Svolgimento del processo

Guerra Alfredo venne licenziato dalla società V.D.P. s.p.a. (già Vicentini s.p.a.) per giusta causa consistente nell’essersi assentato ingiustificatamente dal lavoro per un numero di giorni superiore a quello previsto dalla disciplina collettiva quale ipotesi di legittima risoluzione del rapporto.
Con ricorso al Pretore di Vicenza il Guerra, assumendo che nel periodo di assenza era stato affetto da una “grave forma di depressione ansiosa”, malattia che, da un lato, giustificava l’assenza medesima e, dall’altro, rendeva non imputabile, per mancanza di dolo o di colpa, l’omissione dell’invio della certificazione medica, chiedeva la reintegrazione nel posto di lavoro con ogni statuizione accessoria ex art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
Nel contraddittorio con la società datrice di lavoro il Pretore, con sentenza in data 22 gennaio 1996, rigettava la domanda.
Il lavoratore proponeva appello che il Tribunale di Vicenza respingeva con sentenza del 16 giugno 1997.
Ha considerato il Tribunale che il Guerra si assentò dal lavoro, senza fornire all’azienda alcuna giustificazione, a decorrere dal giorno 20 febbraio 1995 e, quantomeno, sino al pomeriggio del giorno 24 febbraio, quando si presentò in azienda e apprese dall’amministratore delegato che gli era stata inviata la lettera di contestazione. Tuttavia, ha sottolineato il Tribunale, neppure a tale lettera il lavoratore dette riscontro e solo il giorno 8 marzo 1995 i suoi familiari lo accompagnarono in azienda per cercare di porre rimedio alla situazione. Ha osservato, quindi, il giudice di appello: che la mancata prestazione lavorativa ingiustificatamente protratta per oltre quattro giorni integrava la previsione contrattuale di risoluzione del rapporto di cui all’art. 25 del CCNL di settore; che il non controverso inadempimento era grave e rilevante in rapporto alle esigenze aziendali specificatamente tutelate dalla norma collettiva e che proporzionato appariva, rispetto a tali esigenze, il provvedimento risolutivo ; che il comportamento addebitato al lavoratore non era in alcun modo scusabile, non avendo egli fornito alcuna valida ragione del protrarsi dell’assenza e dimostrando anzi le assunte prove testimoniali che, almeno inizialmente, questa era dipesa da una sua scelta volontaria e consapevole , mentre , quanto alla “grave forma di depressione ansiosa”, peraltro diagnosticata in epoca successiva al periodo preso in considerazione, non era stato adeguatamente provato dal Guerra che la detta patologia gli avesse prodotto, proprio in quel periodo, uno stato di incapacità ad autodeterminarsi e comunque un’apprezzabile limitazione delle sue facoltà mentali, tale da impedirgli l’adempimento degli obblighi contrattuali.
Di questa sentenza il Guerra chiede l’annullamento con ricorso fondato su due motivi. La società datrice di lavoro non si è costituita.

Motivi della decisione

Osserva preliminarmente la Corte che, nella intestazione del ricorso per cassazione (e, per conseguenza, in quella del fascicolo di ufficio e del dispositivo di udienza), il nominativo del ricorrente é stato indicato in Sandro Guerra anziché in Alfredo Guerra per mero errore materiale, come risulta dalla procura speciale al difensore apposta in calce al ricorso stesso , che chiaramente appare rilasciata da Alfredo Guerra.
Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione dell’art.7 dello Statuto dei lavoratori e vizio di omessa motivazione. Assume che il Tribunale non avrebbe considerato la circostanza che il giorno 24 febbraio, prima che arrivasse a destinazione la lettera di contestazione, l’amministratore delegato aveva respinto la sua offerta di prestazione e usato parole come “non c’é più nulla da fare, sei stato considerato assente ingiustificato” che dimostravano una volontà di recesso dell’azienda già divenuta irreversibile , senza che gli fosse stato concesso il prescritto termine a difesa.
Con il secondo motivo deduce violazione dell’art.2119 cod.civ. e dell’art.3 della legge n.604 del 1966 e vizio di insufficiente e parzialmente omessa motivazione sulla configurabilità del comportamento di esso ricorrente come giusta causa o giustificato motivo soggettivo.
Sostiene che il Tribunale ha erratamente interpretato l’art.25 del CCNL di settore come norma prefigurante uno speciale inadempimento “oggettivo” ( indipendente cioé dalla colpa del lavoratore) e aggiunge che il giudizio sulla legittimità del licenziamento esigeva, comunque, un’indagine sulla sussistenza e la intensità dell’elemento soggettivo, posto che la “giusta causa” consiste in un inadempimento “colpevole”. Altri errori della impugnata sentenza sarebbero quelli di aver considerato soltanto la incapacità di intendere e di volere causa idonea ad escludere la giustificatezza del licenziamento e di aver addossato al lavoratore l’onere di darne dimostrazione , mentre incombeva sul datore di lavoro provare la giusta causa nella sua componente oggettiva e in quella soggettiva e, quindi, il dolo e la colpa del dipendente licenziato. Tra l’altro, secondo il ricorrente, la motivazione del Tribunale non terrebbe in alcun conto gli elementi acquisiti al processo, che dimostravano l’assenza di qualunque rimproverabilità della condotta e comunque l’assoluta tenuità della ipotetica colpa, e svaluterebbe, ingiustificatamente, il contenuto della certificazione medica attestante la dipendenza dell’assenza dalla “grave forma di depressione ansiosa” di cui egli soffriva.

Il ricorso va accolto nei limiti delle considerazioni che seguono.
La rappresentazione del ricorrente, secondo cui le parole dette dall’amministratore in occasione del suo ritorno in azienda dimostrerebbero che la società datrice di lavoro si era già determinata a licenziarlo, appartiene alla mera sfera soggettiva (non essendo stato dedotto alcun elemento a sostegno di tale tesi) e, comunque, è irrilevante perché si limita alla denuncia di una condotta assunta come illecita, che però non incide sulla incontroversa avvenuta osservanza della procedura di contestazione prescritta dall’art. 7 della legge 20 maggio 1970 n. 300, rispetto alla quale quella condotta è del tutto esterna.
Non fondata è anche la tesi che il giudice del merito avrebbe ravvisato nella previsione dell’art. 25 del CCNL un’ipotesi di inadempimento “oggettivo”. Più volte, infatti, la impugnata sentenza sottolinea come la disposizione negoziale consideri inadempimento sanzionabile con il licenziamento non il mero protrarsi dell’assenza dal lavoro per oltre quattro giorni consecutivi ma il suo protrarsi “ingiustificato”; una mancata prestazione dell’attività dovuta imputabile, dunque, a responsabilità (vale a dire a colpa) del lavoratore per l’inosservanza di precisi doveri di informazione e motivazione del sopravvenuto impedimento che, rispondendo ad un’istanza di corretta esecuzione del contratto, devono essere da lui assolti anche in assenza di espresse prescrizioni legali o convenzionali in tal senso.
Vero è, invece, che l’indagine sul contenuto della norma contrattuale, interpretata come ipotesi di recesso datoriale “.. del tutto distinta ed autonoma rispetto a quelle degli altri inadempimenti e delle inosservanze nell’adempimento del lavoro..” è chiaramente finalizzata alla verifica della legittimità di una simile previsione; verifica conclusasi positivamente (e non adeguatamente censurata in questa sede) operando la norma, a giudizio del Tribunale, “..a tutela del regolare funzionamento dell’attività produttiva e dell’obbligo del lavoratore di essere presente in azienda e fornire le prestazioni d’opera convenute.”
Neppure può dirsi violato dalla impugnata sentenza il principio della non vincolatività delle norme collettive in materia di licenziamento per giusta causa, dal momento che alla verifica della oggettiva gravità e rilevanza dell’inadempimento come pure della sua possibile scusabilità (sotto il profilo dell’elemento intenzionale) é dedicata l’intera motivazione, la quale esordisce considerando un dato addirittura pacifico tra le parti (e, ancora oggi, non contestato nel ricorso per cassazione) quello che non venne dal lavoratore fornita alcuna spiegazione della sua condotta integrante ripetuta violazione dell’obbligo di fornire la prestazione lavorativa dovuta né inizialmente e neppure in risposta alla lettera di contestazione e conclude affermando come il Guerra non potesse considerarsi esente da responsabilità per tale suo comportamento omissivo, dal momento che la sindrome depressiva da lui in seguito dedotta a discolpa non aveva caratteristiche tali da eliminarne o ridurne le capacità intellettive e volitive.
Anche la tesi del ricorrente secondo cui era onere della società datrice di lavoro provare la colpevolezza del comportamento in concreto addebitatogli contrasta con le numerose decisioni di questa Corte nelle quali si afferma che, ove una specifica previsione del contratto collettivo configuri l’assenza ingiustificata del dipendente come causa di legittima risoluzione del rapporto, il datore di lavoro è tenuto soltanto a dimostrare l’assenza nella sua oggettività, mentre è a carico del lavoratore l’onere di provare sia il fatto giustificativo, come pure l’impossibilità di darne tempestiva comunicazione (cfr. Cass. sent. 22 dicembre 1997 n. 12951, 19 febbraio 1986 n. 1003, 17 novembre 1984 n. 5889, 10 settembre 1980 n. 5204).
Era dunque onere del Guerra, come correttamente rilevato dal Tribunale, provare l’esistenza di ragioni giustificatamente ostative dell’adempimento della prestazione lavorativa, come pure il suo stato di buona fede o comunque di colpa non grave nel non averne dato tempestiva notizia alla società datrice di lavoro.
La sentenza impugnata è, invece, affetta dai denunciati vizi di motivazione nella parte in cui ha ritenuto non assolto, neppure in via presuntiva, il detto onere probatorio.
Certo è infatti, che il Guerra soffriva, fin dal mese di gennaio 1995, di una “grave forma di depressione ansiosa”, come attestato dal certificato del medico curante in data 15 marzo 1995.
Il Tribunale dà atto dell’esistenza della malattia, ne riconosce la idoneità “..a provocare indubbi disagi nella sfera psichica e fisica del soggetto ammalato..” , ma subito dopo, con valutazione non supportata da adeguato accertamento medico legale né da sufficiente argomentazione della motivazione, afferma che la natura della patologia “.. non appare tale da determinare, sia pure temporaneamente, uno stato patologico di assoluta incapacità di intendere e di volere dell’interessato, né un’apprezzabile limitazione delle sue facoltà mentali..”
E poiché una siffatta valutazione tecnica che non spiega come si concili la pur riconosciuta gravità della sofferenza psichica con la sua asserita inattitudine a produrre, anche temporaneamente, una rilevante alterazione del normale livello di consapevolezza e di capacità di scelta del soggetto colpito ha rilievo determinante nel “decisum” della impugnata sentenza perché è sulla sua base che il Tribunale ha escluso la impossibilità per il Guerra di rendersi conto della sua condotta inadempiente, negando quindi ogni scusabilità della condotta medesima, il ricorso va accolto limitatamente al dedotto insufficiente esame di questo punto decisivo, sul quale l’accertamento di merito dovrà essere rinnovato.
Consegue all’accoglimento del ricorso nei sensi sopra precisati la cassazione della impugnata sentenza e il rinvio della causa ad altro giudice di appello, designato nel Tribunale di Treviso, il quale provvederà anche al regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, al Tribunale di
Treviso.
Così deciso in Roma il 26 ottobre 1999