Svolgimento del processo

Con sentenza 1° – 30 giugno 1982 il Pretore di Palermo ordinava alla S.p.A. Cavarzere (in solido con la S.p.A. Inducom) di reintegrare nel posto di lavoro gli attuali 12 controricorrenti siccome illegittimamente licenziati, e di corrispondere loro la retribuzione dovuta dal 1°.6.1982, ma la società non ottemperava e proponeva appello. Tale decisione era riformata dal Tribunale di Palermo con sentenza 25.11.1982 – 17.1.1983 che dichiarava legittimi i licenziamenti e che era a sua volta, impugnata con ricorso per cassazione. Con sentenza 16.12.82-12.1.1983 coeva a tale sentenza di riforma, il pretore di Palermo rigettava l’opposizione proposta dalla S.P.A. Cavarzere contro il decreto 20.10.82 con cui le si ingiungeva di pagare ai controricorrenti le somme per ciascuno indicate, a titolo di retribuzione, del periodo giugno-settembre 1982. il Tribunale rigettava l’appello con sentenza 27.10.1983. A tale prima ingiunzione seguiva un secondo decreto dello stesso pretore di Palermo, emesso in data 17.3.1983, su ricorso con cui si ingiungeva alla società di pagare la retribuzione del trimestre ottobre-dicembre 1982.

Anche contro questo decreto la S.p.A. Cavarzere proponeva opposizione che era, però, rigettata dal Pretore di Palermo con sentenza 16.6.1983 ove si affermava, fra l’altro, che l’obbligo retributivo a carico del datore di lavoro non ottemperante all’ordine permanente sorge ex lege quale effetto permanente dell’inosservanza; già con il decreto ingiuntivo 20.10.1982 emesso prima della sentenza assolutoria del Tribunale; che l’attuazione era legittimamente proseguita dopo la sentenza di riforma perché si era in presenza di un effetto della sentenza riformata, che era conservato fino al passaggio in giudicato della stessa sentenza di riforma, ex art. 336 C.P.C.. Contro tale pronuncia la S.p.A. Cavarzere proponeva appello davanti al Tribunale di Palermo, lamentando:

1°) Il Pretore aveva posto a base dell’ingiunzione la sentenza di reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18 l. 20 maggio 1970 n. 300 nonostante che questa avesse omesso di pronunciarsi sulla domanda di condanna al pagamento delle retribuzione e benché, quindi, il giudicato si fosse formato su tale capo, non impugnato dai lavoratori.

2) Il Pretore, acriticamente aderendo all’indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità, aveva ritenuto che l’obbligo retributivo sopravvive alla riforma della sentenza di reintegrazione, fino al passaggio in giudicato di questa, senza considerare che, nel caso di specie, il ricorso per decreto ingiuntivo era successivo alla sentenza di riforma e che non vi erano pertanto atti di esecuzione i cui effetti potessero sopravvivere alla riforma.

Il Tribunale con sentenza 16 febbraio + 4 luglio 1984 rigettava l’appello, in base alle seguenti considerazioni.

L’obbligo retributivo ex art. 18 comma 2° legge n. 300 del 1970 sopravvive alla riforma della sentenza di reintegrazione fino al passaggio in giudicato della sentenza di appello assolutoria, poiché sia la reintegrazione sia, in alternativa, il pagamento della retribuzione sono fattispecie “dipendenti” dalla sentenza riformata, e, se eseguiti anteriormente alla sentenza di riforma, producono effetti stabilizzati fino al passaggio in giudicato di essa, con la conseguenza che l’esecuzione dell’obbligo retributivo iniziata prima della sentenza di riforma, legittimamente prosegue dopo di questa.

Nella specie, il primo ricorso per ingiunzione (relativamente alle retribuzioni da giugno a settembre 1982) era stato emesso anteriormente alla pubblicazione della sentenza di riforma e l’esecuzione di esso doveva proseguire anche dopo, così che, fino al passaggio in giudicato, il lavoratore non reintegrato aveva diritto alla retribuzione a norma dell’art. 336 cpv C.P.C. (come aveva già statuito il Tribunale con la sentenza 27.10.83).

Analoghe considerazioni dovevano valere per il decreto ingiuntivo 17.3.1983 che, pur essendo stato emesso dopo la pubblicazione della sentenza di riforma, si riferiva, tuttavia, alla retribuzione del trimestre ottobre-dicembre 1982, di un periodo di cui, cioé, era pienamente operante l’ordine di reintegrazione caducato solo con la pubblicazione della sentenza di riforma (e cioé dal 17.9.1983).

Contro la tale decisione la S.p.A. Cavarzere ha proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi.

Resistono gli intimati con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso si lamentano violazione e falsa applicazione degli artt. 336 e 337 del S.C. (S.U. 1669-1982 e sent.

successive) ritenuto che l’obbligo retributivo, costituendo il mezzo di esecuzione indiretta della incoercibile ordine di esecuzione indiretta dello incoercibile ordine di reintegrazione, permane fino a quando all’ordine stesso sia data effettiva attuazione, e, se il creditore ne consegna, o agisca giuridicamente, per conseguirne l’adempimento prima della sentenza di appello assolutoria, produce effetti sostanziali di riattivazione del rapporto di lavoro, i quali sopravvivono alla riforma della sentenza di reintegrazione fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma, con la conseguenza che l’esecuzione dello stesso obbligo può proseguire anche dopo la sentenza di riforma, come era avvenuto nel caso di specie, ove il decreto ingiuntivo per il pagamento della retribuzione relativa al periodo ottobre-dicembre 1982 era stato portato in esecuzione, pur essendo posteriore alla sentenza di riforma accertante l’inesistenza dell’obbligo.

Viceversa, osserva la ricorrente, l’esecuzione dell’ordine di reintegrazione o del solo obbligo di corrispondere la retribuzione fino all’effettivo reinserimento del lavoratore nell’impresa non può produrre situazioni sostanziali che sopravvivano alla riforma dell’ordine, siccome dipendenti dalla sentenza riformata. Così, nel caso di specie, all’esecuzione di un primo decreto ingiuntivo avvenuta anteriormente alla sentenza di riforma non poteva seguire il secondo decreto ingiuntivo emesso dopo tale pronuncia accertante l’inesistenza dell’obbligo retributivo, né vale in contrario la circostanza che il credito si riferisse ad un periodo di retribuzione anteriore alla sentenza di riforma.

Il motivo merita accoglimento.

Con esso fondatamente si propone la censura dell’assunto posto a base della impugnata pronuncia e secondo cui l’obbligo retributivo ex art. 18 comma 2° legge 20 maggio 1970 n. 300, costituendo il mezzo di esecuzione indiretta dello incoercibile ordine di reintegrazione nel posto di lavoro, persiste fino a quando all’ordine stesso sia data concreta attuazione e, se il creditore ne consegna, o agisca giudizialmente per conseguire l’adempimento prima della sentenza d’appello che accerta la legittimità del licenziamento questa attività produce effetti sostanziali di riattivazione del rapporto di lavoro, i quali effetti sopravvivono alla riforma della sentenza di reintegrazione e fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma, cosicché l’esecuzione dello obbligo retributivo può proseguire anche dopo la sentenza di riforma (art. 336 cpv C.P.C.). Sulla base di tale assunto che sostanzialmente aderisce all’indirizzo interpretativo di questa S.C., espresso dalla sentenze 15.3.1982 n. 1669, 10.5.1982 nn. 2872, 2873 e 2874 delle S.U. e successive conformi della Sezione lavoro, il Tribunale di Palermo, nel caso di specie, ha ritenuta la legittimità del decreto ingiuntivo che, pur essendo stato chiesto ed ottenuto dal lavoratore dopo la pubblicazione della sentenza d’appello che ha riformata la sentenza di reintegrazione, aveva ad oggetto il pagamento della retribuzione relativa ad un periodo anteriore ed era stato preceduto da analogo provvedimento posto in esecuzione prima della sentenza di riforma.

La decisione, peraltro, non può dirsi conforme a legge. Come già ritenuto con le sentenze del 7.2.1987 n. 1328 in causa Baldini-Banca Popolare della Etruria e n° 1332 in causa Riggio-ENEL che sono contrarie al citato orientamento, le ragioni di fondo del dissenso, che qui si conforma, sta in ciò che tale indirizzo precedente postula una costruzione teorico-dogmatica in materia di effetti sostanziali permanenti propri degli atti esecutivi della sentenza riformata, ove si giunge fino alla individuazione di atti d’esecuzione del comando giudiziale avanti efficacia costitutiva e che peraltro, a giudizio nuovo e meditato di questa Corte, non trova un reali riscontro nel concreto sistema positivo.

Nell’affrontare la complessa tematica relativa ai limiti di compatibilità fra l’effetto sostitutivo immediato, prodotto dalla sentenza di riforma sulle parti della sentenza direttamente investite e sulle parti che ne dipendono (art. 336 comma II) le citate sentenze riaffermano innanzi tutto il principio già consolidato nella giurisprudenza di questa S.C., secondo cui l’effetto sostitutivo proprio della sentenza di riforma assolutoria fa sì che la sentenza riformata perda immediatamente qualsiasi efficacia tanto di accertamento quanto di condanna, restando priva anche della idoneità a fungere da titolo esecutivo, nella ipotesi in cui sia provvisoriamente eseguibile “ope legis” od “ope iudicis”, ciò implicando anche la impossibilità di proseguire l’esecuzione in precedenza iniziata, poiché l’esistenza del titolo è richiesta in ogni momento del processo e la sua caducazione impedisce il compimento di altri atti esecutivi nello stesso processo; Anche la provvisoria esecutività della sentenza di primo grado non si attiene, perciò, a tale regola, esaurendo essa la sua funzione “lato sensu” cautelare ed anticipatoria con l’emanazione della sentenza di appello, poiché questa, tanto di conferma della condanna, quanto assolutoria, costituisce il naturale limite della relativa efficacia.

Peraltro, l’effetto sostitutivo, secondo le menzionate decisioni, non interferisce, se non dal passaggio in giudicato della sentenza di riforma, sugli atti esecutivi compiuti prima di questa, sicché, fino a tale momento, lascia fermi ed operanti, oltre alle situazioni di natura reale, anche i rapporti obbligatori di tipo continuativo che siano stati costituiti de iure o de facto in esecuzione volontaria o coattiva della pronuncia riformata.

Di tale enunciato questa Corte ritiene di dover condividere, come aderente ad una pressoche indiscussa interpretazione dell’art. 336 cpv. C.P.C. soltanto l’affermazione che sono conservati fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma, gli atti e provvedimenti dipendenti dalla sentenza riformata, compresi gli atti di provvisorietà di quest’ultima.

Ulteriori approfondimenti, anche alla luce dei più recenti contributi dottrinali, non permettono, invece, di condividere l’assunto secondo cui gli atti compiuti in esecuzione volontaria o coattiva di sentenze aventi efficacia costitutiva ex art. 2908 c.c., come la sentenza di reintegrazione nel posto di lavoro ((art. 18 legge 10 maggio 1970 n. 300) sono idonei “ex se” a creare rapporti e situazioni di diritto sostanziale, identici a quelli già costituiti dalla sentenza riformata e tali da restituire, diversamente dai primi, alla sentenza di riforma, fino al passaggio in giudicato di questa.

Tale assunto, come già rilevato da questa Corte nelle due sentenze citate, contraddice al pur riconosciuto effetto sostitutivo proprio della sentenza di riforma che travolge la pronuncia riformata e le statuizioni dipendenti, senza che nel sistema si rinvengano dati positivi tali da far definire istituzionale una deroga del genere.

Se, infatti, la sentenza assolutoria di appello si sostituisce, sotto ogni profilo, all’accertamento della sentenza riformata, la qualificazione giuridica, sul piano sostanziale, dei fatti dedotti in causa può essere desunta soltanto dalla pronuncia di riforma né è possibile ammettere la coesistenza di due accertamenti contrastanti né, tanto meno, risolvere il conflitto riconoscendo all’effetto conservativo previsto dall’art. 336 cpv. C.P.C. una assoluta prevalenza sull’effetto sostitutivo che è proprio della sentenza di riforma e che toglie alla sentenza riformata l’efficacia di accertamento e la vis executiva (art. 336 prima parte).

Il coordinamento logico-sistematico delle sue disposizioni, porta, invero, ad individuare, come limiti necessari di coesistenza, quelli che assegnano, da un lato, una prevalenza immediata all’effetto sostitutivo proprio della sentenza di riforma, e, dall’altro, stabilità, fino al passaggio in giudicato di questa, ai soli atti e provvedimenti precedentemente compiuti in esecuzione della sentenza riformata.

Né il regime così delineato va incontro a modificazioni, nei rapporti giuridici continuativi o di durata, alla cui categoria appartiene anche il rapporto di lavoro, laddove l’esecuzione provvisoria della sentenza di accertamento del rapporto e di condanna ad adempiere le obbligazioni relative, assolve alla sola funzione di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto già accertata.

Così, anche nelle varie ipotesi di esecuzione forzata in forma specifica (consegna o rilascio: art. 2930; obblighi di fare e non fare: artt. 2931 e 2933 c.c.) l’attività di adeguamento al comando giudiziale non produce effetti sostanziali che non siano già previsti dalla sentenza di condanna, restandosi perciò nei limiti di una attività meramente effettuale.

Analogamente, gli atti compiuti per l’esecuzione volontaria o coattiva di sentenze di accertamento o costitutive, recanti condanna all’adempimento (quali, ad esempio, la distribuzione del ricavato; la consegna della cosa mobile; l’immissione nel possesso o nella detenzione dell’immobile) esauriscono in sé la loro funzione di mero adeguamento della realtà di fatto a quella giuridica, producendo gli effetti sostanziali tipici dell’adempimento in conformità alla relazione di diritto sostanziale accertata dalla sentenza.

La norma dell’art. 336 cpv. prevede, appunto, il rinvio dell’effetto estensivo proprio della riforma, mantenendo integre le attribuzioni patrimoniali e le modificazioni sostanziali realizzate prima della riforma e procrastinando al passaggio in giudicato di questa l’attuazione del diritto della parte vittoriosa ad ottenere, in base ad essa, la restituzione di quanto dato o la riduzione in pristino di quanto modificato.

Non può pertanto condividersi il già richiamato assunto delle decisioni del 1982 e seguenti secondo cui la temporanea paralisi dell’effetto estensivo proprio della sentenza di riforma rende inefficace la caducazione della sentenza riformata nell’ambito della fattispecie pregiudicata, questa restando l’effetto giuridico prodotto sulla base della sentenza riformata; che nell’area dell’esecuzione in forma specifica l’inefficacia della riforma rende stabile non la mera attività materiale di adeguamento (consegna della cosa mobile; rilascio dell’immobile, etc.) ma l’effetto giuridico realizzato in conformità alla declaratoria iuris; che, dopo la riforma restano perciò fermi e continuano a produrre effetti, oltre alle situazioni di natura reale, i rapporti obbligatori continuativi ripristinati o costituiti da iure o de facto in esecuzione volontaria o coattiva della sentenza riformata.

Neppure nell’area dell’esecuzione specifica, osserva la Corte, è dato evidenziare alcuna attività esecutiva o di attuazione del comando giudiziale, idonea ad instaurare od a ricostituire rapporti obbligatori continuativi coma autonome fattispecie sostanziali dipendenti dalla sentenza che le accerta,tali perciò da sopravvivere alla riforma di questa, fino al passaggio in giudicato della sentenza di appello.

Né sembra valido il riferimento, d’ordine sistematico, all’esecuzione della sentenza che condanna il locatore a conseguire la cosa locata al conduttore, per potersi ritenere che, anche in tale ipotesi, l’esecuzione forzata o volontaria del comando giudiziale realizzi un rapporto autonomo (di locazione) che resiste all’effetto estensivo proprio della sentenza di riforma (accertante l’inesistenza del rapporto locatizio) fino al passaggio in giudicato di essa.

L’unico effetto sostanziale reso stabile anche dopo la riforma invero consiste nella mera immissione del conduttore nella detenzione della cosa, poiché il rapporto locatizio accertato con la sentenza e reso effettivo con la consegna, non sopravvive, come tale, alla riforma della sentenza.

La consegna della cosa assicura, ex se, il godimento di essa da parte del conduttore, confermando al dictum esecutivo e con effetti che permangono anche dopo la riforma della sentenza di 1° grado e fino al suo passaggio in giudicato, realizzandosi così una semplice situazione di vantaggio processuale a favore del consegnatario, per essersi la detenzione a titolo locatizio trasformata in situazione di mero fatto (peraltro non antigiuridica, perché resa stabile “ope legis” fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma).

Del che trovasi conferma, d’ordine sistematico, nel regime della responsabilità per danni da ritardato rilascio, in cui, come si riconosce nelle stesse decisioni dalle quali ora si dissente, può incorrere il detentore che, nell’ambito della legalità formale, abbia continuato ad avvalersi della provvisoria esecutività della sentenza anche dopo la sua riforma e nonostante il prevedibile esito finale della lite.

Come è stato rilevato in dottrina, la sentenza non trasforma la relazione di diritto sostanziale fra parte vittoriosa e parte soccombente, restando essa regolata dal rapporto sostanziale tutelato.

Si spiega, così, anche l’ipotesi di responsabilità’ aggravata per ingiusta esecuzione, qual’é regolata dall’art. 96 comma 2° C.P.C., sul presupposto che l’atto processuale efficace possegga una temporanea idoneità ad incidere in maniera illecita (dal punto di vista del diritto sostanziale) sulla sfera giuridica dell’obbligo.

Le considerazioni fin qui svolte portano, dunque, ad affermare che il mero adeguamento materiale al dictum esecutivo realizzi l’attività necessaria e sufficiente, richiesta dalla legge affinché l’accertamento sostanziale possa produrre, nella realtà fenomenica, gli effetti che gli sono propri, e che soltanto tale attività esecutiva resti stabilizzata, con i suoi effetti sostanziali, fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma.

D’altra parte, come si è ancora rilevato in sede dottrinale, gli effetti sostanziali di un atto o provvedimento del processo sono previsti solo da specifiche norme del C.C. (artt. 2943; 2642 e segg.; 2908; 2818 e 2884; 2913; 2906) mentre gli atti di esecuzione volontaria o coattiva delle sentenze provvisoriamente esecutive il sistema normativo attribuisce come già detto, la sola efficacia propria degli atti necessari e sufficienti ad adeguare la situazione di fatto a quella di diritto, a portare, cioé, ad effetto l’adempimento, essendo essi da soli inidonei a produrre effetti costitutivi, come quelli propri, invece, degli atti e provvedimenti sopra menzionati.

La teoria della fattispecie autonoma che si costituisce in virtù degli atti di esecuzione della sentenza e che sopravvive alla fattispecie caducata dalla sentenza si riforma, come si osserva in dottrina, postula, d’altra parte, una astrazione del risultato del processo dalla sua base sostanziale, che non trova riscontro nel sistema normativo, nel quale all’esecuzione volontaria o coattiva del comando giudiziale è riconosciuta una funzione attuativa, ma sempre del rapporto già ricostituito “de iure” dalla sentenza e, con essa, l’idoneità a produrre i limitati effetti tipici degli atti di adempimento.

Le sopra svolte considerazioni, generali, riferite al tema specifico di causa, non permettendo di condividere l’assunto espresso dalle citate decisioni del 1982 e fatto proprio dall’ impugnata sentenza, secondo cui anche il solo pagamento della retribuzione dovuta per contratto al lavoratore non reimmesso nel posto di lavoro (art. 18 comma 2°) costituisce atto idoneo a ripristinare in via autonoma il rapporto accertato con la sentenza, realizzando, così, una fattispecie dipendente da essa e che resta insensibile all’effetto estensivo proprio della sentenza di appello assolutoria, fino a quando questa passi in giudicato.

Ed invero, l’adempimento dell’obbligo retributivo, come è dato desumere dalla univoca formulazione dell’art. 18 2° comma, (… il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al comma precedente (cioé all’ordine di reintegrazione) è tenuto … a corrispondere al lavoratore la retribuzione dovutagli in virtù del rapporto di lavoro dalla data della sentenza fino a quella della reintegrazione) e, comma 3° (Se il lavoratore entro trenta giorni … non abbia ripreso servizio, il rapporto si intende risolto) è atto semplicemente finalizzato alla riattivazione funzionale del rapporto che, de iure, mai ha cessato di esistere, né ad esso si può, quindi, riconoscere l’effetto sostanziale della ricostituzione, questo derivando esclusivamente dalla sentenza che ripristina la situazione di diritto già in atto prima del licenziamento dichiarato illegittimo.

Il pagamento della retribuzione, quale atto dipendente dalla sentenza che ordina la reintegrazione, resta, dunque, al di fuori della fattispecie ricostitutiva del rapporto, alla sui formazione la sola pronuncia giudiziale appare elemento necessario e sufficiente.

Con la rimozione di essa la parte della sentenza di riforma assolutoria, la pronuncia di legittimità della risoluzione del rapporto comporta che il licenziamento riassume, a sua volta, l’originaria efficacia, senza che possa ulteriormente operare la sospensione, ex art. 336 cpv. C.P.C., dell’effetto estensivo proprio della sentenza di riforma.

Perciò, il pagamento della retribuzione, pur costituendo adempimento di un obbligo contrattuale, (riprodotto nella norma) i cui tipici e limitati effetti sostanziali sono conservati fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma, non può definirsi atto idoneo a protrarre l’obbligo retributivo oltre la pubblicazione della sentenza di riforma, accertante la legittimità del licenziamento.

Nemmeno può essere condiviso l’ulteriore assunto delle citate decisioni, recepito nella impugnata sentenza e secondo cui a) l’obbligo retributivo costituisce un effetto permanente dell’inottemperanza all’ordine di reintegrazione e, perciò, datasi attuazione ad esso, mediante il meccanismo dell’esecuzione indiretta, questa legittimamente è proseguita dopo la riforma, essendosi in presenza di un effetto dipendente dalla pronuncia riformata; b) l’esecuzione indiretta, quale prezzo dell’inosservanza dell’ordine del giudice non può dare luogo, per l’obbligato, a conseguenze meno onerose di quelle che egli subirebbe in caso di ottemperanza, cosicché fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma.

L’interpretazione della norma ed i dati del sistema in cui essa di inserisce non permettono, infatti, di ritenere che la fattispecie normativa del pagamento della retribuzione, realizzata mediante l’esecuzione volontaria o coattiva dell’obbligo, sia idonea a produrre effetti sostanziali diversi da quelli tipici di una prestazione periodica, che esaurisce in sé la sua funzione satisfattoria e che, pertanto, non può valere a rendere l’obbligo retributivo operante anche dopo la sentenza di riforma che ne accerti, invece, l’inesistenza.

L’impostazione dell’obbligo retributivo, nella scrittura normativa dell’art. 18 comma 2°, diversamente da quanto deve dirsi dell’ordine giudiziale di reintegrazione, non si pone, d’altra parte, nemmeno come comminatoria di condanna, ma riproduce quello che, secondo legge e contratto, costituisce l’obbligo principale del datore di lavoro (artt. 2094 e 2099 c.c.) obbligo che, quale effetto della ricostituzione del rapporto, resta operante anche in mancanza di reintegrazione, ma soltanto fino alla sentenza di riforma.

Diversamente da quanto si afferma nelle citate decisioni, una “enucleazione dell’obbligo retributivo dal complesso degli obblighi reciproci nascenti dal contratto”, che sia operata dalla norma dell’art. 18 comma 2° come effetto permanente dell’inottemperanza all’ordine giudiziale di reintegrazione, non è configurabile nella struttura dello stesso art. 18 comma 2° e, in ogni caso, non risulta concepita come mezzo necessario “affinché il dipendente possa conseguire anche “invito debitore” il pagamento della retribuzione, così da riattivare in concreto questo aspetto del rapporto”.

Estranea alla struttura ed alla ratio dell’art. 18 co. 2°, come sopra delineate, risulta, a sua volta, la previsione dell’obbligo retributivo come sanzione compulsiva che abbia una specifica finalità di coercizione indiretta o, addirittura, di prezzo per l’inosservanza dell’ordine di reintegrazione.

Una attitudine del genere, se, ed in quanto, ipotizzabile, costituirebbe, d’altra parte soltanto un effetto secondario della dichiarazione di illegittimità del licenziamento”.

Mentre una finalità, almeno in parte, sanzionatoria deve essere riconosciuta al dispositivo dell’art. 18 comma 2° ove si attribuisce al lavoratore il diritto la risarcimento del danno subito per il licenziamento in misura “non inferiore a cinque mensilità di retribuzione” ciò, peraltro, non può valere per la contestuale previsione dell’obbligo retributivo a carico del datore di lavoro non ottemperante all’ordine di reintegrazione, questo, che, secondo il costante indirizzo interpretativo di questa S.C., a differenza d quello di risarcimento del danno (presunto iuris et de iure in detta misura minima) è influenzato dagli eventuali guadagni altrimenti conseguiti dal lavoratore ed assume perciò una connotazione di incertezza o variabilità quantitativa concettualmente incompatibile con la funzione sanzionatoria.

La costruzione, da cui questa Corte ora dissente, dell’obbligo retributivo che sopravvive alla riforma, quale prezzo o quale sanzione dell’inottemperanza all’ordine di reintegrazione, come si osserva in dottrina, postula d’altra parte una abnorme resistenza degli effetti del provvedimento giurisdizionale divenuto illegittimo, che non trova riscontro nel dato normativo e che contrasta, inoltre, con il fondamentale principio del sistema secondo cui il processo non può dare vita a situazioni di vantaggio processuale (come quella derivante dalla provvisoria esecutività della sentenza) che restino irreversibili dopo la caducazione del titolo. E pertanto la operatività dell’art. 18 2° comma non è diversa da quella della norma dell’art. 2282, 1° co. c.p.c. sulla esecuzione provvisoria della sentenza, e che viene meno con il cadere del titolo giudiziale che la ha consentita.

Con la pubblicazione della sentenza di riforma cessa infatti l’obbligo retributivo ed i precedenti atti compiuti in esecuzione coattiva o volontaria di esso, come non possono costituire valida premessa alla prosecuzione dell’esecuzione stessa, così restano inidonei, come prima, ad istaurare rapporti o situazioni sostanziali autonome che si sostituiscono a quelle accertare con la sentenza oggetto di riforma e che, a differenza da esse, possono resistere, come dipendenti dalla sentenza riformata, all’effetto estensivo, proprio della sentenza di riforma, fino al passaggio in giudicato di questa.

In forza delle precedenti considerazioni merita censura l’impugnata sentenza ove, in contrasto con i principi sopra esposti, si afferma che l’obbligo retributivo del datore di lavoro inottemperante all’ordine giudiziale anche dopo la sentenza di riforma e fino al suo passaggio in giudicato, come effetto permanente dell’ordine di reintegrazione iniziato prima della riforma.

Il primo motivo di ricorso deve pertanto essere accolto, restando invece assorbiti (perché propongono questioni evidentemente subordinate) gli altri due mezzi, con cui si denunciano rispettivamente: violazione e falsa applicazione dell’art. 363 C.P.C. per avere il Tribunale ritenuti sussistenti i presupposti e le condizioni di ammissibilità del decreto ingiuntivo 17.3.1983 emesso posteriormente alla sentenza di riforma ed in base alla sentenza riformata provvisoriamente esecutiva; violazione dell’art. 92 C.P.C. per avere condannata la soccombente alle spese del giudizio di appello nonostante che ricorressero più che giusti motivi di compensazione.

Ne consegue che l’impugnata sentenza deve essere cassata, con rinvio ad altro Tribunale che, attendendosi ai sopra enunciati principi, provvederà in merito all’appello proposto dalla attuale ricorrente.

Allo stesso giudice del rinvio è demandato anche il regolamento delle spese del presente giudizio, a norma dell’art. 385 C.P.C.

P.Q.M.

La Corte accoglie il 1° motivo; dichiara assorbiti il Ii ed il III; cassa e rinvia, anche per le spese, al Tribunale di Termini Imerese.
Così deciso il 5 novembre 1986.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 27 APRILE 1987