Svolgimento del processo

Con citazione del 16 agosto 1969 M.N., C.R. e Ma.Ni. (questi nella qualità di amministratori del condominio dell’isolato (OMISSIS), costruito dai costruttori R.A. e G.D.), convennero questi due davanti al Tribunale di Messina chiedendone la condanna all’eliminazione delle numerose deficienze e irregolarità costruttive esistenti nel fabbricato e specificamente indicate nell’atto introduttivo.

I convenuti negarono l’esistenza di tali vizi e deficienze. Il Tribunale dispose indagine tecnica, affidata al geom. T., che depositò la relazione del 18 maggio 1970.

Intanto con altra citazione del 13 aprile 1970, i coniugi M.N. e A.R., Ma.Ni. e D.T.M., A.G. e M.M., Co.An. e Co.Ma. e D.C.P., proprietari di unità immobiliari nel detto isolato, dedotto che a seguito dell’indagine tecnica T. essi istanti erano venuti a conoscenza che il fabbricato condominiale presentava gravi vizi e difetti costruttivi aventi indubbia incidenza sulla durata dell’immobile, citarono il R. e il G. dinanzi allo stesso Tribunale, e chiesero in via principale e ove gli appartamenti fossero ritenuti inabitabili, la risoluzione del contratto di compravendita stipulato con detti costruttori venditori e la restituzione del presso rispettivamente pagato oltre il risarcimento del danno; o, in subordine la condanna dei convenuti all’eliminazione dei vizi, con il risarcimento dei danni nei limiti dell’incidenza negativa sul valore dell’intero immobile dei gravi difetti esistenti.

Anche questa domanda venne contestata da R. e G., che negarono l’esistenza di vizi e difetti costruttivi tali da incidere sulla abitabilità e sulla durata del fabbricato.

I giudizi vennero riuniti. Disposti nuovi accertamenti tecnici affidati all’ing. Re., il Tribunale, con sentenza del 23 ottobre 1978, dichiarò la decadenza dei proprietari degli appartamenti dell’Agenzia di cui all’art. 1495 c.c., e ne rigettò la relativa domanda;

mentre ritenne i convenuti obbligati per i gravi difetti accertati nel fabbricato ai sensi dell’art. 169 c.c., liquidando in danni in complessive L. 26.557.600, condannando le stesse parti al pagamento di tale importo oltre gli interessi ed alla metà delle spese processuali.

Contro questa sentenza proposero appello principale M.N., A.R., Ma., D.T., A.G., M.M., C.R., le due Co. e D.C., e separatamente R. e G..

Gli appelli vennero riuniti, e la Corte di appello di Messina, con la oggi denunciata sentenza del 6 dicembre 1979, in parziale riforma della sentenza gravata, elevò la condanna per danni a carico di R. e G. a L. 23.213.300 con gli interessi dalla domanda giudiziale al pagamento, e quella per spese di lite. Condannò inoltre gli stessi R. e G. alle spese di grado.

Si ritiene che esattamente il primo giudice, fondandosi sugli accertamenti tecnici acquisiti, aveva ritenuto sussistere nel fabbricato in questione lesioni agli incastri ed in mezzeri di gran parte delle travi che costituiscono l’intera intelaiatura delle strutture in cemento armato, nonchè uno strapiombo nel senso est ovest ed in quello nord – sud rispettivamente di cm. 12 e cm. 8; che tali difetti erano ineliminabili e destinati ad aggravarsi in futuro attesa la particolare natura del terreno su cui insisteva la fabbrica, in zona sismica e per la esistenza di falde acquifere sotterranee, delle quali non s’era tenuto conto – procedendosi quindi a preventiva bonifica radicale – nella costruzione, e che tali difetti erano indubbiamente gravi e ne andava attribuita la responsabilità ai costruttori.

Si ritenne poi che gli accertamenti dei periti non erano mai stati posti in dubbio ne contestati degli interessati, onde la domanda andava accolta, posto che ai fini dell’applicabilità dell’art. 1669 c.c., la responsabilità di controparte doveva ravvisarsi non solo ove l’opera presentasse evidente pericolo di rovina, ma anche quando essa presentava difetti tali da incidere profondamente sugli elementi essenziali della costruzione, quali quelli delle strutture portanti, come nella fattispecie.

Si ritenne poi, quanto ai termini, essere appena il caso di rilevare che i difetti relativi allo strapiombo ed all’esistenza delle falde acquifere erano venuti a conoscenza dei vari proprietari solo a seguito degli accertamenti del geom. T., e che la domanda era stata proposta ancor prima del deposito della relazione, per la ufficiosa conoscenza avutane dagli interessati, in danno dei quali, pertanto, non si era verificata la decadenza invocata dai convenuti.

Si considerò infondata la doglianza del R. e del G., secondo la quale il Tribunale avrebbe liquidato i danni in misura eccessiva e senza avere accertato prima se era possibile la eliminazione dei difetti, perchè i consulenti avevano chiaramente affermato che essi erano ineliminabili sul piano sostanziale e passabili al più di restauro estetico, che non avrebbe comunque fatto venir meno l’incidenza negativa degli stessi sul valore del fabbricato, determinata, in armonia con il concorde parere dei periti nell’8%.

E così la doglianza relativa all’eccessività del risarcimento, perchè la determinazione del danno era stata operata sulla base dei valori correnti del 1971, pari al L. 8.720.000, rivalutate secondo i dati ISTAT riferiti al maggio 1978, pari al 204,56% nella somma liquidata in primo grado, secondo dati non censurati nella loro concreta esistenza ed esattezza da alcuna delle parti, e quindi coperti da giudicato, e da aumentarsi di un ulteriore 10% per reintegrazione dei danni da ulteriore pregiudizio per successiva svalutazione monetaria intervenuta nelle more del giudizio.

Conseguiva, ad avviso della Corte del merito, che l’importo dell’intero pregiudizio andava elevato a L. 29.213.300, in aderenza al consolidato principio che l’obbligo di risarcimento dei danni, debito di valore che si converte in debito di valuta solo alla pronunzia giudiziale di liquidazione, non può prescindere dalla svalutazione monetaria verificatasi medio tempore, accertabile anche ex officio allo scopo di rendere la reintegrazione patrimoniale sempre adeguata al danno subito.

Fu accolta la doglianza dei vari proprietari relativa alla decorrenza degli interessi stante la diversa funzione degli stesso rispetto alla rivalutazione, onde i primo andavano attribuiti dal dì della domanda, perchè fino da tale data i creditori avevano diritto a riceversi il pagamento del risarcimento.

Quanto alle spese processuali di primo grado, la statuizione del giudice, fondata su facoltà discrezionali rettamente usate, andava confermata quanto alla parziale compensazione, mentre ne andava modificato l’importo in base alla opera prestata dai legali in relazione alle tariffe vigenti, e ciò almeno per le spese e i diritti. In secondo grado poi si era avuta piena soccombenza del R. e del G., onde le relative spese andavano poste per l’intero a loro carico.

R. e G. chiedono l’annullamento di questa sentenza per otto motivi, dei quali il primo non costituisce una autonoma e specifica censura, ma ha valore di introduzione ai successivi. Resistono con controricorso M.N., A.R., C.R., Ma., D.T., A.G., M.M., Co.An. e Co.Ma.; e con separato controricorso D.C.P.. Le parti presentano memorie.

Motivi della decisione

I ricorrenti sostengono in limine la inammissibilità della memoria presentata dalla D.C. sul presupposto che non essendosi la stessa costituita, pur avendo avuto tempestiva notificazione del ricorso, ella appunto non può presentare memorie, ammissibili soltanto ad illustrazione di un controricorso tempestivamente presentato. Ma questa eccezione è infondata: invero la D.C. ha intitolato il suo scritto defensionale “memoria”, ma si tratta di un vero e proprio controricorso presentato nei termini di legge: esso fu, infatti, notificato ai ricorrenti lo 1 marzo 1980, quando il ricorso era stato notificato alla parte il 25 gennaio precedente, come risulta dalle rispettive relazioni.

Ciò premesso, e ricordato che il primo motivo di impugnazione non si concreta in una censura vera e propria, ma in una premessa di carattere generale alle singole successive doglianze, è necessario passare all’esame delle stesse.

Con il primo mezzo R. e G. denunziano violazione e falsa applicazione dell’art. 1669 c.c.; oltre che vizio di motivazione, in ordine al punto della mancata tempestiva denunzia dei vizi di costruzione dell’edificio.

Essi affermano che gli attori avevano proposto due distinte azioni in due giudizi diversi, poi riuniti già nel primo grado e decisione con unica sentenza, che s’era formato il giudicato sui punti di cui al primo atto di citazione attinente a vizi non gravi ed immediatamente riconoscibili, non denunziati negli otto giorni della scoperta; che essi deducenti avevano già sollevato davanti alla Corte del merito l’eccezione di inammissibilità delle altre domande, respinta però a seguito di una indagine di fatto soltanto apparente e priva di ogni riferimento al fatto che in entrambi i casi si trattava degli stessi vizi in ordine ai quali la domanda era stata respinta; che, se si trattava di detti medesimo vizi, ed anche maggiori, tanto più erano riconoscibili e denunziabili tempestivamente anche perchè non potevano essere diventati noti solo a seguito della perizia del T..

La censura è infondata. In effetti gli attori avevano, in un primo tempo lamentato la esistenza di vizi non rilevanti, quali infiltrazioni di umidità ecc.; ed in effetti i primi giudici ritennero, in relazione alla anteatta possibilità di riconoscimento di tali vizi, che la denunzia degli stessi, in quanto tali, non era stata tempestiva ai sensi dell’art. 1495 c.c.. Ma nel corso del giudizio, dispostasi una perizia, risultò che detti non gravi vizi apparenti erano conseguenza di gravi e fondamentali difetti della costruzione, tali da incidere sulla sua stabilità futura e sulla sua abitabilità, interessanti le strutture portanti dell’edificio, e non rilevabili secondo la normale diligenza e competenza tecnica degli interessati ab externo; difetti che ancora non avevano dato, ma avrebbero in futuro dato, causa a situazioni allarmanti, ed anzi tali da essere rilevati solo a seguito di una indagine tecnica esperita da professionisti. E poichè i difetti costruttivi interessavano le stesse strutture portanti in cemento armato, il Tribunale, assai opportunamente, dispose nuova perizia affidandola questa volta ad un ingegnere.

Questi, come ricordato, confermò in pieno le conclusioni del geom. T..

Proprio la deduzione dei ricorrenti circa le due distinte azioni mostra che la censura è priva di fondamento. Non è il caso di riferirsi ad un giudicato, posto che la decisione in ordine alla intempestività della denunzia dei difetti lievi atteneva ad un’azione diversa per oggetto, titolo, e parzialmente sotto il profilo soggettivo, da quella autonomamente instaurata nel corso del giudizio già presente; e infatti nella prima si chiedeva l’eliminazione dei difetti che erano apparsi lievi o il risarcimento del danno in relazione alla garanzia di cui all’art. 1490 c.c., mentre nella seconda si chiedeva il risarcimento del danno per difetti gravissimo, di natura del tutto diversa, e non rilevabili nè rilevati prima della Consulenza T. (ossia non conoscibili prima di una indagine di carattere squisitamente tecnico) in relazione alla proposizione dell’art. 1669 c.c..

La coincidenza delle manifestazioni esteriori di difetti lievi con difetti particolarmente gravi non comporta identità di azioni, sicchè la decisione sull’una domanda in nulla può influire sull’altra.

Ciò premesso, l’indagine di questa Corte deve limitarsi alla tempestività della denunzia e difetti di particolare gravità; o meglio alla motivazione adottata dalla Corte del merito su tale punto.

Essa appare del tutto corretta ed aderente ai principi di diritto ed alla consolidata giurisprudenza, in perfetta correlazione con le risultanze processuali. Ai fini della garanzia prevista dall’art. 1669 c.c., sono gravi difetti della costruzione quelli che, pur non rappresentando pericolo di rovina, incidono profondamente sugli elementi essenziali dell’opera, compromettendone la conservazione nel tempo e menomandone in modo apprezzabile le condizioni di godimento. E’ accertato e pacifico in atti che l’edificio venne costruito dagli attuali ricorrenti; che si sono verificate sconnessioni nei collegamenti delle strutture in cemento armato; che nei suoi lati la costruzione presenta strapiombi, che la stessa venne eretta su terreno ricco di falde idriche senza alcuna necessaria preventiva bonifica. E se la valutazione della gravità dei difetti è un accertamento di merito rimesso allo apprezzamento del giudice del fatto, onde il suo riconoscimento sfugge – qualora sorretto da adeguata motivazione – al sindacato di legittimità, l’impugnata sentenza è sorretta da una indagine assai accurata, e le conclusioni trattene nei gradi di merito si presentano logiche e coerenti, onde già sotto questo profilo la censura non può trovare ingresso.

D’altra parte, il termine di decadenza per la denuncia del committente dei gravi difetti dell’edificio costruito dall’appaltatore, ai fini dell’azione di responsabilità ex art. 1669 c.c., decorre non da momento in cui il denunciante abbia avuto conoscenza dei segni e delle manifestazioni esteriori di pericolo incombente sull’edificio, ma dal momento in cui abbia acquistato un grado apprezzabile di conoscenza obiettiva e completa non soltanto della gravità dei difetti stessi, ma anche e soprattutto del loro collegamento causale all’attività di esecuzione dell’opera espletata dall’appaltatore.

Tale conoscenza del difetto e delle sue specifiche cause, oltre che dalla sua gravità, non consegue, se non raramente, alla constatazione dell’aspetto delle cose (salvo che non si tratti di manifestazioni indubbie, come cadute o rovine estese e avvenimenti simili), ma per lo più, se si tratta di opere di una certa entità, allo espletamento di indagini tecniche, suggerite dalla ovvia e commendevole prudenza di non intraprendere azioni infondate. In siffatte ipotesi il termine decorrere dalla relazione del tecnico, anche se lo accertamento si sia compiuto e concluso alla presenza dello stesso appaltatore.

In sostanza la responsabilità del costruttore a monte della ricordata norma ricorre in tre distinte ipotesi, e cioè nel caso di avvenuta rovina totale o parziale dell’edificio; in quello dell’attuale pericolo, certo ed effettivo, che in un futuro più o meno prossimo possa verificarsi detta rovina totale o parziale, oppure qualora esistano gravi difetti della costruzione tali da pregiudicarne la possibilità di quella lunga durata che dovrebbe essergli propria. Come già illustrato, ciascuna di queste tre ipotesi deve essere legata da un nesso di causalità o ad un difetto di costruzione, oppure ad una qualità deteriore del suolo preesistente alla costruzione medesima.

Va, infine, precisato che l’ambito della garanzia preveduta dall’art. 1669 c.c., non resta ristretto al solo appaltatore nei confronti del committente, ma investe ancora quella del costruttore venditore nei riguardi del compratore; come avviene nel caso di specie.

Alla stregua di tali consolidati principi, la Corte del merito ha accertato, con indagine esente da vizi e omissioni, che la stessa esistenza, oltre che la particolare gravità, dei vizi e difetti in questione potè essere nota agli interessati soltanto in esito alle indagini tecniche disposte dal giudice, e che l’azione venne intrapresa ancor prima del deposito della consulenza, perchè gli attori avevano avuto conoscenza ufficiosa delle sue risultanze.

Non si può quindi, sotto alcun riguardo, far questione di intempestività della denuncia. Il motivo deve essere rigettato.

Con il secondo mezzo i ricorrenti lamentano difetto di motivazione su punto decisivo della controversia e violazione dell’art. 350 c.p.c.. Essi affermano che la Corte del merito non prese in esame la richiesta di ammissione dell’interrogatorio degli attori circa la data di consegna degli immobili, circostanza, questa, decisiva per determinare la decadenza della garanzia. E che lo stesso giudice non dispose il totale rinnovo della consulenza tecnica, del tutto indispensabile in vista del gatto che il CTU ing. Re. limitò la sua indagine a vista, rifiutando qualsiasi controllo tecnico sulle strutture che si ritennero non suscettibili di riparazioni le lesioni riscontrate.

Questo mezzo è anche esso infondato.

E invero, una volta accertato che i gravi difetti si sarebbero potuti rilevare solo a seguito dell’indagine tecnica, l’accertamento della data di consegna delle unità immobiliari agli attori era del tutto inutile non essendo sorta questione circa il manifestarsi dei vizi entro il decennio di cui all’art. 1669 c.c..

Quanto alla consulenza, va rilevato che l’ing. Re. non eseguì specifiche prove sulle strutture perchè, come ebbe ampiamente a motivare con ragioni ritenute fondate dalla Corte del merito, siffatte prove avrebbero comportato il pericolo assai grave e incombente di crolli il che sul piano logico, comporta a) che i difetti erano necessariamente assai gravi; b) che interessavano le strutture in misura tale da rendere impossibile ogni riparazione.

Lo stesso consulente – che confermò le precedenti conclusioni del geom. T. – si dette carico di esaminare i calcoli del cemento armato, ma la Corte del merito accertò sussistente la impossibilità del CTU di procedere a tale esame, essendo stato ritenuto vero che egli non potè disporre dei calcoli stessi, non forniti dai costruttori interessati e non reperiti presso i vari pubblici uffici presso i quali il consulente aveva avuto la diligenza di cercarli.

Il disporre una consulenza tecnica, ed ancor più rinnovarla, è demandato alla prudente discrezionalità del giudice del merito, onde il rifiuto di procedere a tanto, anche in contrasto con le sollecitazioni delle parti, non è censurabile in sede di legittimità. Ma nella specie va aggiunto che, sia pure per implicito, esiste nella denunciata sentenza una ben esauriente motivazione sul punto; e infatti, quando per il concorde parere avrebbe significato compromettere la stessa stabilità dell’edificio e quando non vi era alcuna possibilità di rivedere i calcoli del cemento armato (possibilità non data dagli stessi ricorrenti interessati), una nuova consulenza sarebbe stata del tutto vana, e si sarebbe risolta in un inutile e dannoso ulteriore carico processuale. Nè è esatto che i tecnici e segnatamente l’ing. Re., abbiano apoditticamente affermato che in ogni caso i difetti delle strutture in cemento armato non siano suscettibili di riparazione; invece essi affermarono, e la Corte del merito fece proprie tali conclusioni che nella specie non vi era possibilità di riparazione. E poi va detto che i ricorrenti non hanno specificato la natura e la consistenza delle dedotte possibilità di riparazione, in modo da far ritenere attendibile la loro censura in relazione alla coerenza logica della motivazione.

Con il terzo motivo R. e G. lamentano ulteriore violazione dell’art. 1669 c.c., e difetto di motivazione nel senso che se il Tribunale aveva disposto una nuova consulenza tecnica affidandola ad un ingegnere, quella precedente eseguita dal geometra, non sarebbe servita a nulla; ma a nulla sarebbe servita quella successiva posto che l’ingegnere aveva “confessato” di non aver eseguito alcuna indagine. Su tale questione la Corte del merito non avrebbe motivato, ed il vizio di motivazione sarebbe tanto più grave, quanto essi deducenti avrebbero potuto procedere alle riparazioni, specie in considerazione del fatto che le controparti abitavano nell’edificio già da quattordici anni, essendo l’edificio stato costruito nel (OMISSIS), senza rilevare alcun inconveniente.

Questa doglianza non è altro che una ripetizione di quella precedente.

Basta al riguardo, richiamare ancora che i giudici dell’appello accertarono in fatto, con indagine esente da omissione e vizi logici, che l’ingegnere aveva fatto le indagini che aveva potuto fare in relazione alla specifica situazione, e non quelle che non poteva fare, anche in conseguenza del fatto degli allora appellati, ossia della mancata presentazione al tecnico dei calcoli del cemento armato altrove irreperibili.

Quanto al valore della prima e della seconda indagine tecnica, l’argomentazione dei ricorrenti è manifestamente capzioso. L’indagine demandata al geom. T., come riconosciuto dalla Corte del merito, atteneva ai lievi vizi dedotti con la prima citazione; nell’espletamento di essa vennero in luce i gravi difetti strutturali; il Tribunale, evidentemente riferendosi alla legge sulle attribuzioni professionali in subiecta materia, considerò che le indagini sul cemento armato rientravano nella competenza dell’ingegnere e non in quelle del geometra e provvide di conseguenza. Il fatto che il professionista di più alto livello abbia ritenuto esatte le conclusioni di colui che lo aveva preceduto negli accertamenti non dimostra che la prima perizia “non servisse a nulla” ma che detto ausiliare, benchè privo della specifica consulenza tecnica, aveva visto giusto; o in altre parole, che i vizi riscontrati erano tali da potere essere riconosciuti, nella loro sostanziale gravità anche da un geometra; e che essi non erano suscettibili di riparazione. Del difetto di altre indagini si è detto, ed è inutile soggiungere che il consulente è tenuto agli accertamenti ed alle prove che è possibile fare e non a quelle che si dimostrano impossibili.

R. e G. si dolgono poi (con il quarto motivo) di pretesa altra violazione dello art. 1669 c.c., assumendo che se la gravità del fatto era stata ritenuta integrante gli estremi di questa norma senza alcuna indagine, allora si sarebbe dovuto applicare l’art. 1667 c.c., perchè come risulta dalla sentenza denunciata, l’edificio non presenta alcun pericolo attuale di crollo, è abitato da circa 14 anni ed ha sopportato senza alcuni danni varie scosse telluriche.

Questa censura si risolve in una ripetizione della prima, al cui esame si rimanda. Basterà ricordare che l’art. 1667 c.c., prevede ipotesi diversa da quella dei difetti gravi e sostanziali dell’opera, che si applica non solo nei rapporti tra appaltatori e committenti, ma anche in quelli tra costruttore e venditore e compratore; che non è necessaria ai fini della garanzia in esso preveduta, l’attualità del pericolo di crollo, bastando che l’opera presenti difetti tali da renderla inadatta, totalmente o parzialmente, all’uso cui è destinata per la durata naturale e propria di essa; e che il fatto che non sia ancora crollata o abbia resistito ad alcuni sismi in nulla rileva, a meno di non pervenire alla inammissibile conclusione che la responsabilità del costruttore può riconoscersi solo nell’ipotesi di rovina immediata, sia pure per effetto di un movimento tellurico.

Con il quinto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dello art. 346 c.p.c., e vizio di motivazione, assumendosi che erroneamente la Corte di merito confermò il conteggio eseguito dal Tribunale e vi applicò il criterio rivalutativo. Secondo i ricorrenti apodittica e l’affermazione che i dati del conteggio non erano stati tempestivamente censurati nella loro concreta esattezza e sussistenza da alcuna parte in causa; il criterio seguito poi, avrebbe dimostrato l’inesistenza di gravi difetti; che non si era indagato sulla riparabilità dei difetti stessi e sulle loro conseguenze circa l’abitabilità delle unità immobiliari; che non si era accertato se il prezzo pagato era oppur no comprensivo del deprezzamento dell’ufficio conseguente a tali difetti; che gli attori sono comproprietari dell’immobile pro indiviso e quindi possono pretendere il risarcimento pro capite e non cumulativamente; che per le parti comuni si sarebbe dovuto escludere ogni risarcimento, non essendo stato il condominio parte in causa.

Questo motivo è inammissibile. Gli attuali ricorrenti si richiamano al terzo motivo di appello, che avrebbe contenuto le censure ora esposte.

Questo però riguardava la mancata effettuazione, da parte del Tribunale, dell’indagine preliminare sulla possibilità “di eliminare i difetti” e “sulle conseguenze che la esistenza dei danni aveva sull’abitabilità dell’edificio”.

Come si vede, la doglianza aveva ben altro contenuto e fine, e non comportava specifiche contestazioni sia sul quantum del danno, sia sulle percentuale di incidenza sul valore dell’edificio o dell’unità immobiliari comprensive, sia della ripartizione del risarcimento.

Si tratta quindi, di questioni che si risolvono in part in mere ripetizioni di altre non più ampiamente proposte e sviluppate, e in parte sono del tutto precluse in sede di legittimità, perchè non sollevate in appello.

R. e G. sostengono poi (sesto mezzo) che la Corte di Messina incorse in violazione dell’art. 429 c.p.c., (da applicarsi al loro avviso in via analogica) assumendo che la Corte di Appello non solo si pronunziò sulla rivalutazione del danno, ma li condannò anche al pagamento degli interessi sulla somma rivalutata a far tempo dalla domanda; mentre avrebbe dovuto ritenere che il credito rivalutato maturava gli interessi da dì della pronunzia e non da quello della domanda.

Anche questo motivo è infondato. A prescindere dal fatto che l’art. 429 c.p.c., è dettato in relazione a particolari rapporti, dai quali esula del tutto quello in questione, onde non è possibile l’invocata applicazione analogica, si deve rilevare che, come questa stessa Corte ha già ritenuto (da ult. Sent. n. 1961 del 21 marzo 1980), la maggior somma attribuita non rappresenta il risarcimento di un danno maggiore ma soltanto di una diversa espressione monetaria del danno medesimo.

Da ciò discende la produttività di interessi dalla epoca in cui il pregiudizio economico venne inferto; e sotto altro riguardo, non può dubitersi che nella specie si verte in materia di debito di valore, onde la decisione impugnata non presenta neppure per questo capo il lamentato errore giuridico.

Con il settimo ed ultimo mezzo i ricorrenti lamentano violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., assumendo che in appello essi avevano lamentato la compensazione delle spese operata dai giudici di primo grado, le quali, al pari di quelle dell’appello, avrebbero dovuto essere posto a carico delle controparti;

senza considerare che gli attori erano stati acquiescenti alla pronuncia del Tribunale su quel capo, un vista del rigetto delle domande da loro proposto con la prima citazione del 16 agosto 1969 e di parti di quelle avanzate con la seconda citazione del 13 aprile 1970.

Premesso che, per quanto rilevar possa, gli appellanti principali chiesero la liquidazione in maniera più congrua delle spese del giudizio di primo grado e vittoria completa per quella di secondo (v. concl. Appello), si osserva che, comunque, la doglianza è inammissibile. Invero la liquidazione e l’attribuzione delle spese processuali attiene alla potestà discrezionale del giudice, tenuto solo a non violare il principio per il quale l’onere suntuario non può essere posto a carico della parte totalmente vittoriosa; e, nella specie, gli odierni ricorrenti soccombettero, in entrambi i gradi, in ordine alle domande più rilevanti proposte contro di loro dagli attuali resistenti.

Il rigetto del ricorso comporta la condanna dei ricorrenti in solido al rimborso delle spese di questo giudizio in favore dei resistenti con separata liquidazione perchè questi ultimi hanno resistito con separati controricorsi l’uno presentato dalla D.C. e l’altro presentato da tutti gli altri.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido alle spese in favore dei resistenti liquidandole in L. 531.200, comprese L. 500.000 di onorari per la D.C., e in L. 723.650, comprese L. 700.000 di onorario per M.N. e gli altri consorti.
Così deciso in Roma, il 16 febbraio 1982.
Depositato in Cancelleria il 25 maggio 1982