esecutivo nella ipotesi in cui sia provvisoriamente eseguibile “ope legis” od “ope iudicis”, ciò implicando anche l’impossibilità di proseguire l’esecuzione in precedenza iniziata, poiché l’esistenza del titolo è richiesta in ogni momento del processo e la sua caducazione impedisce il compimento di altri atti esecutivi nello stesso processo (arg. ex artt. 159 comma I°, 336 comma 1°, 353, 354 e 393 C.P.C.). Al principio di immediata sostituzione della sentenza di riforma alla sentenza riformata, costituente una incontrovertibile realtà del sistema e che trova adesione pressoché unanime nella dottrina, non si sottrae dunque la provvisoria esecutività ex lege od ope iudicis della sentenza, esaurendo essa la sua funzione lato sensu cautelare ed anticipatoria con l’emanazione della sentenza d’appello che, tanto di conferma della condanna quanto assolutoria rappresenta il naturale limite della efficacia di detta esecutività (della pronuncia di primo grado).

Peraltro l’effetto costitutivo, si precisa nelle citate decisioni, non interferisce, se non dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di riforma, sugli atti esecutivi compiuti prima di questa, sicché fino a tale momento esso lascia fermi ed operanti oltre alle situazioni di nature reale anche i rapporti obbligatori di tipo continuativo che siano stati costituiti de iure o de facto in esecuzione volontaria o coattiva della pronuncia riformata.

Di tale enunciato, rileva la Corte, deve essere pienamente condivisa, come aderente ad una ormai pressoché indiscussa interpretazione dello art. 336 cpv. C.P.C., l’affermazione che sono conservati fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma gli atti e provvedimenti dipendenti dalla sentenza riformata, compresi gli atti di provvisoria esecuzione di quest’ultimo.

Ulteriori approfondimenti alla luce anche dei più recenti contributi della dottrina giusprocessualistica non permettono invece di ulteriormente condividere l’assunto secondo cui gli atti compiuti in esecuzione volontaria o coattiva di sentenza avente efficacia costitutiva ex art. 2908 C.C., come la pronuncia di reintegrazione nel posto di lavoro (art. 18 l. 20 maggio 1970 n° 300) siano idonei ex se a creare rapporti e situazioni sostanziali identiche o complementari a quelli già costituiti dalla sentenza riformata e tali da resistere, essi soli, alla sentenza di riforma fino al passaggio in giudicato di questa.

Tale enunciato, oggetto di ampio anche se non unanime dissenso da parte della dottrina e della magistratura di merito, come il Tribunale nella impugnata sentenza e parte controricorrente non hanno mancato di rimarcare, in realtà contraddice, vanificandolo, al pur riconosciuto effetto sostitutivo, proprio della sentenza di riforma che travolge la sentenza riformata e le statuizioni dipendenti, senza che il sistema offra dai positivi tali da fare definire istituzionale una deroga del genere.

Se, infatti, la sentenza assolutoria di appello si sostituisce, sotto ogni profilo, all’accertamento della sentenza riformata, la qualificazione giuridica sul piano sostanziale dei fatti dedotti in causa può essere desunta solo dalla pronuncia di riforma, né è possibile configurare la coesistenza di due accertamenti contrastanti e, tanto meno, risolvere il conflitto riconoscendo all’effetto conservativo previsto dall’art. 336 cpv. una assoluta prevalenza sull’effetto sostitutivo proprio della sentenza di riforma quando proprio essa priva la sentenza riformata della efficacia di accertamento e della vis executiva (art. 336 prima parte).

In realtà, osserva la Corte, una antinomia fra le due norme è esclusa dai limiti di necessaria coesistenza che il loro coordinamento logico-sistematico pone agli effetti rispettivamente previsti, attribuendo prevalenza immediata all’effetto sostitutivo della riforma e stabilità fino al passaggio in giudicato di questa soltanto agli atti e provvedimento previamente compiuti in esecuzione della sentenza riformata.

Né tale regime varia nei rapporti giuridici continuativi o di durata alla cui categoria appartiene anche il rapporto di lavoro subordinato, laddove l’esecuzione provvisoria della sentenza di accertamento del rapporto e di condanna ad adempiere le obbligazioni che ad esso afferiscono, assolve alla funzione di adeguare la situazione di fatto a quella i diritto già accertata.

Così nelle varie ipotesi di esecuzione forzata in forma specifica (consegna o rilascio: art. 2930; obblighi di fare: art. 2931; obblighi di non fare: art. 2933 C.C.) l’attività materiale di adeguamento al comando giudiziale non produce effetti sostanziali che non siano già previsti dalla sentenza di condanna, restando perciò essi nei limiti di una attività meramente “effettuale”.

Analogamente, gli atti compiuti in esecuzione volontaria o coattiva di sentenze di accertamento o costitutive; recanti anche condanna all’adempimento (quali ad esempio la distribuzione del ricavato; la consegna della cosa mobile; l’immissione nel possesso o nella detenzione dell’immobile) esauriscono in sé la loro funzione di mero adeguamento della realtà di fatto a quella giuridica producendo gli effetti sostanziali tipici dell’adempimento in conformità alla relazione di diritto sostanziale accertata dalla sentenza.

La norma dell’art. 336 cpv C.P.C. prevede appunto il rinvio dell’effetto estensivo proprio della riforma, mantenendo integre le attribuzioni patrimoniali e le modificazioni sostanziali realizzate prima della sentenza di riforma stessa e procrastinando fino al passaggio in giudicato di questa l’attuazione del diritto della parte vittoriosa ad ottenere, in base ad essa, la restituzione di quanto dato o la riduzione in pristino di quanto modificato.

La Corte ritiene non potersi dubitare della esattezza delle precedenti considerazioni che, per un verso, riflettono i limiti legislativamente posti all’effetto estensivo della riforma, e che, per altro verso, non trascurano gli effetti sostanziali quali necessariamente conseguono all’attività processuale esecutiva del dictum, siccome finalizzata ad adeguare la situazione di fatto alla realtà giuridica accertata con la sentenza, il che vale indubbiamente anche per l’esecuzione provvisoria, poiché, come è stato osservato in dottrina, la sentenza provvisoriamente efficace attua, non meno e diversamente dalla sentenza passata in giudicato, il diritto sostanziale come accertato dal processo.

Da tali rilievi esegetico-sistematici non è dato tuttavia trarre, come sviluppo logico necessario, l’assunto delle citate decisioni secondo cui gli atti e provvedimenti eseguiti in base alla sentenza poi riformata non mutano la loro valenza giuridica con la sentenza di riforma; la temporanea paralisi dell’effetto estensivo della riforma rende irrilevante la caducazione della sentenza riformata nell’ambito della fattispecie pregiudicata questa restando provvisoriamente idonea ope legis a sorreggere l’effetto giuridico prodotto sulla base della sentenza riformata; nell’area dell’esecuzione in forma specifica ove l’attività esecutiva vale ad adeguare direttamente la situazione di fatto a quella di diritto, l’inefficacia della riforma rende stabile non la mera attività materiale di adeguamento (consegna della cosa, rilascio dell’immobile etc.) ma l’effetto giuridico realizzato in conformità alla declaratoria iuris; perciò, nonostante la riforma, restano fermi e continuino a produrre effetti, oltre alle situazioni di natura reale, i rapporti obbligatori continuativi ripristinati o costituiti de iure e de facto in esecuzione volontaria o coattiva della sentenza riformata.

Neppure nell’area dell’esecuzione specifica, osserva la Corte, il sistema positivo offre esempi di attività esecutiva, o di attuazione del comando giudiziale, idonea a instaurare o restaurare rapporti obbligatori (continuativi) quali autonome fattispecie sostanziali dipendenti dalla sentenza che li accerta (come norma agendi) tali, perciò, da sopravvivere fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma.

Come hanno rilevato il Tribunale e poi la difesa di parte controricorrente, effetti sostanziali del genere invero non si ravvisano nemmeno nella ipotesi di esecuzione forzata della sentenza che condanna il locatore a consegnare la cosa al locatario, dalla quale fattispecie le citate sentenze di questa S.C. traggono invece argomento d’ordine sistematico, osservando come l’esecuzione volontaria o forzata del comando giudiziale realizzi un rapporto autonomo di locazione che fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma, accertante l’inesistenza del rapporto locatizio, resiste all’effetto estensivo proprio di tale pronuncia.

L’esemplificazione, osserva la Corte, permette, viceversa, di individuare come unico effetto stabilizzato fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma quello prodotto dalla immissione del consegnatario nella detenzione della cosa, poiché il rapporto locatizio accertato con la sentenza e reso effettivo con la consegna della cosa non può sopravvivere, come tale, alla riforma della sentenza che ne aveva accertata l’esistenza.

La consegna, volontaria o forzata, della cosa al locatario, eseguita in base a sentenza provvisoriamente esecutiva, mentre realizza “uno actu” il comando giudiziale, vale, infatti, da sola ad assicurare al consegnatario, anche dopo la riforma, il godimento della cosa, in conformità al dictum esecutivo e con effetti che permangono fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma, realizzandosi così semplicemente una temporanea situazione di vantaggio processuale per il consegnatario.

Questa situazione di vantaggio processuale non impedisce peraltro che la sentenza di riforma produca “illico et immediate” il proprio effetto eliminatorio nei confronti dell’accertamento di I° grado e che il rapporto di locazione si trasformi perciò in una situazione di godimento di fatto, tuttavia non antigiuridica, perché stabilizzata ope legis fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma.

Del che è conferma d’ordine sistematico nel regime della responsabilità per danni da ritardato rilascio in cui come si riconosce nelle citate decisioni, può incorrere il detentore il quale, nell’ambito della legalità formale abbia continuato ad avvalersi della provvisoria esecutività della sentenza anche dopo la riforma di questa, nonostante il prevedibile esito finale della lite.

Invero la sentenza, come è stato rilevato in sede dottrinale, non trasforma la relazione di diritto sostanziale fra parte vittoriosa e parte soccombente, restando essa regolata dal rapporto sostanziale tutelato, che vale a spiegare, esso solo, la responsabilità aggravate per ingiusta esecuzione ex art. 96 comma 2 C.P.C. laddove l’atto processualmente efficace si rende temporaneamente idoneo ad incidere in maniera illecita (dal punto di vista del diritto sostanziale) sulla sfera giuridica dell’obbligato.

Né dall’inconveniente della carenza di una regula iuris che, in quella, come in altre molteplici situazioni consimili, alla riduzione del rapporto locatizio a situazione di mero fatto, provocata dalla sentenza di riforma, sembra possibile, attraverso il semplice postulato della inaccettabilità di tale conseguenza trarre valido argomento nel senso di una conferma all’assunto che la stabilizzazione investe direttamente i rapporti costituiti o ripristinati con l’esecuzione specifica, non già il mero adeguamento materiale alla sentenza esecutiva.

Viceversa, come già rilevato, è proprio il mero adeguamento materiale al dictum esecutivo che realizza l’attività necessaria e sufficiente richiesta dalla legge affinché l’accertamento sostanziale possa produrre nella realtà fenomenica gli effetti che gli sono propri.

Soltanto tale attività “effettuale” può dunque ritenersi stabilizzata con gli effetti sostanziali che essa ha prodotti, fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma.

Come si osserva in sede dottrinale, gli effetti sostanziali di un atto o provvedimento del processo sono previsti da specifiche norme del codice civile quale quelle che regolano: a) l’effetto interruttivo della prescrizione estintiva dei diritti prodotto dalla domanda giudiziale (art. 2943); b) l’efficacia verso i terzi della trascrizione di domanda giudiziale e di atti o provvedimenti del processo, in regime di pubblicità legale (artt. 2642 e segg.); c) l’efficacia di un provvedimento decisorio quale giudicato sostanziale (art. 2908) e come titolo per l’iscrizione e la cancellazione d’ipoteca giudiziale (artt. 2818 e 2884); d) gli effetti del pignoramento (art. 2913) e del sequestro conservativo (art. 2906) (indisponibilità dei beni colpiti).

Agli atti d’esecuzione volontaria o coattiva delle sentenze provvisoriamente esecutive il sistema riconosce, viceversa, come già accennato, efficacia di atti effettuali necessari e sufficienti ad adeguare la situazione di fatto a quella di diritto, a realizzare, cioé, l’adempimento, essendo essi da soli inidonei a produrre effetti costitutivi, come quelli propri degli atti e provvedimenti sopra menzionati. La teoria della fattispecie autonoma che è costituita dagli atti d’esecuzione della sentenza e che sopravvive alla caducazione della fattispecie accertata dalla sentenza colpita poi dalla riforma, come si osserva in dottrina, postula una inammissibile astrazione del risultato del processo dalla sua base sostanziale, che non trova riscontro alcuno nel sistema, ove alla esecuzione volontaria o coattiva del comando giudiziale sono riconosciute una funzione attuativa del rapporto già costituito o ricostituito de iure dalla sentenza e con essa, l’idoneità a produrre i limitati effetti tipici degli atti di adempimento.

D) Le sopra svolte considerazioni riferite al tema specifico di causa, non permettono di condividere l’enunciazione delle citate sentenze secondo cui anche il solo pagamento della retribuzione dovuta al lavoratore non reimmesso nel posto di lavoro (art. 18 comma 2°) costituisca atto idoneo a ripristinare in via autonoma il rapporto accertato con la sentenza, realizzando così una fattispecie dipendente da questa e che resta insensibile all’effetto estensivo proprio della sentenza d’appello assolutoria, fino a quando questa passi in giudicato.

L’adempimento dell’obbligo retributivo, come è dato rilevare dalla formulazione dell’art. 18 comma 2° (“……..il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al comma precedente (cioé all’ordine dei reintegrazione) è tenuto…a corrispondere al lavoratore la retribuzione dovutagli in virtù del rapporto di lavoro dalla data della sentenza fino a quella della reintegrazione) e comma 3° (se il lavoratore entro trenta giorni…non abbia ripreso servizio, il rapporto s’intende risolto) è invero atto finalizzato soltanto alla riattivazione funzionale del rapporto che de iure mai ha cessato di esistere, né, gli si può quindi attribuire l’effetto sostanziale della ricostituzione del rapporto, essendo questo effetto proprio ed esclusivo della sentenza che ripristina la situazione di diritto sostanziale già in atto fra le parti prima del licenziamento dichiarato illegittimo.

Il pagamento della retribuzione, quale atto dipendente della sentenza che ordina la reintegrazione, resta dunque al di fuori della fattispecie ricostitutiva del rapporto, alla cui formazione soltanto la pronuncia giudiziale appare elemento necessario e sufficiente.

Con la rimozione di essa da parte della sentenza di riforma assolutoria il licenziamento riassume a sua volta l’originaria efficacia risolutiva del rapporto, senza che possa ancora prodursi la sospensione, ex art. 336 cpv., dell’effetto estensivo proprio della sentenza di riforma.

Come giustamente si rileva nella impugnata sentenza il pagamento della retribuzione, trovando la sua causa nel rapporto sostanziale accertato con la sentenza, è atto che non possiede l’idoneità a farlo rivivere dopo l’accertamento negativo contenuto nella sentenza di riforma.

Le precedenti considerazioni sembrano dunque già sufficienti a dimostrare che il pagamento della retribuzione, eseguito dal datore di lavoro non ottemperante all’ordine di reintegrare il lavoratore, pur costituendo l’adempimento di un obbligo contrattuale (riprodotto nella norma) i cui tipici e limitati effetti sostanziali sono conservati fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma, non è atto idoneo a protrarre l’obbligo retributivo oltre la pubblicazione della stessa sentenza, né idoneo perciò a rendere irripetibili le somme posteriormente ricevute dal lavoratore.

Né convincono del contrario le ulteriori argomentazioni svolte nelle citate sentenze, secondo cui: a) quando il dipendente consegna, coattivamente o per adempimento volontario dell’obbligo agisca per conseguire, la retribuzione, il rapporto accertato in sentenza è concretamente ripristinato, come consente la norma, in relazione alla prestazione retributiva, realizzandosi così una fattispecie, questa volta normativamente prevista, che dipende dalla sentenza sulla quale l’effetto estensivo della riforma può operare solo dopo il passaggio in giudicato; b) l’obbligo retributivo sorge ex lege con la sentenza, quale effetto permanente per l’inottemperanza al comando giudiziale e perciò, datasi attuazione ad esso attraverso il meccanismo dell’esecuzione indiretta questa legittimamente è proseguita dopo la riforma, essendosi in presenza di un effetto dipendente dalla pronuncia riformata; c) l’esecuzione indiretta, costituendo il prezzo dell’inosservanza dell’ordine del giudice non può mai dare luogo a conseguenze per l’obbligato meno onerose di quelle che egli subirebbe in caso di ottemperanza, cosicché l’obbligo retributivo è destinato ad operare fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma né al datore di lavoro compete la ripetizione di quanto versato medio tempore.

A tutto ciò sembra infatti sufficiente obbiettare che la fattispecie, normativamente prevista, del pagamento della retribuzione, se realizzata mediante l’esecuzione volontaria o coattiva dell’obbligo, per quanto sopra rilevato, non può produrre effetti sostanziali diversi da quelli tipici del pagamento della retribuzione afferente ad un determinato periodo, con cui si esaurisce la sua funzione satisfattiva né pertanto può valere a rendere l’obbligo retributivo operante anche dopo la sentenza di riforma che abbia accertata l’inesistenza dell’obbligo stesso.

Né a diversa conclusione sembra possibile giungere attribuendosi, come si fa nelle citate sentenze, all’obbligo retributivo il valore di un effetto permanente previsto per l’inosservanza all’ordine di reintegrazione sicché l’attuazione volontaria o coattiva dell’obbligo una prima volta realizzata possa proseguire dopo la sentenza di riforma come effetto dipendente dalla sentenza riformata.

La imposizione dell’obbligo retributivo, nella struttura della norma dell’art. 18, diversamente dall’ordine di reintegrazione, non si pone, invero, come comminatoria di condanna, ma riproduce quello che, secondo legge e contratto, costituisce l’obbligo principale del datore di lavoro (artt. 2094 e 2099 C.C.) obbligo che come effetto della ricostituzione del rapporto resta operante anche in difetto di reintegrazione.

(1) Devesi, quindi, escludere che quella dell’obbligo di pagare la retribuzione anche in caso di mancata reintegrazione nel posto di lavoro costituisca una imposizione nascente dal precetto normativo piuttosto che dal contratto ripristinato, e che esso svolga una qualche apprezzabile funzione compulsiva alla reintegra e tanto meno di sanzione per l’inosservanza dell’ordine, al che si oppone anche il rilievo che l’adempimento dell’obbligo minore, quello retributivo, anche in assenza della controprestazione del lavoratore, per definizione, non può costituire sanzione per l’inosservanza dell’obbligo maggiore (quello di riammettere il dipendente al lavoro).

Ciò a prescindere dal già svolto, assorbente rilievo che, comunque considerato, il fatto del datore di lavoro il quale dopo la sentenza di riforma abbia volontariamente continuato a retribuire il lavoratore o come nel caso di specie vi sia stato costretto da un provvedimento giudiziale con ciò si pone in essere un atto dipendente dalla sentenza riformata, che oltre a quelli tipici di un adempimento periodico non è idoneo a produrre altri effetti sostanziali, tanto meno l’effetto di costituire o concorrere a costituire una autonoma fattispecie di rapporto sostanziale, produttiva di effetti permanenti, come la persistenza dell’obbligo retributivo e come anche, perciò, la irripetibilità della retribuzione ricevuta dopo la sentenza di riforma e fino al passaggio in giudicato di questa.

Ritenere definitivamente acquisite e perciò irripetibili somme erogate in forza di un obbligo che costituisca “il prezzo” dell’inadempimento all’ordine di reintegra eliminato dalla sentenza di riforma e che rappresenti, inoltre, una sanzione per l’inosservanza di un provvedimento giurisdizionale divenuto illegittimo, come si è rilevato ancora in dottrina, postula una abnorme resistenza dei suoi effetti che non trova riscontro nel dato normativo e nel principio fondamentale del sistema secondo cui il processo, non può dare luogo a situazioni di vantaggio processuale (come quella derivante dalla provvisoria esecutività della sentenza) che restino irreversibili anche dopo la definitiva caducazione del titolo e che precludano la ripetizione dell’indebito o il risarcimento dei danni, anche se il titolo sia costituito da un atto autoritativo risultano poi illegittimo.

Come, infatti, l’atto amministrativo riconosciuto illegittimo e la legge dichiarata incostituzionale cessano di avere forza cogente e possono legittimamente essere disapplicati, così, la sentenza che dichiari illegittimo il licenziamento ed ordini la reintegrazione del lavoratore perde qualsiasi efficacia per effetto della sentenza di riforma, regione per cui la retribuzione ricevuta dal lavoratore dopo tale pronuncia in esecuzione della sentenza riformata provvisoriamente esecutiva o, come nella specie, in esecuzione di un successivo provvedimento giudiziale da questa dipendente, perché indebitamente percepita deve essere restituita al momento del passaggio in giudicato della sentenza di riforma accertante l’inesistenza del diritto.

Né rileva ancora la Corte dall’ipotetica qualificazione dell’obbligo di corrispondere la retribuzione in assenza della rifiutata prestazione lavorativa, quale asserito prezzo dell’inosservanza dell’obbligo principale, che rende impossibile al lavoratore la prestazione medesima, può comunque trarsi utile argomento per sostenere che l’obbligo retributivo sia destinato ad operare non solo nel periodo d’efficacia della sentenza poi riformata ma anche in relazione al periodo in cui avrebbe continuato a produrre effetto, ai sensi dell’art. 336 cpv. C.P.C., il rapporto di lavoro ripristinato, posto che l’inosservanza dell’ordine non deve produrre conseguenze meno onerose di quelle che derivano dall’osservanza.

La reintegrazione nel posto di lavoro osserva la Corte, è invero concepita nelle suddette decisioni come complesso atto unitario idoneo a restituire effettività al rapporto ormai ripristinato de iure dalla sentenza e che si realizza “uno puncto temporis”, anziché continuativamente “de die in diem” (come invece affermato nelle sentenze del 1976) attraverso l’esecuzione di atti materiali quali lo accesso del lavoratore al posto di lavoro; la consegna degli strumenti necessari per l’esecuzione della prestazione lavorativa; la reiscrizione del nominativo nei libri obbligatori, mentre il complesso delle successive prestazioni troverebbe la sua fonte giuridica nel rapporto sostanziale così ripristinato.

Senonché, rileva ancora la Corte, tale complesso atto unitario si compone di una serie di comportamenti che sono meramente preparatori o introduttivi del successivo concreto svolgimento del rapporto e intrinsecamente inidonei a produrne la c.d. riattivazione e, tanto meno, a porre in essere le condizioni necessarie per un effettivo normale svolgimento di esso.

Come già rilevato nelle sentenze n. 1233 e 3455 del 1976 l’esecuzione volontaria o coattiva degli obblighi a carico del datore di lavoro richiede infatti un diuturno adeguamento della situazione di fatto alla complessa realtà giuridica costituita dal rapporto di lavoro ripristinato con l’ordine di reintegrazione.

L’assunto della riattivazione del rapporto con effetti permanenti che, secondo la costruzione, ora disattesa, si realizzerebbe mediante la descritta serie di atti introduttivi, non si sottrae alla constatazione che essa consiste proprio in una attività che per sua natura ritenuta passibile di esecuzione forzata, e la cui asserita idoneità a produrre effetti sostanziali permanenti (di ricostruzione del rapporto) è invece contraddetta dalla comunemente riconosciuta (cfr. oltre alle citate sentenza Sez. Lav. 13.4.85 n. 2458) e legislativamente confermata (art. 18 co. 2) incoercibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, incoercibilità che, anche nella ratio della norma, ha riguardo non tanto agli atti preparatori o introduttivi (intrinsecamente fungibili) quanto, piuttosto, al complesso delle successive prestazioni, con cui si realizza la fase dinamica del rapporto ed a cui ha evidentemente inteso riferirsi lo stesso legislatore considerando come unica forma di attuazione del comando del giudice la reintegrazione nel posto di lavoro (anche questa fino alla sentenza di eventuale riforma).

Resta dunque escluso che il solo pagamento della retribuzione possa produrre conseguenze meno onerose di quelle che scaturiscono dall’atto di reintegrazione come concepito dalle citate decisioni, sì da giustificare, malgrado ciò, un indifferenziato trattamento.

In entrambi i casi, si è in presenza di atti d’esecuzione non idonei a produrre effetti sostanziali di ricostituzione permanente del rapporto, che sopravvivano alla riforma della sentenza di reintegrazione.

Al rifiuto da parte del datore di lavoro di reimmettere il lavoratore, che rende di fatto impossibile la prestazione senza far venir meno l’obbligo retributivo, il rapporto di lavoro resta, invero, operante fino alla sentenza di riforma che lo dichiara cessato ex tunc in forza di legittimo licenziamento, salvi restando solo gli effetti sostanziali degli atti d’esecuzione volontaria o coatta compiuti in esecuzione della sentenza riformata.

Con la pubblicazione della sentenza di riforma cessa perciò l’obbligo retributivo, ma le somme che il datore di lavoro inottemperante all’ordine di reintegrazione dopo di ciò abbia corrisposte a titolo di retribuzione in esecuzione volontaria o coattiva di successivi provvedimenti giudiziali di condanna, benché non dovute, si rendono ripetibili soltanto al momento del passaggio in giudicato della sentenza di riforma, poiché, come già rilevato, gli effetti estensivi esterni di questa pronuncia si riattivano solo da tale momento, nei confronti degli atti che sono stati compiuti in esecuzione della sentenza riformata e che hanno dato luogo a tali indebite attribuzioni patrimoniali.

Pertanto nel caso di sentenza di riforma, recante, come nella specie, anche condanna del lavoratore alla restituzione delle somme indebitamente percepite, essendo priva dell’autorità di giudicato essa non può fungere da titolo esecutivo per realizzare effetti che è in grado di produrre solo se sia rivestita di tale autorità.

Né vale obiettare che la sentenza d’appello recante capi di condanna è esecutoria almeno in tale parte a norma dell’art. 337 comma I° C.P.C.. L’efficacia del capo di condanna alla restituzione di quanto conseguito in esecuzione della sentenza riformata resta, infatti, sempre subordinata all’efficacia del capo di riforma assolutoria e come tale può produrre l’effetto restitutorio solo dopo il suo passaggio in giudicato che permette al capo assolutorio di estendere i propri effetti (sostitutivi) agli atti dipendenti dalla sentenza riformata (art. 336 comma I° e 2° C.P.C.), come in sostanza si ritiene anche dalla impugnata sentenza.

E) Conclusivamente si deve affermare:

I) Ai sensi dell’art. 336 comma I° del C.P.C. la sentenza di riforma resa in appello mentre da una parte si sostituisce immediatamente, già dalla sua pubblicazione, alla sentenza di primo grado, travolgendone le statuizioni direttamente riformate e quelle da esse dipendenti e privandola, se immediatamente esecutiva ex lege o ope iudicis, della idoneità a legittimare l’instaurazione o la prosecuzione di procedura esecutiva, dall’altra parte, non interferisce se non dal momento in cui essa passa in giudicato sull’esecuzione conclusa o sui singoli atti esecutivi compiuti prima della riforma. (art. 36 I° comma C.P.C.).

2) Poiché gli atti d’esecuzione del comando giudiziale producono soltanto gli effetti sostanziali tipici di ciascuno di essi, necessari e sufficienti alla realizzazione del diritto accertato, il loro compimento si risolve in una attività che, come non può costituire valida premessa per la prosecuzione dell’esecuzione quando sia venuto a mancare il titolo, così, non è idonea ad instaurare rapporti o situazioni sostanziali autonome, che si sovrappongano a quelle accertate con la sentenza e che, a differenza di esse, resistano, come dipendenti della sentenza riformata all’effetto sostitutivo immediato proprio della sentenza di riforma, fino al passaggio in giudicato di questa.

3) L’obbligo di corrispondere la retribuzione al lavoratore fino alla effettiva reintegrazione nel posto di lavoro, anche se riprodotto nell’art. 18 comma 2° della legge 20 maggio 1970 n. 300, nasce direttamente dal rapporto sostanziale ricostituito dalla sentenza accertante la illegittimità del licenziamento, né alla previsione di esso può attribuirsi la funzione di una sanzione permanente per l’inosservanza dell’ordine di reintegrazione, tale da restare operante anche dopo la sentenza d’appello che dichiara legittimo il licenziamento.

4) Pertanto, l’esecuzione volontaria o coattiva dell’obbligo posto a carico del datore di lavoro di corrispondere al lavoratore illegittimamente licenziato la retribuzione dal momento della pubblicazione della sentenza di reintegrazione fino a quella dell’effettivo reinserimento produce soltanto effetti sostanziali (satisfattivi o di adempimento) limitati ai singoli atti compiuti né pone il datore di lavoro nell’obbligo di continuare a pagare la retribuzione anche dopo che con la sentenza assolutoria d’appello sia stata accertata la legittimità del licenziamento e fino a quando questa passi in giudicato.

5) Conseguentemente, come il datore di lavoro legittimamente rifiuta ogni ulteriore pagamento dopo la sentenza di riforma così egli ha diritto a ripetere quanto sia stato costretto a pagare a titolo di retribuzione posteriore alla riforma, in forza di provvedimento giudiziale.

Nel caso di specie non merita quindi censura l’impugnata sentenza che si è attenuta a tale principi e che ha provveduto di conseguenza.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato, restando così assorbita la censura subordinata relativa alla legittimità della procedura ingiunzionale.

Quanto al regolamento delle spese del presente giudizio, stanti la delicatezza e la complessità della questione, nonché la necessaria nuova impostazione e soluzione di essa, ricorrono giusti motivi di compensazione totale delle spese fra le parti.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese. Così deciso il 14 giugno 1986. (1) adde: Perciò, diversamente da quanto ritenuto nelle citate decisioni, l’enucleazione dell’obbligo retributivo dal complesso degli obblighi reciproci nascenti dal contratto, quale si assume operata dalla norma, non risulta concepita come mezzo necessario “affinché il dipendente possa conseguire anche “invito debitore” il pagamento della retribuzione, così da riattivare in concreto questo aspetto del rapporto.

L’asserita attitudine dell’enunciato normativo a fungere come strumento di coercizione indiretta, volto cioé a costringere il datore di lavoro a reimmettere il dipendente nel posto di lavoro (facere infungibile) a cui esclusivamente tende il comando giudiziale (volendosi con esso escludere, finché possibile, la monetizzazione dell’obbligo principale nonostante la riconosciuta incoercibilità di questo), costituisce dunque un effetto indiretto dello stesso ordine di reintegrazione e, prima ancora, della dichiarata illegittimità del licenziamento.

Estranea alla struttura ed alla ratio della norma, come sopra definita, risulta, pertanto, la previsione dell’obbligo retributivo come sanzione compulsiva con specifiche finalità di coercizione indirette e addirittura di prezzo per l’inosservanza dell’ordine di reintegrazione. p.a
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 7 FEBBRAIO 1987