Svolgimento del processo
Con decisioni del Tribunale Amministrativo Regionale della Liguria del 5 dicembre 1974 e del 4 dicembre 1975 (poi confermata dal Consiglio di Stato) il Comune di Genova fu condannato al pagamento a favore della propria impiegata Giuliana Ferrero della somma di lire 1.113.651 a titolo di assegno per un periodo di assenza facoltativa post partum.
A seguito di ciò, il Comune con delibera del 6 maggio 1976 provvide al pagamento della somma suddetta e con successiva delibera del 1° marzo 1977 liquidò gli interessi moratori nella misura del 5% a partire dalla data della prima decisione del TAR (5 dicembre 1974).
La Ferrero allora con ricorso del 9 maggio 1977 conveniva il Comune davanti al Pretore di Genova, chiedendo la rivalutazione della somma suddetta e la liquidazione degli interessi moratori dal momento della maturazione del diritto.
Il Giudice adito, accogliendo l’eccezione del Comune dichiarava la propria incompetenza quale giudice del lavoro e la competenza del Tribunale di Genova.
Questa Corte, investita dal regolamento di competenza, con sentenza 5 aprile 1979 dichiarava che la causa suddetta rientrava fra le controversie di lavoro, riservata per materia al pretore ai sensi degli artt. 409 e 413 C.P.C..
Alla relativa riassunzione del processo provvedeva la Ferrero con ricorso del 5 luglio 1979 e il Pretore di Genova con sentenza del 14 novembre 1979, accogliendo la domanda dell’attrice, condannava il comune di Genova a corrispondere la rivalutazione monetaria della somma liquidata alla Ferrero dalla data del 5 dicembre 1974.
Contro tale decisione ricorreva in appello la lavoratrice lamentando il mancato esame della sua domanda di interessi moratori e la decorrenza della rivalutazione monetaria dal momento della pronuncia della decisione del TAR, invece che dalla maturazione del diritto.
Anche il Comune proponeva appello incidentale sul punto della rivalutazione monetaria.
Il Tribunale di Genova con sentenza del 29 aprile 1981 accoglieva l’impugnazione della Ferrero in ordine agli interessi moratori, rilevando che le regole sulla contabilità dello Stato, invocate dal Comune, attengono alle previste procedure di amministrazione attiva e di controllo necessarie per la formazione della volontà dell’ente e non possono estendersi alla fase giurisdizionale, destinata non all’autotutela della pubblica amministrazione, ma alla tutela di diritti e interessi legittimi dei privati.
Accertava quindi che gli interessi moratori dovevano essere corrisposti alla lavoratrice con decorrenza dalla data di insorgenza del relativo diritto.
Accoglieva però anche l’impugnazione del Comune in ordine alla rivalutazione del credito ritenendo inapplicabile al rapporto di pubblico impiego l’art. 429 C.P.C.
Esaminando poi la richiesta subordinata della Ferrero in ordine al risarcimento del danno ex art. 1224 II comma C.C., la respingeva, osservando che non era stato neppure allegato l’esistenza di maggiori danni, ricollegabili non al semplice decorso del tempo, ma ad altre circostanze che avessero avuto, per ragioni personalizzate rispetto al creditore, incidenza negativa sul suo patrimonio.
Rigettava, infine, la domanda diretta ad ottenere il calcolo degli interessi legali sugli interessi richiesti dal momento della domanda giudiziale, rilevando che l’art. 1283 C.C. non fa riferimento agli interessi moratori.
Avverso tale decisione ricorre per cassazione la Ferrero, proponendo due motivi di annullamento.
Resiste il Comune di Genova con controricorso, con il quale propone altresì ricorso incidentale condizionato e ricorso incidentale autonomo, affidato ognuno ad un mezzo di gravame. Il Comune inoltre ha presentato memoria.
Motivi della decisione
I ricorsi, quello principale e quello incidentale, poiché riguardano la medesima sentenza vanno d’ufficio riuniti in un solo processo a norma dell’art. 335 C.P.C.
Con il primo motivo del ricorso principale, denunciando la violazione e falsa applicazione degli artt. 124 II comma 1226, 2729 C.C. e dell’art. 115 C.P.C. nonché omessa e insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia, lamenta la Ferrero che il Tribunale abbia respinto la sua domanda di maggiori danni, formulata a norma dell’art. 1224 II comma sopra citato, per la mancata prova della causa personalizzata del danno derivante dal diminuito potere di acquisto della moneta, senza tenere minimamente conto della giurisprudenza di questa Corte, che, pur escludendo nella specie il principio della rivalutazione monetaria automatica, ha ammesso l’utilizzabilità da parte del giudice del fatto notorio e delle presunzioni fondate sulle condizioni e qualità personali del creditore e sulle modalità di impiego del denaro coerenti con tali elementi, utilizzando anche il potere equitativo di cui all’art. 1226 C.C.. Ciò premesso, osserva la ricorrente che nella specie era pacifico in causa che il suo credito si era maturato nel corso di un rapporto di pubblico impiego e in occasione di un’assenza facoltativa dal lavoro post partum. L’assegno non corrisposto doveva, perciò, sopperire alle necessità economiche di essa ricorrente in un momento particolarmente delicato della sua vita e quindi permetterle di mantenersi nei mesi in cui, dovendosi dedicare all’allevamento della figlia nei suoi primi mesi di vita, era rimasta a casa senza percepire emolumento alcuno dal Comune .
Il Tribunale di Genova, invece, aveva respinto la domanda, adducendo un difetto di prova specifica, senza utilizzare altri elementi probatori, come presunzioni semplici e lo stesso fatto notorio.
Il motivo è fondato. Deve innanzitutto rilevarsi che non è stato fatto oggetto di censura il principio affermato dalla sentenza impugnata sull’inapplicabilità ai crediti derivanti dal rapporti di pubblico impiego dell’art. 429 C.P.C., per cui il problema si restringe all’applicabilità nella specie dell’art. 1224 comma 2° C.C., quale norma di carattere generale relativa a qualsiasi obbligazione di valuta, che non sia stata tempestivamente adempiuta; tale norma, a differenza dell’art. 429 C.P.C., che deve essere applicata d’ufficio e indipendentemente dalla prova del danno, assoggetta l’attribuzione del maggior danno per il ritardo nell’adempimento all’onere della domanda e della dimostrazione del danno, e ciò anche se si deduce che esso si è determinato per il solo effetto della svalutazione monetaria.
Ma questo proposito la decisione delle Sezioni Unite 4 luglio 1979 n. 3776, cui si è adeguata tutta la giurisprudenza successiva di questa Corte, pur ribadendo che in tema di inadempimento delle obbligazioni pecuniarie la svalutazione monetaria, verificatasi durante la mora del debitore, non giustifica in sé alcun risarcimento automatico (sotto il profilo del danno emergente), che possa essere attuato con la rivalutazione della somma dovuta, ma può essere solo causa di danni maggiori di quelli coperti con l’attribuzione degli interessi legali, e dopo aver confermato l’onere di allegazione e di dimostrazione da parte del creditore del pregiudizio patrimoniale, senza alcuna limitazione di ogni possibile mezzo di prova, ha precisato che il giudice può, in mancanza di altre specifiche prove, utilizzare, oltre che il notorio acquisito dalla comune esperienza, presunzioni fondate su condizioni e qualità personali del creditore e sulle possibilità di impiego del denaro coerenti, secondo i criteri della normalità e della possibilità, con tali elementi, per desumere dal complesso di questi dati (integrando ove occorra i risultati dell’indagine con l’esercizio dei poteri equitativi) quali maggiori utilità, nei singoli casi, la somma tempestivamente pagata avrebbe potuto procurare al creditore medesimo, restando fermo l’onere del creditore di dimostrare in maniera più specifica l’eventuale danno emergente derivante dal fatto di aver dovuto procurarsi la somma (non pagatagli dal debitore) a condizioni particolarmente svantaggiose mediante alienazioni di beni reali o il danno allegato con riferimento ad investimenti particolari specificamente programmati e poi resi impossibili dall’inadempimento del debitore.
E riguardo ai normali impieghi del denaro la predetta decisione ha proceduto ad analitiche esemplificazioni, indicando, in particolare, per il “modesto consumatore” la possibilità di far riferimento “alle normali e personali necessità di impiegare il danaro per gli ordinari bisogni della vita e quindi con riferimento (ciò nel caso può costituire il criterio residuale più attendibile) agli indici ufficiali dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati”.
Ciò premesso, è vero che non basta solamente la qualità di impiegata (pubblica) e la natura sostitutiva dello stipendio, che aveva nella specie l’assegno non corrisposto alla Ferrero, per riconoscere automaticamente il diritto al maggior danno: infatti tali elementi vanno pur sempre valutati nel contesto globale della situazione del soggetto, considerando tutte le sue possibilità economiche, le condizioni di vita personale e familiare, nonché le peculiari sue necessità, in modo cioé da determinare, concretamente, sia pure per presunzioni, quale più vantaggiosa destinazione egli avrebbe potuto dare alle somme spettantegli tenendo conto che qualunque impiego del denaro, anche la spendita in beni di consumo, produce ricchezza riconducibile al valore della moneta (vedi Cass. 27 gennaio 1984 n. 651) e accertando in tal modo se il creditore avrebbe immediatamente speso la somma (in tutto o in parte in beni di consumo immediato o in beni di consumo durevole) o avrebbe potuto, almeno parzialmente, accantonarla come risparmio. Ma, di fronte alla specifica domanda dell’attrice di risarcimento del danno da svalutazione ex art. 1224 II comma C.C., essendo notoria la svalutazione medesima e pacifica la qualità di impiegata della Ferrero, il Tribunale, pur esattamente negando applicazione al principio di svalutazione automatica, non avrebbe potuto esimersi, anche in mancanza di altre specifiche prove, dall’esaminare in relazione al predetto art. 1224, la possibilità di trarre, agli effetti di cui sopra, delle conseguenze di carattere presuntivo, eventualmente ricorrendo anche a criteri equitativi. Ciò acquista particolare valore per il giudice del lavoro, non solo per l’ampia possibilità a lui riconosciuta di valutare equitativamente il danno (art. 432 C.P.C.) ma soprattutto per i maggiori poteri ad esso conferiti dalla legge e per la possibilità, anche nel procedimento di appello, di procedere al libero interrogatorio delle parti, presenti all’udienza di discussione, e di trarre da esso argomenti di convincimento (vedi Cass. 16 maggio 1984 n. 3009; Cass. 22 ottobre 1981 n. 5555; Cass. 7.3.77 n. 938).
Di carattere troppo generico, in relazione ai suddetti, elementi, devono considerarsi pertanto le considerazioni svolte dal Tribunale circa la mancanza di allegazioni da parte dell’attrice in ordine al fondamento della sua domanda di risarcimento del danno da svalutazione, il che si è risolto in vizio di insufficiente motivazione.
L’accoglimento del primo motivo del ricorso principale comporta l’esame del ricorso incidentale condizionato proposto dal Comune di Genova, con il quale si deduce la violazione dell’art. 345 I comma C.P.C. nonché l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, rilevabile d’ufficio.
Sostiene il resistente che la Ferrero nel ricorso introduttivo del giudizio del maggio 1977 aveva chiesto la rivalutazione monetaria solo con riferimento all’art. 429 C.P.C.. Lo stesso sarebbe avvenuto con il ricorso in riassunzione del luglio 1979 (nel quale fra l’altro non avrebbero potuto essere proposte domande nuove per la preclusione derivante dall’art. 414 C.P.C.), nelle cui conclusioni era stato richiesto espressamente il pagamento ai sensi dell’art. 429 C.P.C. del danno per diminuzione del valore del credito secondo gli indici ISTAT. Solo con l’appello sarebbe stato per la prima volta formulata la domanda di risarcimento del danno da svalutazione ex art. 1224 C.C., domanda da considerarsi nuova rispetto a quella di rivalutazione automatica, avendo petitum, causa petendi e presupposti anche di fatti diversi.
Il Comune lamenta quindi che il giudice di appello non abbia rilevato d’ufficio l’inammissibilità di tale domanda, ma l’abbia esaminata nel merito, sia pure per rigettarla.
La censura è infondata.
La Ferrero con il ricorso in riassunzione del luglio 1979 introduttivo del presente giudizio, nell’esposizione in diritto, dopo aver invocato l’applicazione nella specie dell’art. 429 C.P.C., chiedeva “in alternativa” il risarcimento ex art. 1224 C.C., invocando, per la prova del danno ulteriore rispetto agli interessi legali moratori, le presunzioni ammesse dalla decisione di questa Corte 30 novembre 1978 n. 5670 (poi in parte corretta dalla decisione delle Sezioni Unite sopra esaminata) che allegava in copia autentica.
Ora è vero, che, poi, nelle conclusioni formulate alla fine dell’atto suddetto richiedeva solo la rivalutazione di cui all’art. 429 C.P.C., ma è giurisprudenza costante di questa Corte che, al fine dell’individuazione del contenuto della domanda, non bisogna limitarsi a considerare il tenore letterale della richiesta conclusiva formulata dalla parte, ma occorre ricostruire la volontà con riferimento anche ai fatti esposti e alle considerazioni svolte nella parte motiva dell’atto, nonché alla finalità avuta di mira dall’istante, essendo sufficiente che le richieste delle parti risultino in qualunque modo espresse nelle difese, purché siano chiaramente desumibili da esse (vedi in questo senso Cass. 22 marzo 1984 n. 1922; Cass. 1 giugno 1983 n. 3748; Cass. 24 luglio 1981 n. 4479).
Pertanto, allorché la Ferrero, impugnando su altri punti la sentenza di primo grado, che aveva accolto la domanda di rivalutazione monetaria ex art. 429 C.P.C., ha nuovamente sollevato la questione dell’applicabilità in alternativa dell’art. 1224 II comma C.C., non ha proposto una domanda nuova, ma si è limitata a riproporre, a norma dell’art. 346 C.P.C., la domanda alternativa non esaminata dal primo giudice, evidentemente in funzione di un probabile appello incidentale da parte del Comune (che in effetti poi è stato proposto sull’applicabilità nella specie dell’art. 429 C.P.C.. Altrettanto infondata è poi l’eccezione del resistente, secondo la quale in ogni caso la domanda di risarcimento del danno, proposta con l’atto di riassunzione in primo grado, sarebbe inammissibile a norma dell’art. 414 C.P.C., perché nel ricorso introduttivo del giudizio del maggio 1977 era stata richiesta solo la rivalutazione monetaria ai sensi dell’art. 429 C.P.C..
Indipendentemente dal fatto che, mancando agli atti il primo ricorso introduttivo del giudizio, non è possibile verificare il contenuto della domanda formulata in tale atto, l’eccezione suddetta è in ogni caso infondata.
Le ragioni di accelerazione del procedimento nonché quelle di tutela delle esigenze del contraddittorio e di lealtà processuale, che sono alla base del divieto di proposizione di domanda muove nel procedimento di primo grado del giudizio del lavoro, non sussistono allorché, a seguito del giudizio di regolamento di competenza che si inserisce nel giudizio di primo grado come un incidente limitato alla risoluzione della questione di competenza, il processo viene riassunto con un nuovo ricorso, che ha tutte le caratteristiche formali di un atto introduttivo del giudizio. In tale caso, se l’attore aggiunge alla domanda originariamente proposta una domanda nuova e diversa, non si verifica alcun ritardo nel procedimento né alcuna violazione delle esigenze del contraddittorio, avendo il convenuto la possibilità con la memoria difensiva di esperire tutte le sue difese in ordine alla nuova domanda. Resta fermo solamente che, in ordine alla nuova richiesta, l’atto di riassunzione vale come atto introduttivo di un nuovo giudizio, e quindi non si verifica rispetto ad essa la conservazione degli effetti processuali e sostanziali conseguiti rispetto alle altre domanda con il primo ricorso introduttivo del giudizio (vedi per casi simili Cass. 29 ottobre 1983 n. 6457; Cass. 20 settembre 1977 n. 4027): ma quest’ultimo problema non ha alcun rilievo nel caso in esame.
Con il secondo motivo del ricorso principale, denunciando la violazione dell’art. 1283 C.C. nonché omessa e insufficiente motivazione, lamenta la ricorrente che il Tribunale abbia respinto la sua domanda diretta ad ottenere gli interessi sugli interessi maturati dalla domanda giudiziale, sotto il profilo che l’art. 1283 C.C. non riguarderebbe gli interessi moratori. Sostiene, invece, la Ferrero che detta norma, per la sua collocazione e per la sua ampia formulazione, trova applicazione rispetto a qualsiasi tipi di interessi, siano essi compensativi, corrispettivi o moratori.
Anche questo motivo è fondato.
Gli interessi anatocistici sono dovuti sugli interessi di qualsiasi natura e quindi anche su quelli moratori (vedi per un’applicazione di tale istituto agli interessi moratori Cass. 13 febbraio 1982 n. 900; Cass. 19 ottobre 1968 n. 3371; Cass. 16 febbraio 1965 n. 252): è evidente infatti che anche questi interessi (al pari di quelli compensativi) si concreta in una somma di denaro, che, sia pure nei limiti fissati dall’art. 1283 C.C., è produttiva di interessi.
L’unica questione che è stata fatta in giurisprudenza è se l’anatocismo si applichi solo ai debiti di valuta o si estenda anche a quelli di valore, dopo la loro liquidazione, e in qualche decisione questa estensione è stata esclusa (Cass. 22 giugno 1983 n. 3803; Cass. 17 maggio 1966 n. 1262); ma trattasi di questione ininfluente nel presente giudizio in cui il debito del Comune di Genova era sicuramente un debito di valuta.
Con l’unico motivo di ricorso incidentale autonomo il Comune resistente, denunciando la violazione dell’art. 1224 C.P.C. nonché insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, impugna il capo della sentenza con il quale è stata accolta la domanda di interessi moratori proposta dalla Ferrero. Sostiene il Comune che il diritto della lavoratrice era sorto solo dalla decisione del giudice amministrativo in data 5 dicembre 1974 che aveva risolto una complessa questione di interpretazione del regolamento organico. Prima di tale pronuncia non esisteva un diritto della Ferrero e quindi da tale data (o al massimo della messa in mora dell’amministrazione comunale avvenuta con la notifica del ricorso al TAR ) dovrebbero decorrere gli interessi moratori. Tale ricorso è però inammissibile. L’art. 334 C.P.C. consente l’impugnazione incidentale tardiva, quando questa non solo sia diretta contro lo stesso capo di sentenza già investito dalla impugnazione principale (o contro un capo dipendente o connesso) ma anche si ricolleghi ad un interesse insorto proprio per effetto dell’impugnazione principale (vedi in questo senso Cass. 29 marzo 1985 n. 226; Cass. 12 febbraio 1985 n. 1186; Cass. 9 febbraio 1985 n. 1073). L’elemento dell’interesse, anzi, assume un rilievo determinante, perché è in relazione all’ambito della sua applicazione che si definiscono i capi dipendenti o connessi, che possono essere investiti dall’impugnazione incidentale tardiva.
E sotto questo profilo è essenziale considerare il momento in cui nasce tale interesse: se esso sorge dalla proposizione dell’impugnazione principale, in quanto questo mette in discussione il presupposto comune della decisione, è consentito alla parte di impugnare tardivamente anche contro soggetti e punti controversi diversi da quelli contro cui è diretta l’impugnazione principale, mentre se l’interesse nasce direttamente dalla sentenza, è consentita solo l’impugnazione incidentale autonoma.
Nella specie il ricorso principale della Ferrero censurava il capo di sentenza che aveva respinto la domanda di ulteriore risarcimento del danno e quello relativo alla mancata attribuzione degli interessi anatocistici; mentre il ricorso incidentale del Comune investe il capo della decisione che attiene invece alla decorrenza degli interessi moratori.
Tale capo è del tutto autonomo, da quelli censurati con il ricorso principale, e non è in alcun modo ad essi connesso: nessun rilievo ha infatti la circostanza che il ricorso principale riguardi pur sempre un problema di interessi (quelli anatocistici) perché è giurisprudenza costante di questa Corte che la richiesta di pagamento degli interessi sugli interessi costituisce domanda nuova e diversa rispetto alla richiesta degli interessi principali scaduti (vedi in questo senso Cass. 19 gennaio 1983, n. 500; Cass. 22 febbraio 1975 n. 670; Cass. 29 luglio 1974 n. 2290).
Non è superfluo aggiungere che l’interesse all’impugnazione del capo relativo alla decorrenza degli interessi moratori sorgeva direttamente dalla sentenza, in quanto il ricorso principale, accolto o no, non metteva in alcun modo in discussione quel capo di sentenza, che sarebbe rimasto in ogni caso immutato.
Detta impugnazione, pertanto, anche se proposta in via incidentale restava soggetta al termine ordinario, non essendo ad essa applicabile la disciplina dell’impugnazione incidentale tardiva, che riguarda la diversa ipotesi dell’impugnazione incidentale, che trae interesse dalla proposizione di quella principale. Essa, invece, è stata proposta con controricorso notificato il 13 luglio 1982, dopo oltre un mese dalla scadenza dell’anno dal deposito della sentenza d’appello, avvenuto il 5 giugno 1981.
In conclusione va accolto il ricorso principale, rigettato quello incidentale condizionato e dichiarato inammissibile quello incidentale autonomo. In relazione ai motivi accolti la sentenza impugnata va cassata e la causa va rinviata al Tribunale di Chiavari, il quale provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizi di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso principale, rigetta l’incidentale condizionato e dichiara inammissibile il ricorso incidentale autonomo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia al causa anche per le spese del presente giudizio al Tribunale di Chiavari.
Roma, 24 Settembre 1985.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 24 MAGGIO 1986